Dramma tragico in due parti e tre atti

La poesia è del Sig.Salvatore Cammarano.

La musica è del maestro Sig.Gaetano Donizetti.

Prima assoluta: 26 settembre 1835

Teatro San Carlo, Napoli

Lord EnricoAsthonBoris Pinkhasovich
Miss Lucia,  di lui sorellaLisetteOropesa
Sir Edgardo  di RavenswoodJuan Diego Flórez
Lord ArturoBucklawLeonardo Coltellazzi
Raimondo Bidebent,  educatore e confidente di LuciaMichele Pertusi (13, 16, 29 aprile; 2 e 5 maggio) Carlo Lepore (20, 23, 26 aprile)
Alisa, damigella di LuciaValentina Pluzhnikova*
Normanno, capo degli armigeri  di RavenswoodGiorgio Misseri
 *Allieva dell’Accademia Teatro alla Scala
Coro di Dame e Cavalieri, congiunti di Asthon; Coro di abitanti di Lammermoor; Paggi, armigeri, domestici di Asthon
  
DirettoreRiccardo Chailly
Regia, scene  e costumiYannis Kokos
LuciVinicio Cheli
VideoEric Duranteau
Collaboratrice  del registra e  drammaturgaAnne Blancard

La Lucia di Lammermoor è sicuramente uno dei titoli più noti del maestro Donizetti, amatissimo in particolar modo per le parti virtuosistiche dei due protagonisti. Per questa produzione, che avrebbe dovuto aprire la stagione scaligera, il direttore Riccardo Chailly riapre tutti i tagli di tradizione e ci offre finalmente l’ascolto integrale del capolavoro del bergamasco. Ci sono anche una quarantina di battute che Donizetti cancellò parzialmente durante le prove a Napoli e vengo ascoltate in questi giorni per la prima volta in assoluto. Non sappiamo i motivi che portarono il bergamasco a cancellare i passaggi ma è interessante entrare nelle pieghe della composizione e dei ripensamenti. I passaggi in esame sono una frase nella prima aria di Lucia, alcune battute nel temporale del terzo atto, poche battute affidate a Raimondo e coro nella sua aria del terzo atto, tre frasi di Lucia prima della cabaletta della pazzia.

Questo, insieme all’utilizzo dell’armonica a bicchieri di Friedrich Heinrich Kern, impiegata nella celebre “scena della pazzia”, permette di rendere al pubblico l’opera ideata e pensata da Donizetti nella sua totalità.

            “L’avvenimento – recita il libretto della prima assoluta – ha luogo in Iscozia […]. L’epoca rimonta al declinare del secolo XVI”. Il toponimo Lammermoor è l’anglicizzazione delle Lammermuir Hills, colline site a circa un’ora a sudest da Edimburgo e nel cui nome si può leggere una caratterizzazione del personaggio di Lucia (Lammermoor <Lammermuir<lambs’ moor, brughiera degli agnelli); sicuramente i nomi parlano molto di più al lettore anglofono (ricordiamo che Cammarano deduce il libretto da The bride of Lammermoor, romanzo storico di Walter Scott pubblicato nel 1819), al quale Asthon, cognome con cui ci si riferisce maggiormente al fratello, può immediatamente rimandare alla cenere (ash).

La storia è basata su un fatto realmente accaduto nella famiglia scozzese dei Dalrymple ed è incentrata sul declino della famiglia Asthon, rappresentata dal sanguigno lord Enrico, che tenta di risollevarsi tramite il matrimonio di miss Lucia col rampollo dell’agiata casata dei Bucklaw, lord Arturo; Lucia, tuttavia, è segretamente innamorata di Sir Edgardo, erede della famiglia rivale dei Ravenswood.

Presso una fontana del parco dei Ravenswood i due amanti si scambiano gli anelli e si giurano amore eterno ma Enrico, tramite il fido Normanno, intercetta le lettere che Edgardo scriverà a Lucia e, per piegarla a sposare Arturo, le mostra una finta lettera in cui si legge che Edgardo si è promesso a un’altra donna. Lucia cede e, sconvolta, firma l’accordo nuziale.

Edgardo irrompe nella scena e, alla vista del foglio siglato, maledice Lucia e sfida Enrico a duello.

Nelle ultime due scene l’infausto epilogo: mentre in casa Buclaw fervono i festeggiamenti per il matrimonio di Arturo e Lucia, questa accoltella il novello sposo e si mostra agli invitati – e al pubblico – in preda alla follia d’amore prima di restare “quasi priva di vita, fra le braccia di Alisa”, sopraffatta dal dolore.

Edgardo, presentatosi nel luogo fissato per il duello con Enrico, apprende della morte di Lucia e del sentimento che essa provava per lui e, preso dal rimorso, si pugnala.

            La regia di Yannis Kokkos appare semplice e tradizionale e sorprende se si pensa che era studiata per un 7 dicembre. Probabilmente per l’inaugurazione del 2020 si sarebbero fatte le cose più in grande. Pochissimi elementi su sfondi uniformi frastagliati solamente da muri o sagome arboree e costumi non inerenti alla moda del periodo della storia vogliono eternizzare la vicenda per far capire che l’opera non tratta del passato ma si può vivere nel presente. Così, la statua di un cervo identifica la famiglia dalla tradizione venatoria degli Asthon, una figura dormiente e velata sostituisce la fontana nel parco dei Ravenswood e un Tristo Mietitore troneggia sull’ultima scena decorata con un paio di lapidi.

Anche i movimenti degli attori appaiono stereotipati e prefissati e nulla, purtroppo, è aggiunto a livello visivo; anche il lavoro delle luci è ridotto al minimo – a pochi fasci ovviamente rossi per il rimando al sangue e ad alcuni flash a ricordarci il temporale. La luna spesso appare tra gli alberi. Il coro è mosso poco e senza particolari innovazioni.

            Uno spettacolo tutto da ascoltare, quindi, sia per l’integralità che il valore dell’orchestra e degli strumenti solisti (l’armonica a bicchieri e l’arpa, soprattutto) ma anche per il grande lavoro degli interpreti, tutti applauditissimi professionisti. Chailly “pensa” ogni tempo, coagula l’orchestra in colori vivi e pregnanti. I tempi sono ben pesati senza accelerazioni come nel Boris inaugurale. Le cabalette ampie, moderate e non nervose. Potente la scena del tempotale.

            La scena è aperta dall’Enrico di Boris Pinkhasovich, che interpreta un Lord elegante e composto e che affida le sfumature del carattere – anch’esso a tratti delirante – alla sola vocalità, sempre misurata e dal bellissimo timbro ambrato. Il baritono a San Pietroburgo è specialista del ruolo di Giorgio Germont. La lunga cabaletta della sua aria è retta con intensità fino all’ultima nota grazie alla propulsione di coro e pertichini.

Ottima la prova del soprano Lisette Oropesa, già padrona del ruolo, che sfoggia una coloratura sicura e drammatica e che impersona il personaggio di Lucia con una gestualità spontanea ed estremamente efficace. L’integralità della sua prima aria offre un coloratura iridescente e una coda travolgente. Lei, nel duetto col tenore, canta il mi bemolle sovracuto, in realtà scritto per Gilbert Duprez, primo Edgardo. La pazzia è misurata e ben pensata senza eccessi e senza la posticcia cadenza scritta per la Melba a fine ‘800 che avrebbe snaturato il tutto.

Inutile dire che Juan Diego Florez è stato un Edgardo ineccepibile: attore perfetto, ha retto benissimo l’impervio ruolo dal suo primo duetto fino a Tu che a Dio spiegasti l’ali: particolarmente struggente Fra poco a me ricovero. La voce non è enorme, lui è un tenore contraltino più adatto a Rossini ma la prova è comunque superata e Chailly modera l’orchestra per far emergere il bel timbro del tenore. Ottima e con piglio la “maledizione” nel finale secondo una perorazione che ricorderemo. L’aria finale è cesellata a meraviglia e il pathos nella lenta cabaletta è tangibile.

            Grande campione della serata è Carlo Lepore, che rende Raimondo un ottimo padre, autorevole e stentoreo quando la necessità richiede rigore (soprattutto nel recitativo in cui condanna le malefatte di Normanno) ma tenero e caritatevole quando si trova di fronte a un’anima innocente (ovviamente nel confronto con Lucia). Abbiamo ascoltato anche il valido Pertusi e abbiamo trovato Lepore più morbido e rotondo nell’accento. I pertichini di Lepore nell’aria di Enrico nel 1° atto e di Lucia nel 3° atto sono ben realizzati.

Complimenti anche ai due tenori Leonardo Cortellazzi (Arturo) che emerge sul coro degli invitati e Giorgio Misseri (Normanno) in ottima forma a cui sono affidati importanti interventi nell’Introduzione e nell’aria con Enrico. Plauso alla giovane Valentina Pluzhnikova (Alisa), distintasi benissimo nell’aria di Lucia nel 1° atto e nel finale concertato del secondo atto.

            La serata si è conclusa con applausi meritatissimi fra spettatori sinceramente commossi e ascoltatori più critici soddisfatti. Tutte le opere di Donizetti dovrebbero essere eseguite con tale attenzione e seguendo sempre le valide edizioni critiche.

Matteo Poccioni Fabio Tranchida Milano, 26/04/2023

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