Melodramma in tre atti
Libretto di 
Francesco Maria Piave
Musica di Giuseppe Verdi

Personaggi e interpreti

Violetta Valéry  Aida Garifullina
Alfredo Germont  Francesco Meli
Giorgio Germont  Amartuvshin Enkhbat
Flora Bervoix  Ana Victoria Pitts
Annina  Caterina Meldolesi
Gastone  Joseph Dahdah
Barone Douphol  Francesco Samuele Venuti
Marchese d’Obigny  Matteo Mancini
Dottor Grenvil  Volodymyr Morozov
Giuseppe  Davide Ciarrocchi
Un domestico di Flora  Egidio Massimo Naccarato
Un commissionario  Lisandro Guinis


Direttore  Zubin Mehta
Maestro del coro  Lorenzo Fratini
Regia  Davide Livermore
Ripresa da  Stefania Grazioli
Scene  Giò Forma
Costumi  Mariana Fracasso
Luci  Antonio Castro
riprese da  Andrea Locorotondo
Video D-Wok
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino

Allestimento del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino

Sono passati quasi otto anni dall’ultima Traviata che ho ascoltato diretta dal maestro Zubin Mehta, nella medesima sala grande del nuovo teatro del Maggio, e le emozioni, amplificate dal ricordo, si sono confuse nella grandezza di una direzione, invero magistrale, alla quale si può approdare solo dopo un’esistenza trascorsa sul podio. Il preludio, intriso di amore e morte, ci accompagna in un’atmosfera di cristallo, da suoni di prezioso argento, limpidi, trasparenti quasi come l’aria d’un freddissimo mattino invernale. Il calore del tema amoroso, smorzato dall’incedere luttuoso e sottolineato dalla levigatezza degli archi, si fonde con quello mortifero, dai tempi più diradati e sofferenti, senza mai perdere la sua sottile e peculiare violenza, presaga del destino di Violetta. Per tutta l’opera, poi, la dolcezza degli accenti, mai tradotta in perdita di coerenza e drammaticità, ma sempre frutto di un gesto direttoriale forte, si unisce alla graffiante malinconia, priva di ogni svilente stucchevolezza, crescendo come una marea e investendo ora un lato ora l’altro della vicenda. Col preludio al terzo atto, infine, si raggiunge l’apice della tensione emotiva, del ricordo vivo ma lontano, del dolore raccolto ma assordante: quelle arcate musicali così eteree ci colpiscono col loro pugno gentile, lasciandoci senza fiato. Perché questo ha fatto la direzione del maestro Mehta, ci ha obbligati a trattenere il respiro dalla prima battuta, quasi impalpabile nel suo pianissimo, per ridarci l’anima allorché quella di Violetta era esalata per sempre.

La traviata in questione era Aida Garifullina: il giovane soprano, nonostante un timbro non propriamente personale, ma comunque luminoso e ben adatto al ruolo, mostra una linea di canto seducente e sempre puntuale, specialmente nel registro centrale, che si arricchisce e affina con lo scorrere dell’opera. Se il primo atto potrebbe sembrare il più agevole per il suo tipo di voce e per certo repertorio da lei frequentato -ma di fatto mostrando il contrario- è proprio durante il secondo atto, e soprattutto nel terzo, che la cantante riesce a rapire e convincere, con un fraseggio curato e una varietà di dinamiche più raffinata e compita -dispiace, dunque, il taglio dell’”Addio, del passato”, vero momento in cui il soprano avrebbe potuto brillare ulteriormente-.

Francesco Meli ha prestato il suo inconfondibile timbro di rara bellezza al personaggio di Alfredo: il tenore frequenta il ruolo da molto tempo, e questo si percepisce immediatamente nella cura del fraseggio, nella pulizia della linea di canto, anche laddove potrebbe sentirsi non a proprio agio, e nell’interpretazione complessiva, ad onta di un’impostazione registica non proprio amica dei sentimenti. “Un dì, felice, eterea” ha già in se gli aggettivi che descrivono la bellezza dell’emissione, la naturalezza degli accenti e il rapimento sugli ascoltatori, ottenuto senza alcuna sdolcinatezza ma sempre con amabile trasporto. Se “De’ miei bollenti spiriti” si può definire perfetto, ottenendo uno degli applausi più convinti e sentiti, è con tutta la scena della festa che Meli porta a compimento il suo personaggio, lasciandoci del tutto soddisfatti, e anche di più.

Il ruolo di Giorgio Germont, previsto per un indisposto Placido Domingo, trova in Amartuvshin Enkhbat -che già era stato chiamato per la prima- un lusso più che mai sibaritico nella ormai apprezzata voce di questo autentico portento. In quest’occasione vanno innanzitutto apprezzate l’estrema professionalità e dedizione al lavoro, senza le quali non sarebbe stato in grado di ottenere un risultato molto oltre il soddisfacente con così poco preavviso: il baritono, infatti, nonostante gli ovvi limiti imposti dal non avere alcuna confidenza con l’allestimento -che sia un bene?-, descrive un Germont autoritario ma non privo di afflati umani, modulando il volume enorme della sua voce e giocando col timbro oramai riconoscibile tra mille, sempre accompagnato da un fraseggio esemplare. “Di Provenza il mar, il suol” termina con un’autentica ovazione, oltre la quale c’è poco da aggiungere.

Eccezionale lo stuolo di comprimari che danno vita a uno spettacolo nello spettacolo: senza dubbio eccellente Ana Victoria Pitts nelle vesti di Flora Bervoix, col suo timbro caldo, avvolgente, sensuale, che già si è fatto apprezzare in ruoli decisamente più onerosi; ottimo e ben caratterizzato il Gastone del sempre impeccabile Joseph Dahdah, come il barone Douphol di Francesco Samuele Venuti, oramai anch’egli una garanzia, che in questo caso dà finalmente al ruolo del barone una connotazione chiara e precisa, forte del bel volume vocale e della chiarezza del fraseggio. Bene anche l’Annina di Caterina Meldolesi, puntuale in ogni suo intervento e decisamente in parte, specialmente nel terzo atto, dove recita e canta con trasporto. Si disimpegna bene anche il resto del cast, con professionalità e funzionalità alla buona riuscita dello spettacolo.

Di altissimo livello, come di consueto, la prova del Coro del Teatro del Maggio, istruito in maniera sempre impeccabile dal suo maestro Lorenzo Fratini. Ogni suo intervento è di fondamentale importanza e il coro non manca mai di sottolinearne la portata, cesellando un finale del secondo atto memorabile.

La regia di Davide Livermore, creata per la stagione 2021/2022 e ripresa per l’occasione da Stefania Grazioli, convince più per l’eleganza e la bellezza delle scene, nonostante qualche monocromia di troppo, e per certe soluzioni visive, talune non proprio originali, che per il lavoro sulla drammaturgia, quasi assente, e che, nei rari casi in cui agisce, crea delle situazioni tali da ricordare gli allestimenti “Covid”, con i cantanti lontani o che non si possono guardare direttamente in faccia. Troppe volte, infatti, i protagonisti mancano di vere e reali interazioni, con pose generiche rivolte al proscenio e pochi sentimenti, specialmente durante l’ultimo atto, dove più che esplodere la forza del ritrovato amore tra Violetta ed Alfredo, questi sprofondano nel freddo distacco, quasi a dire che il rapporto tra i due è irrimediabilmente compromesso -non so se questa fosse l’idea del regista, ma tant’è-. Forse la mancanza del suo ideatore ha tolto qualcosa a questo allestimento, di per sé innocuo e poco rischioso; tuttavia credo che sia lecito non annoverarlo tra i più riusciti di Livermore, che pure ci ha regalato cose eccellenti.

Mattia Marino Merlo – Sala Grande del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, 15 febbraio 2023