Dramma in cinque atti di Eugène Scribe e Charles Duveyrier 
Traduzione italiana di Arnaldo Fusinato
Musica di Giuseppe Verdi

Personaggi e interpreti
Guido di Monforte Franco Vassallo
Il Sire di Bethune Gabriele Sagona
Il conte di Vaudemont Ugo Guagliardo
Arrigo Stefano Secco
Giovanni da Procida Riccardo Zanellato
La duchessa Elena Roberta Mantegna
Ninetta Carlotta Vichi
Danieli Francesco Pittari
Tebaldo Manuel Pierattelli
Roberto Alessio Verna
Manfredo Vasyl Solodkyy

Direttrice Oksana Lyniv
Regia Emma Dante
Maestro del Coro Gea Garatti Ansini
Scene Carmine Maringola
Costumi Vanessa Sannino
Luci Cristian Zucaro
Movimenti di scena Sandro Maria Campagna

 


Attori della Compagnia Sud Costa Occidentale diretta da Emma Dante: Viola Carinci; Angelica Di Pace; Enrico Difiore; Marta Franceschelli; Roberto Galbo; Silvia Giuffrè; Francesca Laviosa; Samuel Salamone; Daniele Savarino; Yannick Simons; Sabrina Vicari; Marta Zollet
Figuranti della Scuola di Teatro di Bologna Alessandra Galante Garrone

Coro aggiuntivo: Elementi del Coro del Teatro Regio di Parma
Maestro del Coro Martino Faggiani
Nuovo allestimento del Teatro Comunale di Bologna, Teatro Massimo di Palermo, Teatro di San Carlo di Napoli, Teatro Real di Madrid
Coro, Orchestra e Tecnici del Teatro Comunale di Bologna

Più si ascoltano “I vespri siciliani” più ci si accorge dell’irregolarità conturbante della loro essenza, speciale marchio precipuo che li rende estremamente fascinosi nonostante la forma, musicale e drammaturgica insieme, mutevole e inusuale: Verdi, infatti, dopo un terzetto di opere quali Rigoletto, Trovatore e Traviata, e, non dimentichiamolo, dopo ben due anni di silenzio, consapevole di doversi reinventare senza tradire se stesso e il suo passato, ma sperimentando e ricercando sentieri nuovi che potessero innescare un’evoluzione nel suo linguaggio musicale, approdò a “Les vêspres siciliennes”, e da questo libretto francese di seconda mano – poiché già approntato con stessa trama, ma dettagli storici diversi, per altri compositori – prese avvio un espletamento, sempre più deciso e convincente, di ideali drammaturgici nuovi e complessi, nonché profondamente coinvolgenti. Si capisce, dunque, come in questo ribollimento di scoperta e ricerca non sia mai facile immergersi, trovare poi l’interpretazione giusta ad una così peculiare “provvida discontinuità” è un altro paio di maniche, sia che si vogliano seguire le coordinate storiche precise, sia che si voglia andare oltre, magari attraverso un’elaborazione più personale: questo però non vale dannatamente tanto solo per chi studia ed elabora la regia, ma anche per chi dirige il magma di idee, colori e ambienti che questa partitura porta con sé, con un punto di infiammabilità molto più alto di tante altre opere. Se però si riesce ad aprire una breccia nelle vicende private dei protagonisti, del tutto inventate, e a domare il fuoco dei dati evenemenziali del Vespro, celebrato da una fama certamente più leggendaria che storicamente connotata, la quadratura del cerchio pare un po’ più alla portata.

Chi ha rischiato di più, con la creazione di suggestioni letteralmente da brividi, e slegandosi dalla storicità dell’opera in favore di una marcata connessione con la nostra realtà, con la “sua” realtà di siciliana e palermitana, è stata Emma Dante: la regista ha innestato sul passato remoto delle vicende librettistiche, il passato prossimo – e ahimè ancora presente – della Sicilia e della Palermo del secondo novecento, intriso del sangue di vittime e carnefici mafiosi. In una rilettura dell’opera che non ha solo trasposto, ma fatto compenetrare linee storiche diverse, quasi fossero piani paralleli da sempre interconnessi, i dominatori erano sia spietati criminali di Cosa Nostra che violenti soldati francesi, i popolani oppressi sia sottomessi alla mafia che schiacciati sotto il piede straniero, la duchessa Elena sia sorella d’un fratello ucciso che vittima orbata degli affetti dalla rappresaglia mafiosa: dunque l’immagine del giudice Borsellino, portata in stendardo fin dal primo atto, e presso cui Elena si dispera e soffre, non ci appare come una banale forzatura ammodernante, ma piuttosto sta lì a creare una profonda connessione tra la storia passata e quella più recente, in un gioco di piani narrativi più complesso di quel che sembra a prima vista. Tale gioco si snoda potente nel corso dell’opera, sorretto da una cifra stilistica di livello, sia nelle scarne ma efficaci scenografie, dominate dalla riproduzione della celebre fontana “della vergogna”, a Palermo, e delle sue statue, sino ai colori tipicamente siciliani delle teste di moro e delle piastrelle, quasi usciti dai forni di Santo Stefano di Camastra. Pure i costumi ci sono apparsi gradevoli, nonostante qualche nota un po’ eccentrica o kitsch, e se si eccettua qualche ingenuità nella riproposizione di azioni sceniche già viste o didascaliche, non si può che apprezzare il rischio di averci dato una lettura drammaturgica forte e coerente, specialmente alla luce dei recenti Vespri scaligeri che ne erano del tutto sprovvisti.

Oksana Lyniv, che affrontava per la prima volta la partitura, ha trovato un equilibrio tra palco e buca decisamente migliore rispetto a quanto ascoltato in Andrea Chenier, dimostrando di avere un ragguardevole dominio tecnico della difficile musica: ciò che infatti ha stupito positivamente è stata la sicurezza del gesto, la simbiosi con l’orchestra del Comunale di Bologna – per altro precisissima e quasi perfetta – e il gusto molto più accentuato che altrove nella variazione e gestione delle sonorità, come nella ricerca dei tempi, sufficientemente diversificati in base al contesto psicologico e drammatico. Mi è parso rilevante anche il sostegno dato ai cantanti, col chiaro intento di predisporli ad esprimersi al meglio delle loro capacità, sebbene qualche turgore di troppo abbia fatto capolino nei concertati, mettendo in difficoltà soprattutto l’interprete di Arrigo – in uno stato vocale non adatto, per usare un eufemismo, ad affrontare questo atroce ruolo – . Quello che deve ancora maturare, comunque, è la ricerca dei colori, a tratti troppo scintillanti, quasi metallici, e privi della giusta scurezza, specialmente negli archi e nei legni, e una coesione maggiore che si palesi dall’inizio alla fine dell’opera: è ovvio che per un primo approccio non si può chiedere di più, ma certo si può sperare, date le premesse, in una crescita della congenialità al repertorio verdiano.

Franco Vassallo, dopo la notevole e recentissima prova ne “I due Foscari” genovesi, l’ha fatta ancora da padrone, giganteggiando sugli altri interpreti e mettendo il bellissimo timbro brunito, la spiccata musicalità e l’ineccepibile tecnica a servizio di Guido di Monforte. Senza sbagliare mai un colpo e mostrandosi anche a suo agio nelle doppie vesti del dominatore mafioso, privandole di volgari forzature, il baritono ha nobilitato col fraseggio levigato ed estremamente raffinato, unito alla sua pura linea di canto, un personaggio dagli ambivalenti sentimenti, ora malvagi, ora paterni, ora accorati: “In braccio alle dovizie” ha portato con sé il gusto dell’epicità, sospendendo il tempo per tutta la durata dell’esecuzione. Successo necessariamente debordante e più che meritato.

Riccardo Zanellato ha debuttato felicemente nella parte di Giovanni da Procida, sfoggiando il timbro personale e naturalmente bello, cui ci ha abituati in ogni sua interpretazione, e trovando delle sfumature inedite con le quali, anche lui, ha arricchito e innalzato il personaggio da rivoltoso vendicativo a difensore dei più deboli compatrioti. Il ruolo è solitamente appannaggio di voci maggiormente scure, ma il fraseggio e l’equilibrata linea vocale, mai forzata e controllata anche nei passi più tortuosi, hanno fatto passare in secondo piano le peculiarità timbriche, per permetterci di apprezzare un’ottima caratterizzazione vocale, che non potrà che acquistare valore con la frequentazione del personaggio. Grande e giusto il successo.

Roberta Mantegna ha fatto egregiamente i conti con la duchessa Elena, senza perdere mai l’aplomb, anzi mostrando una tempra invidiabile e assolutamente necessaria per gestire un simile ruolo senza cadute di stile: il soprano ha controllato con dovizia di accenti il raffinato registro centrale, insieme a quello più basso ben timbrato, e ha gestito con intelligenza il più acuto, certo con taluni attacchi a tratti non pulitissimi, ma con altri precisi ed emessi con grazia, che hanno compensato qualche prevedibile difficoltà. Non vanno mai dimenticate, però, le asperità intrinseche della parte e la giovane età del soprano, che magari avrà semplificato talune agilità del bolero, ma che comunque si è sempre distinta, da quando ha emesso la prima nota, per un’eleganza da lasciar di stucco, senza mai eccedere in suoni manierati o artefatti. Impossibile che il pubblico non le tributasse onori.

Stefano Secco, Arrigo, ci ha messi in allarme in più di un’occasione: eccetto che per il registro centrale gradevole e la fine ricerca sulla parola cantata, il suo è stato un percorso in salita, arduo e ripido, sia per la mancanza di una cavata e uno squillo tali da fargli gestire la parte acutissima, quasi nevrotica, e permettere l’udibilità delle frasi, sia per la seria difficoltà mostrata durante l’ultimo atto, in cui il tenore pareva ricercare in tutto il corpo la forza per controllare l’emissione: sia chiaro, non è un male in assoluto, ma può diventarlo quando i movimenti corporei trasudano affanno e rischiano di compromettere l’intonazione, come certe scosse col capo per preparare gli acuti. Ed è un peccato perché l’interprete si ricorda come uno di indubbio rilievo.

Da segnalare le ottime prove di Carlotta Vichi, Ninetta, che si è distinta per musicalità e ricchezza tirmbrica, e di Francesco Pittari, Danieli ben delineato vocalmente, nonché di Gabriele Sagona, sire di Bethune, e di Ugo Guagliardo, conte di Vaudemont. Completavano il cast i corretti Manuel Pierattelli, Tebaldo, Alessio Verna, Roberto, e Vasyl Solodkyy, Manfredo.

Da incorniciare, poi, il finale dell’opera, con la mattanza umana dei francesi, gettati al centro del palco, dilaniati e sofferenti come tonni senz’aria, avvolti infine da reti e feriti a morte da uncini e arpioni – mentre il meraviglioso coro del teatro, istruito da Gea Garatti Ansini, intonava la sua vendetta: brividi al solo ripensarci.

Mattia Marino Merlo – Teatro Comunale Nouveau, Bologna, 23 aprile 2023

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