Libretto di Arturo Colautti
Musica di Francesco Cilea

Aquilante de’ Bardi         Ramaz Chikviladze / Mattia Denti
Gloria    Valentina Boi
Lionetto   Carlo Ventre / Denis Pivnitsky
Bardo    Franco Vassallo /  Ivan Inverardi
La Senese     Elena Schirru
Il Vescovo      Alessandro Abis
Il Banditore    Alessandro Frabotta


Direttore     Francesco Ciluffo
Regia     Antonio Albanese
Assistente alla regia       Daniela Zedda
Scene   Leila Fteita
Luci        Andrea Ledda
Costumi       Carola Fenocchio
Costumista collaboratore      Marco Nateri
Maestro del coro   Giovanni Andreoli

Orchestra e Coro del Teatro Lirico di Cagliari

Il Teatro Lirico di Cagliari ci ha abituati alle rarità nella scelta del titolo di apertura della stagione. Ricordiamo gli esiti trionfali di Alfonso und Estrella, Gli stivaletti, Palla de’ Mozzi e la recente superba Campana sommersa solo per fare alcuni titoli trai tanti spesso consegnati al disco.
Gloria è il titolo scelto per il 2023 ispirato ad un dramma di Victorien Sardou il drammaturgo alla base della Tosca pucciniana. Il dramma originale, di particolare ampiezza e sontuosità, si intitola La haine, L’odio, e racconta di una vicenda simile a Romeo e Giulietta ma ambientata nella Siena del trecento con la peste che incombe sui personaggi. Odio, lotte intestine, duelli, veleni e peste, gli elementi a fosche tinte che non portarono grande fortuna a questo dramma. La prima assoluta fu rappresentata a Parigi al Théâtre de la Gaîté nel 1874, con musica di scena di Jacques Offenbach (alcuni brani si possono ascoltare su Youtube). Vennero realizzati 500 costumi e non si badò a spese ma ciò portò ad un fallimento dell’impresa. Parte dei costumi vennero “riciclati” per la successiva Geneviève de Brabant (3a versione 25 febbraio 1875) opéra-féerie in 5 atti di Offenbach.  

Francesco Cilea e il suo librettista Arturo Colautti (un D’Annunzio in tono minore) smorzano i temi più cupi della vicenda, riducendo l’opera a pochissimi personaggi rispetto al dramma originario ed enfatizzando il rapporto tra soprano e tenore, che in realtà violenta la protagonista, ed eliminando ogni crudezza. Visto che si stava effettuando una operazione archeologica sarebbe stato opportuno, secondo noi, eseguire la prima versione dell’opera del 1907 e non quella ridotta del 1932. Riccardo Chailly sta eseguendo a Milano tutte le opere di Puccini nella loro prima versione con ottimi risultati. Anche in questo caso la versione della Scala del 1907 avrebbe rivelato la prima idea del compositore: a Napoli, nel 1932, Cilea con la collaborazione di Ettore Moschino, ritocca in più punti il testo, compatta degli episodi, elimina, nel secondo atto, l’importante confronto tra Lionetto (tenore) e Bardo (baritono). Forse sarebbe stato più difficile procurarsi dall’editore Sonzogno il materiale d’orchestra e la partitura della prima versione oppure il direttore Francesco Ciluffo ha preferito eseguire la stesura napoletana. Francesco Cilea teneva in gran conto questo suo ultimo lavoro teatrale, sapendo che aveva volontariamente fuso in questo lavoro verismo italiano, influenza francese, wagnerismi e musica floreale liberty per esempio in tutti i riferimenti all’acqua spesso evocata nell’opera. Una partitura eclettica e perfettamente calibrata che abbiamo apprezzato in maniera particolare nelle due serate a cui abbiamo assistito.

Molto interessante la regia di Antonio Albanese, che già si era cimentato con due titoli comici donizettiani, Le convenienze ed inconvenienze teatrali e il Don Pasquale. La vicenda si svolge in una specie di teatro antico o meglio un bouleuterion, edificio che ospitava il consiglio (boulé) della polis nell’antica Grecia. Infatti l’opera si apre proprio con un bando a cui assiste tutto il popolo. Il muro di pietra ricorda anche le costruzioni nuragiche tipiche della Sardegna. La fontana, protagonista del primo atto, non è particolarmente bella a vedersi, se pensiamo che il libretto si riferisce alla fontana di Piazza del Campo di Siena capolavoro di Jacopo della Quercia. Non la fontana me il fondale si tingerà di rosso del sangue quando Bardo sarà ferito da Lionetto. Uno spettacolo che oltre alle scene di Leila Fteita, si avvale di luci particolarmente curate di Andrea Ledda e ai costumi raffinati di Carola Fenocchio che ricordano quelli di popoli ancestrali. Abbiamo pensato alla Medea di Pasolini guardando i costumi così curati ed eleganti. Il coro femminile indossava pregevoli vesti plissettate.  

Il giovane direttore Francesco Ciluffo è capace di far emergere tutte le preziosità di questa partitura. Pensiamo al coro di giovanette che inneggiano all’acqua della fontana enfatizzato da ottavini e campanelli. Pensiamo al motivo della strage che ritorna più volte nelle parole di Lionetto, tradotto in orchestra da forti sonorità sincopate. Bellissimo l’incandescente preludio del secondo atto che rappresenta l’assedio senese con interessanti effetti stereo dati dagli ottoni tra le quinte. Le campane caratterizzano la prima parte del terzo atto. Il gesto verso l’orchestra è molto preciso e vi è coesione con i solisti e il coro preparato da Giovanni Andreoli.

In entrambe le recite, per una indisposizione di Anastasia Bartoli, figlia di Cecilia Gasdia, abbiamo ascoltato  Valentina Boi, dotata di  voce ben intonata, delle volte sovrastata però dalla turgida orchestra (almeno così sembrava dall’ascolto dalla platea). Intimistica l’aria “Fonte muta e profonda” e la preghiera del primo atto “Vergine d’astri”.  Abbiamo apprezzato particolarmente l’aria del secondo atto “O mia cuna fiorita” anche grazie alla scrittura virtuosistica di Cilea.

Il tenore Carlo Ventre interpreta Lionetto Fortebrando affrontandolo di petto, con acuti superbi pieni e squillanti. Quando invece deve sfruttare il registro centrale il colore della voce non è così perfetto. La voce è comunque robusta e adatta a questo repertorio ma non bastano acuti stentorei a fare il personaggio. La sua potenza è percepibile anche nel concertato che chiude il primo atto e nel duetto d’amore che chiude il second’atto. Piccola la parte per  il basso Ramaz Chikviladze nei panni di Aquilante de’ Bardi che è presente solo nel primo atto poiché viene ucciso durante l’assedio di Siena da parte di Lionetto, peccato per cui dovrà farsi perdonare da Gloria, spezzando la sua spada mortifera.

Franco Vassallo non teme le asperità della parte baritonale di Bardo che spesso è orientata verso la parte estrema del registro: il fratello di Gloria è esemplato sullo Scarpia di Tosca. Qui Bardo trama l’ultima vendetta sopra le note del Magnificat e del Dies irae, là Scarpia cantava le sue funeste trame sul Te Deum. Nell’atto secondo Bardo canta l’aria “Fummo al Travaglio” parlando dell’assedio di Siena e l’ampia arcata melodica è ben sostenuta da Vassallo molto in forma. “O mia dolce sorella” è intriso di falsità, nella speranza che Gloria avveleni Lionetto. Il cast è costituito inoltre da Elena Schirru (La Senese) che nella prima versione era nomata La Orvietana. Alessandro Frabotta è Il Banditore, mentre il cagliaritano Alessandro Abis, che seguiamo con interesse da alcuni anni, ha dato la sua voce possente e autorevole alla breve parte del  Vescovo nel terzo atto. Abis canterà questo agosto nell’Aureliano in Palmira al ROF 2023.

Abbiamo ascoltato anche il secondo cast con Aquilante de’ Bardi impersonato da Mattia Denti: i suoi interventi nel primo atto sono stati molto apprezzati. Il Lionetto di Denis Pivnitsky ci ha convinto solo parzialmente: il timbro è discreto e gli acuti veristi buoni ma non eccezionali. Molto interessante il duetto del secondo atto con particolare tensione nelle esternazioni “Io t’ho cercata”, e “La mia sorte”. Alla parola “Un velen” suona un mortifero gong. Bardo la seconda sera era l’interessante Ivan Inverardi, dalla robusta voce, capace di tratteggiare un perfido personaggio.

Ottimo il programma di sala in vendita presso il teatro: ricco di saggi, di illustrazioni di Ambrogio Lorenzetti (Palazzo Pubblico, Siena) e del libretto scritto a chiare lettere. Felicissimi di aver assistito ad una opera che merita più di uno ascolto grazie alle raffinatezze in orchestra e nelle parti vocali di cui è intrisa.

Fabio Tranchida