Filippo II Mikhail Petrenko
Don Carlo Francesco Meli
Elisabetta di Valois Eleonora Buratto
Rodrigo, Marchese di Posa Roman Burdenko
Il Grande Inquisitore Alexander Vinogradov
La Principessa Eboli Ekaterina Semenchuck
Un Monaco Evgeny Stavinsky
Tebaldo Nikoletta Hertsak
Il Conte di Lerma/Un araldo reale Joseph Dahdah
Una voce dal cielo Benedetta Torre
Deputati fiamminghi
Matteo Mancini, Volodymyr Morozov, Matteo Torcaso, Eduardo Martínez Flores,
Davide Piva, William Hernandez, Lodovico Filippo Ravizza, Roman Lyulkin

Maestro concertatore e direttore Daniele Gatti
Regia Roberto Andò
Scene e luci Gianni Carluccio
Costumi Nanà Cecchi
Video Luca Scarzella
Coro e Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
Maestro del Coro Lorenzo Fratini

Daniele Gatti è, senza mezzi termini di sorta, il trono e l’altare di questo Don Carlo fiorentino: il maestro -la cui arte tutti dovrebbero apprezzare, quanto meno finché sarà a Firenze- ha diretto e orchestrato con l’abilità e la grazia di un pittore d’alta scuola, raffinato, sensibile, quasi preraffaellita, tratteggiando il suo affresco musicale sulla base di un disegno preparatorio fatto di grande ed evidentissimo studio, a tratti maniacale, unito a una avvincente e commovente forza drammatica, che non va assolutamente data per scontata, mi vien da chiosare, quando si scandaglia così a fondo una simile partitura. Lui, dunque, è il trono che sostiene su di sé questo memorabile allestimento “musicale”, lui, e soltanto lui, l’altare a cui piegarsi per rendere grazie delle sensazioni suscitate. Davvero, come in poche altre occasioni, si potrebbe scrivere un articolo per il solo gusto di evidenziare ogni novità e scelta interpretativa, ma mi limiterò a sottolinearne qualcuna: innanzitutto la scelta dei tempi, con effetti sonori e drammaturgici mai uditi prima dal vivo, che mi hanno riportato alla mente, nel solco di una nuova volontà interpretativa quasi “ereditaria”, le incisioni di Giulini e Karajan. Ma forse Gatti è andato oltre. Si badi, però: con questo non voglio fare confronti o affermare banalmente che ha diretto meglio -come se fosse possibile- ma solo sottolineare l’estrema novità innescata dal maestro e la totale stupefazione esercitata su chi scrive. Gatti, con la sua ratio artistica, ha calcolato ogni rischio sulla dilatazione e la compressione delle agogiche, si è spinto oltre il limite, oltre il cosiddetto “sentire comune”, con l’aiuto della più pura ragione musicale, ottenendo delle sonorità apparentemente disorientanti, ma che in realtà possedevano sempre, e sottolineo questo avverbio, una coerenza così stringente, che una volta notata, e subito metabolizzata, portava l’ascoltatore in un’altra dimensione. La canzone del velo, costruita su una sensualità quasi spettrale, insinuante, tutta raccolta nei volumi, quasi a imitare gli ambienti umbratili del cortile spagnolo; il fatidico primo duetto tra Elisabetta e Carlo, così sofferente da spingere come non mai alla commozione; l’ultimo atto, in cui il maestro ha sublimato e trasceso le vicende dei protagonisti per condurci, a bocca semiaperta, in un altrove quasi irreale ma drammaticamente spietato; le ultimissime note dell’opera, infine, dopo l’irruzione innaturale e disturbante di Carlo V, sussurrate, quasi, con un inconsueto acquietarsi dei suoni, a chiudere l’opera in un diminuendo di inaudita violenza emotiva. Questo è stato questo Don Carlo. Ma mi taccio, ché non saprei descrivere meglio la direzione di Gatti, tale da aver sprigionato molta più anima di quanta mai potranno restituire le mie parole.

Orchestra e Coro del Maggio Musicale fiorentino in vero e proprio stato di grazia, oltre, ovviamente, alla loro solita grande professionalità e abilità espressive: entrambi hanno ripreso molto bene le misure con l’enorme sala del Maggio, da cui sono stati assenti per diverso tempo, riuscendo a far quadrare più che bene i conti. La via è senza dubbio questa, dunque benissimo così.

La gemma più pura che ha brillato in questa visione direttoriale, invero molto complessa nelle realizzazioni, è stata l’Elisabetta di Eleonora Buratto. Ha compreso del tutto cosa Gatti volesse far emergere dal personaggio, dalle note che accompagnano ogni suo verso. Anche per lei sarebbe arduo selezionare qualche momento migliore di altri, giacché fanno tutti a gara in bellezza. La Buratto è prima di tutto donna arresa che regina, donna offesa che sovrana in una corte di dame traditrici, donna innamorata che consorte disdegnosa e altèra. Impressionante la sua entrata in scena conclusiva, con la pregevolezza del timbro sfoggiata violentemente per tutto l’ultimo atto, sublimata poi nel duetto più bello dell’intera opera.


Con lei ha meritato la palma di vincitore il Don Carlo di Francesco Meli: il tenore, pur navigando in una partitura sicuramente difficile per la sua vocalità cristallina, ha risolto con onore le terribili frasi che costellano il suo spartito, per uscirne vittorioso in tutto il resto dell’opera, specialmente nei momenti più intimistici, tuttavia senza perdere smalto e presenza scenica in quelli più violenti o battaglieri. Il timbro paradisiaco, unito all’arte della Buratto, ci ha condotti fuori dal tempo, specialmente quando i due cantanti, soli, fondevano le loro voci. Peccato davvero che il resto del cast o non abbia compreso del tutto le indicazioni di Gatti o che, pur sforzandosi, non sia riuscito a far quadrare la propria vocalità, tratteggiando dei personaggi a metà: Roman Burdenko, al netto di un timbro poco personale, a tratti anonimo, ma di bel volume, punta molto sulla partecipazione e riesce anche a convincere in più di un momento, ma gli manca ancora quella vena eroica e amicale a un tempo tale da fargli tratteggiare un Marchese di Posa del tutto convincente.

Delude, invece, Mikhail Petrenko, Filippo II, che ha dato la spiacevole impressione di aver avuto un’involuzione vocale. Certo, alcune frasi colpiscono, specialmente nel terzo atto, come anche la bella presenza scenica, ma il timbro a volte troppo chiaro e l’intonazione in certi casi a rischio non hanno contribuito alla risoluzione del ruolo, che si vorrebbe più raffinato e meno rozzo, anche nel porgere le frasi; altra delusione, ahimè, il Grande Inquisitore di Alexander Vinogradov: non il più scuro e profondo inquisitore che ci si aspetterebbe, e questo di per sé non è un problema insormontabile, ma certamente una revisione della pronuncia italiana e del fraseggio è da fare, perché le consonanti vanno pronunciate tutte, senza limitarsi, in più di un caso, alle sole vocali e alla fantasia degli ascoltatori; mi ha lasciato molto perplesso la principessa d’Eboli di Ekaterina Semenchuk, quasi un’altra cantante rispetto alla splendida prova nel Trovatore fiorentino di qualche mese fa: recitazione molto curata, senza dubbio, ma la voce mi è parsa rimpicciolita, quasi mal posizionata, come se avesse compreso gli intenti di Gatti ma non fosse riuscita ad attuarli del tutto. Ho sentito in teatro giudizi davvero perentori su di lei, e mi prendo l’onere di mitigarli, in rispetto di un’artista che ho sempre reputato molto intelligente e versatile, ma in questa recitata evidentemente in difficoltà.

Svolge bene la sua parte, senza tuttavia inquietare e spaventare troppo, Evgeny Stavinskiy, un frate, alias Carlo V; molto musicale anche Nikoletta Hertsak, Tebaldo; ottimo poi Joseph Dahdah, conte di Lerma e araldo reale; eccezionale davvero la meravigliosa voce dal cielo di Benedetta Torre. Un plauso speciale a tutti gli interpreti dei Deputati fiamminghi, accorati e in perfetta sintonia, sia tra di loro che con la direzione di Gatti, che sottolinea molto bene le loro frasi musicali, donandogli nuovo spessore.

Dal Trovatore, passando per Ernani, fino a questo Don Carlo, pare proprio che il teatro fiorentino abbia firmato un contratto con dei brutti ceffi: Mr. Black, Mr. Grey, Mr. Brown, Mr. Beige e via discorrendo. No, non sono degli ambigui agenti usciti da Le Iene di Tarantino, ma i tristissimi e noiosissimi colori che da mesi a questa parte si alternano nelle opere del Maggio. Sfido chiunque a non pensare di aver visto sempre la stessa opera, fatta di scene fisse, pareti che salgono e scendono, proiezioni di cattivo gusto, alberelli stilizzati, costumi interscambiabili che girano sempre intorno a queste gamme davvero (poco) ispirate di colori. Che peccato. Questo Don Carlo meritava di più, non certo in termini di spesa, ma di idee. Bastava raccontare, almeno provarci, a costo di essere didascalici. Ma i cantati abbandonati a loro stessi, in pose trite e ritrite, le luci inesistenti e il grigiore generale hanno schiacciato del tutto la già piatta regia di Roberto Andò. Davvero un grande peccato, in cui Daniele Gatti ha cercato di sopperire, da grande artista quale è, a una regia di svilente mediocrità.

Mattia Marino Merlo – Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, Sala Grande,

martedì 3 gennaio 2023

Pubblicità