Turandot, Torre del Lago, venerdì 12 agosto 2022
Musica: Giacomo Puccini (completamento di Luciano Berio)
Libretto: Giuseppe Adami e Renato Simoni
La Principessa Turandot | Karine Babajanyan |
L’Imperatore Altoum | Kazuky Yoshida |
Timur | Abramo Rosalen |
Il Principe Ignoto (Calaf) | Theodor Ilincai |
Liù | Emanuela Sgarlata |
Ping | Giulio Mastrototaro |
Pang | Didier Pieri |
Pong | Francesco Pittari |
Un Mandarino | Davide Battiniello |
Prima Ancella | Francesca Paoletti |
Seconda Ancella | Ayaka Kiwada |
Principe di Persia | Francesco Lucii |
Direttore | Michele Gamba |
Regia | Daniele Abbado |
Scenografo e light designer | Angelo Linzalata |
Costumista | Giovanna Buzzi |
Coreografa | Simona Bucci |
Maestro del coro | Roberto Ardigò |
Maestro del coro delle voci bianche | Chiara Mariani |
Orchestra, Coro e Coro delle voci bianche del Festival Puccini |
Per il secondo anno consecutivo Turandot va in scena a Torre del Lago col finale di Luciano Berio, approdato al gran teatro all’aperto con notevole ritardo, se si pensa che la sua composizione risale al 2001. Questo evento, atteso per quasi vent’anni, nel 2021 ha fatto propendere per un nuovo allestimento, firmato da Daniele Abbado, e riproposto anche quest’anno senza alcuna modifica rilevante. I due lavori, musicale e registico, si trovano in perfetta sintonia, spogliando l’opera di ogni alone trionfalistico e restituendole quel senso straniante di inquietudine e allucinazione che la pervade fin dall’inizio: tale Turandot, dunque, lontanissima dall’opulenza cui siamo abituati, specialmente in questo periodo di festival all’aperto, insiste sulla mancanza di un racconto lineare, composto da più piani narrativi sovrapposti, in cui si alternano momenti di fusione, contrasto e sospensione onirica.
Nessuna cineseria, nessun palazzo dorato o strabordante di schiavi, ancelle e danzatori, ma un sistema di alti e incombenti praticabili, con muri scuri, grigi, tappezzati di ideogrammi rossi, quasi scritti col sangue, che si spostano sulla scena creando di volta in volta spazi oppressivi e sinistri. Domina quasi costantemente il palcoscenico una torre, anch’essa grigia, con un’apertura circolare, posta in alto, da cui nel primo atto si manifesta Turandot, avvolta da una luce pallida, “lunare”, come se la principessa fosse la Luna personificata. Varie torri, illuminate con gusto e suggestione, appaiono sulla scena nel corso dell’opera, ospitando ora l’imperatore, ora il Mandarino, ora i dignitari della corte imperiale, ora i tre ministri.

Apprezzabile, dunque, il lavoro di Angelo Linzalata, che firma queste strutture apparentemente minimali, ma evocative, descriventi un regime dittatoriale più che una Cina fiabesca e fantasiosa. Anche i costumi di Giovanna Bozzi, studiati ma non sempre gradevolissimi, svolgono bene il loro compito di sottolineare l’atemporalità della vicenda, contribuendo ad accrescere l’atmosfera onirica, come se varie epoche si compenetrassero e ne uscissero fuori delle apparizioni più che dei reali personaggi.
Un’idea registica, quindi, ben studiata e “allucinata” al punto giusto, perfetta per esaltare il finale di Berio, privo di celebrazioni pompose, ma pervaso da un senso di malinconica e amara incompiutezza, in cui Calaf e Turandot, da semplici esseri umani, devono fare i conti coi loro sentimenti e riflettere a lungo, dopo gli ultimi struggenti accordi, sul peso e il costo delle loro scelte. Eccezionale riflettere su come la stessa opera, che in questi giorni va in scena in due grandi teatri all’aperto con opposte regie e finali, possa prestarsi interpretazioni tanto diverse: manco a dirlo, merito di Puccini e della sua modernità, così calata nella sensibilità del ‘900.
Da tutto questo ne deriva che sarebbe stato interessante e piacevole ascoltare le ultime due pagine del finale di Berio, se una pioggia breve, ma minacciosa e accompagnata da forte vento, non avesse costretto orchestra e cantanti alla fuga. Questa pioggia, però, ha dato troppo l’impressione a chi scrive di rappresentare qualche lacrima di Puccini, versata dal compositore per le tristi e inquietanti prestazioni di Calaf e Turandot.
È difficile, davvero, restituire un’idea di ciò che si è sentito senza soppesare bene le parole, dopo un continuo riflettere, che mi ha accompagnato tutta la notte e buona parte della mattina, quando ormai i pensieri si erano sedimentati.
Theodor Ilincai ha dalla sua parte la sola capacità, se così si può definire, di riempire il teatro all’aperto, in un modo tutto suo e con una tecnica, pericolante, se non assente, a suo uso e consumo.
La voce è tutta indietro, ferma in gola, a essere generosi, e il cantante sembra che faccia un’enorme fatica a tirarla fuori, quasi dovesse cercarla dentro un pozzo profondo. Ne deriva che il fraseggio e lo studio della parola sono completamente assenti, e le frasi si susseguono senza soluzione di continuità, prive di accenti e di caratterizzazione. Gli acuti, che sembrano essere l’unica cosa davvero interessante per il tenore, sono una rincorsa continua, partono male e non finiscono per nulla bene, facendo temere il peggio. Spero si rimetta in sesto perché, a esclusione di qualche difficoltà palesemente dovuta al vento, specialmente nel secondo atto, la prova è stata davvero inquietante.
Karine Babajanyan, in linea col collega, mostra delle paurose e pericolose difficoltà sin dalla prima battuta, in ogni registro, salvo qualche suono a posto nella tessitura centrale. Assistiamo a un turbinìo di frasi spezzate, pronuncia pasticciata, acuti che paiono e sono grida, a cui il pubblico risponde sbarrando gli occhi incredulo: perché prima non ci si crede, ma poi, quando la musica prosegue, l’incredulità diventa incubo: commuoversi per la tristezza dovuta allo smembramento di una parte così bella ed epocale stringe il cuore. E Puccini piange interrompendo la recita.

A Emanuela Sgarlata, interprete di Liù, la principessa di gelo avrebbe dovuto chiedere qualche nota acuta messa a fuoco, al posto del nome che nessun saprà. Il giovane soprano, nonostante sia ancora poco maturo per la parte, canta correttamente, tuttavia senza farci ascoltare nemmeno un piano. Grazie a una buona musicalità, però, e una partecipazione non comune, riesce a risultare gradevole, pur senza lasciare il segno.
Abramo Rosalen, Timur, canta con gusto e sicurezza, mostrando di saper fare bene il suo mestiere, tratteggiando a dovere l’esule sovrano. Bene anche l’imperatore Altoum di Kazuky Yoshida, cantato con solennità e raffinatezza, privo di quei tratti stucchevoli e bozzettistici da vecchio annebbiato.
Un plauso speciale, davvero meritato e sentito, ai tre interpreti di Ping, Pong e Pang. La loro scena che apre il secondo atto, squisita e ben organizzata scenicamente, è stata gustosa e ottimamente eseguita. Giulio Mastrototaro, Ping, oltre che di una formidabile presenza scenica, dà sfoggio di bella voce, grande partecipazione e gusto nel canto notevole, rodato nella predominante frequentazione rossiniana, conferendo al ministro cinese un rilievo non comune.
Bene anche Didier Pieri come Pang, sonoro, piacevole e ottimamente amalgamato coi colleghi del terzetto. Come sopra per Francesco Pittari, Pong, dalla voce ben impostata, piacevole e in perfetta sintonia con le altre maschere.
Nella norma gli altri interpreti, senza particolari distinguo o picchi d’eccellenza.
Michele Gamba, di cui già ho scritto riguardo al Rigoletto scaligero, conferma le ottime impressioni: riesce a imprimere alla partitura la sua visione, fatta di chiaroscuri e ricerca continua tra le note, tenendo insieme con coerenza la drammaturgia musicale, ma non per questo perdendo quelle raffinatezze che l’opera nasconde e porta con sé. La sua direzione appare in linea con l’idea registica, di un Turandot a-trionfale, ma introspettiva e straniante, a cui rispondono bene l’orchestra del Festival Puccini, più precisa del solito, e i due cori, di adulti e voci bianche, diretti rispettivamente da Roberto Ardigò e Chiara Mariani.
Si riporta, per dovere di cronaca, il “Basta!” straziante di uno spettatore, accompagnato dalla richiesta di andarsene, rivolto al soprano Karine Babajanyan, e forse anche al tenore, durante il secondo atto, alla fine dell’ennesima frase distrutta e dell’ennesimo grido.
Credo, mai come in questo caso, che la pioggia, avendo impedito le finali chiamate alla ribalta, abbia impedito anche a più di un ascoltatore il più classico e storico degli sfoghi.
Mattia Marino Merlo