Il conte di Luna: Placido Domingo
Leonora: Anna Netrebko
Azucena :Marie-Nicole Lemieux
Manrico: Francesco Meli
Ferrando: Riccardo Zanellato
Regia e scene: Alvis Hermanis
Direttore: Daniele Gatti
Wiener Philarmoniker
La prima più attesa dei Salzburger Festspiele 2014, stando alla richiesta di biglietti che eccedeva di ben sei volte la disponibilità, era senza dubbio Il Trovatore. Il motivo è presto detto: sul palcoscenico calava il poker d’assi Meli, Netrebko, Domingo, Lemieux. La responsabilità di gestire questo capitale va alla strana coppia Gatti-Hermanis, rispettivamente sul podio e per regia e scene. Un’alchemia non facile e riuscita solo in parte.
Non si può che parlare di trionfo per la componente vocale, col pubblico delle grandi occasioni che ha dimostrato un calore da loggione. In particolare ed a sorpresa la palma pare poter esser assegnata a Francesco Meli, che riesce a superare nell’applausometro perfino le due superstar al suo fianco. A conquistare è sicuramente l’eccezionale bellezza ed omogeneità del timbro, sostenuto da quell’emissione pressoché perfetta che è oggi una rarità assoluta nei tenori. Canto sempre spiegato, fraseggio elegante e moderazione anche nel dosare le mezze voci, dove soltanto egli deve forzare una leggera artificiosità. Anche l’eventuale remora di chi amerebbe un Manrico dal colore più scuro si dissolve di fronte alla generosità della voce di Meli, che dimostra di essere a tutti gli effetti un serio candidato al posto di maggior tenore di questa generazione.
Conferma la ricchezza del suo mezzo vocale anche la sempre più matronale Anna Netrebko, che ha oramai acquisito pieno possesso tanto dei ruoli lirici quanto di quelli drammatici. Il passare degli anni sta portando ad un evidente ingrossamento drammatico della voce, parzialmente a scapito delle qualità che l’avevano resa famosa nei suoi primi anni di carriera. Nel ruolo complesso ed ibrido di Leonora ad esempio ci pare dimostrare minor brillantezza di un tempo nei passaggi di agilità, mentre sono impareggiabili i momenti in cui la voce si dispiega drammaticamente (concertati inclusi, perché il volume è decisamente impressionante). Qualche perfettibilità resta infine sempre sul fronte del fraseggio più intimo e travagliato (pensiamo al Miserere), risolto quasi sempre con i cliché del mestiere e un po’ di dozzinalità. Un miglioramento in questo senso non ci pare tuttavia probabile.
La prestazione di Plácido Domingo rimane in linea con quanto ci ha fatto sentire ultimamente il più celebre non-baritono del mondo, e speriamo con questo di aver detto a sufficienza per non dover intaccare il ricordo di uno dei più grandi in assoluto (ma in altri anni e altro registro). Questa parte gli calza comunque meglio di altre baritonali (Simon Boccanegra per dirne una) in quanto non manca di passaggi quasi tenorili dove è immediatamente percettibile un maggiore agio. E poi resta inalterata la sua dote di mattatore del palcoscenico, a cui basta una frase (magari sul silenzio del resto dell’organico come in “Ho le furie nel cor“) per rimanere impresso, al di là di ogni affanno. Dove c’è lui il teatro è pieno e le ovazioni non mancano mai. Qualcosa deve pur significare, nel bene come nel male.
Marie-Nicole Lemieux infine ha tutti i pregi e i difetti di chi viene dalla musica barocca: precisione ed estensione da una parte, eccesso di vezzi stilizzati e necessità di forzare la drammaticità della voce dall’altra. Azucena non ci pare proprio essere il suo ruolo insomma, e viene seriamente da chiedersi a chi sia venuto in mente questo abbinamento. Perfetta la sincronia e intonazione nei concertati ma incolpevolmente troppo debole e inadeguata poi la voce nei momenti in cui dovrebbe venir fuori come espressione terrificante delle forze ctonie, terrestri e materne, che travolgono alla fine tutti quanti nella cieca furia della vendetta.

Veniamo così anche agli altri due punti di interesse della produzione: la regia di Hermanis e la direzione di Gatti. Alvis Hermanis pare interessarsi all’opera solo per la prima scena, quella del racconto di Ferrando, decidendo di ambientare l’intera opera in un museo nel quale guide, visitatori e dipendenti cominciano ad immedesimarsi nelle opere appese dopo averle raccontate. Idea non nuovissima ma possibilmente azzeccata in avvio, col problema di gestire la lunga distanza. Dopo questa trasformazione non succede infatti quasi più nulla: per un atto sussiste ancora la gradevolezza estetica di vedere scorrere i capolavori del Rinascimento, ma poi rimane sempre più l’impressione che questo concetto registico sia, alla fine dei conti, privo di una reale drammaturgia. Non una regia fallimentare dunque ma quanto meno un mezzo spreco, soprattutto considerando il valore anche solo attoriale degli interpreti ed i mezzi a disposizione. Se Hermanis ha osato in fondo poco, l’opposto si può dire di Daniele Gatti, che con le sue oramai note scelte ultraricercate e particolari a tutti i costi ha di fatto agito da zavorra ed impedito ad un insieme di tale livello di decollare musicalmente. Gatti ripete infatti tutti i difetti già mostrati in altre poco felici direzioni verdiane (La Traviata scaligera del dicembre scorso sia un buon riferimento): pesantezza, non rari scollamenti, scarso senso del dramma, onfalocentrismo delle trovate agogiche. Troppo pochi i colpi di classe (che non comunque non gli mancano mai) per bilanciare una generale fiacchezza d’assieme. Per una volta se non altro non porta a casa troppi dissensi, sull’onda dell’entusiasmo generale, ma anche qui la decisione di scritturarlo per un’opera come Trovatore ci rimane alquanto misteriosa. Non particolarmente sugli scudi anche i WIener Philharmoniker, che fra un Bruckner ed uno Strauss non paiono essere entrati in pieno nello spirito dell’esecuzione verdiana!
Ma in fondo tutti questi sono dettagli, perché la produzione è già un tutto esaurito assicurato e la Großes Festspielhaus rischia seriamente il crollo per eccesso di applausi e ovazioni. L’opera oggi è anche questo: mettere assieme tanti grandi nomi conta spesso più che metterli insieme con senno.
Alberto Luchetti