Elisabetta: Edita Gruberova
Roberto Devereux: Pavol Breslik
Sara: Veronica Simeoni
Duca di Nottingham: Alexey Markov
Direttore: Andriy Yurkevych
Regia: Giancarlo del Monaco
Il belcanto oltralpe è ultimamente appannaggio di poche primedonne assolute. Una di queste è senza dubbio Edita Gruberova, che nonostante sia oramai prossima ai 70 anni non mostra alcuna remora nell’affrontare alcuni fra i ruoli più impegnativi di questo repertorio. Il pubblico zurighese l’aveva riabbracciata con entusiasmo un paio di anni fa per il suo debutto in La Straniera, e da allora è una beniamina della casa. Con il Roberto Devereux non siamo certo di fronte ad un debutto, anzi, e il confronto col passato diventa impietoso. D’altro canto lo spettacolo è lei, zoppa non si sa se per la recente rottura della gamba o per finzione scenica, con la faccia arcigna non si sa se per naturale corso del tempo o per finzione scenica, col fraseggio nervoso e spezzato non si sa se per mancanze di fiato o per finzione scenica. In ogni caso tutto funziona perfettamente, il personaggio di Elisabetta si divora tutti gli altri portando avanti una regia altrimenti decisamente statica e polverosa. Se il teatro è pieno, all’ultima recita della stagione e all’ennesima replica di uno spettacolo che va in scena da 15 anni, il merito è in ogni caso suo, come dimostra il trionfo con standing ovation finale.
Se poi è proprio necessario parlare anche del canto, qualcosa si incrina. Restano piacevoli le sue filature e i legati nel registro acuto, così come è ancora magistrale l’interprete drammatica nel fraseggio e nella coordinazione con la gestualità. Le si può perdonare anche qualche libertà nell’intonazione e nei tempi (cabalette regolarmente al rallentatore per prendere fiato, frasi spesso corrette in itinere), ancorché queste creino parecchi problemi nei pezzi d’assieme dove tutti devono adeguarsi alle sue esigenze e cercare di mantenere il tono corretto a fronte di una costante oscillazione in quello della diva. Andando poi al registro grave, che non è mai stato il suo forte, l’effetto è quasi parodistico. La voce di petto è oramai quasi del tutto stimbrata e ingrossata in maniera a dir poco artificiosa. Da perla nera, ma apprezzabile in ogni caso la nonchalance e il coraggio con cui la Gruberova tira dritto oltre ogni difficoltà portando comunque a casa un grosso successo. Tutto fa spettacolo, anche se di musica se ne è sentita poca.
Suo “complice” è il direttore d’orchestra Andriy Yurkevych, che non a caso è spesso a lei abbinato nei cast degli ultimi anni. Si potrebbe quasi dire che fosse lui a guardare lei per dare gli attacchi all’orchestra e agli altri cantanti, tanto la direzione era funzionale alla performance della primadonna. Fin dall’ouverture la sua lettura non è parsa particolarmente ambiziosa o caratterizzata, limitandosi a ben scandire i tempi senza azzardare la minima ombra di ricercatezza. Qualche brillantezza è venuta fuori solo nel terzo atto, ad esempio nell’introduzione all’aria del tenore.
Tutto di ottimo livello, seppur necessariamente oscurato dal monopolio scenico della Gruberova, il resto del cast. Veronica Simeoni è ai giorni nostri fra i mezzosoprani belcantistici di maggior fama e affidabilità, ed anche oggi ha dimostrato il perché: timbro scuro e piacevole, voce sempre precisa ed educata, fraseggio sapiente seppur di maniera. Non è ancora artista tale da commuovere le platee o da essere l’asso che un teatro si gioca per riempire la sala, ma le potenzialità vocali ci sono tutte. Roberto Devereux è invece Pavol Breslik, tenore tanto richiesto all’estero quanto sconosciuto in Italia. Supponiamo la ragione sia il timbro chiaro (ulteriormente schiarito in acuto), che tradizionalmente trova più spazio oltralpe, perché per il resto la sua è una voce di assoluto interesse. Intonazione perfetta, linea di canto pulita e coinvolgente, presenza scenica efficace: un pacchetto già completo. Chiude la rassegna dei protagonisti il Duca di Nottingham, Alexey Markov, anch’egli molto positivo per sicurezza in emissione, volume genoroso e buona dizione.
Dei difetti della regia di Giancarlo del Monaco abbiamo già accennato fra le righe. Sente tutti i lustri che si porta dietro (la prima risale al 1997), col suo impianto scenico pesante (tre pareti tipo carcere che si alzano per rivelare il coro disposto come una giuria, mentre i protagonisti agiscono nell’arena al centro) e poco suggestivo, seppur ben realizzato scenograficamente. Incomprensibile poi la scelta di far vestire il coro ed alcuni personaggi minori in maniera ottocentesca, mentre i protagonisti hanno i costumi cinquecenteschi come da libretto: un rigurgito di intellettualismo che poco c’entra con la maggior parte delle messe in scena di questo regista, per lo più noto per lo stile oleografico e didascalico. Uno spettacolo che forse si potrebbe anche abbandonare…
Alberto Luchetti