E. Elgar: In the South [Alassio] op.50
E. Chausson: Poème de l’amour et de la mer op.19
P.I. Čaikovskij: Sinfonia no.6 “Patetica” in Si minore op.74

Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia
Direttore: Antonio Pappano
Mezzosoprano: Sonia Ganassi

 

Il 17 Marzo era senza dubbio una delle serate più attese dagli appassionati di musica sinfonica bresciani che per la prima volta ospitano nel loro Teatro Grande il maestro Antonio Pappano. Compagna immancabile dell’italianissimo inglese è l’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia che, sotto la sua direzione, è ormai entrata di diritto nell’élite delle grandi orchestre europee. Non fosse abbastanza, la ciliegina è la presenza di Sonia Ganassi, altra grande eccellenza nostrana. Il programma della serata è quasi una catabasi dalla luminosità dell’ouverture In the South di Elgar, attraverso i chiaroscuri del Poème de l’amour et de la mer di Chausson fino alla penombra della Sesta di Tchaikovskij.

Non c’è modo più appropriato di iniziare uno spettacolo musicale che con un ouverture. Troppo scontato il repertorio operistico, si scopre un pezzo di Elgar che incarna decisamente la doppia natura del direttore Antonio Pappano. In the South, infatti, è il classico prodotto dell’uomo nordico che (re)incontra le dolcezze dell’Italia (qui nello specifico di Alassio, citata in sottotitolo). La tradizione letteraria del paese “dove crescono i limoni” risale almeno a Goethe e al suo celebre Viaggio in Italia, ma per quanto riguarda i musicisti il pellegrinaggio al bel paese era una prassi già decenni prima (un esempio per tutti è Mozart). Non è difficile dunque per Pappano ritrovare i fili di questa composizione, peraltro molto eloquente e suadente. E’ già l’esplosione di enfasi iniziale a dire tutto, egli deve solo amministrare i timbri per creare il giusto mix fra l’etereo trasognato marino e la florida riviera, mantenendo poi quella verve spontanea che cela la retorica di fondo di un compositore come Elgar. Da questo punto di vista la missione è indubbiamente compiuta con opera anche di moderazione, evitando i fortissimi superflui per veleggiare lieti fino all’evocativo momento di stasi notturna in cui, da un velo di pianissimi, si leva il “canto popolare” della viola solista (l’ottimo Raffaele Mallozzi, che prendiamo a rappresentante di tutto un reparto di archi eccezionale). La conclusione ritorna sulle densità sonore d’apertura e chiude senza lasciare ombre di dubbio ed incertezza, in una piena luce e con un virtuosismo del trombone. Tutto l’opposto, ironia della sorte, del clima ben poco da bel paese appena fuori dal teatro: pioggia, freddo e neve!

S. Ganassi
S. Ganassi

Per fortuna l’uomo ha inventato le sale da concerto e l’immaginazione può rimettersi in viaggio col successivo brano, ancora una volta attingendo ad un repertorio affascinante ma poco noto: il Poème de l’amour et de la mer di Ernest Chausson. La luminosità di In the South si è come congelata in uno specchio d’acqua che la trattiene in riflesso, brillando ma senza recare trasporto e calore. Siamo in pieno simbolismo francese di fine ottocento, con quelle orchestrazioni leggerissime che da Massenet (maestro di Chausson) e Franck portano a Debussy e Fauré. Diventa immediatamente l’occasione per mostrare la bravura dell’Orchestra di Santa Cecilia, che attacca dei pianissimi in maniera tanto eterea da astrarre totalmente il suono dalla sua origine meccanica (lo sfregamento delle corde, il fiato nel canneggio, ecc). Gli ornamenti brillanti, in particolare dei flauti in scale ascendenti e discendenti, si incaricano invece quell’effetto di brillantezza acquatica citato sopra. Inoltre è anche l’occasione per Pappano che, nei continui cambi di tempo, esalta la musicalità del suo gesto. Su questa superficie translucida si sviluppa, con reminiscenze da Isotta, un canto imperniato su quell’affinità tutta francese fra le parole Amour, Mort e Mer (amore, morte, mare). La voce è quella di Sonia Ganassi, che tante volte abbiamo gustato in repertorio rossiniano e che ritroviamo con piacere in ambito tanto diverso. Del controllo vocale non si può dire nulla che non sia già noto, così come del bel timbro scuro e della facilità in agilità e volume. L’unica incognita rimasta è l’affinità elettiva dell’interprete con le corde profonde del brano. Da questo punto di vista, evidenziamo innanzitutto un’intelligenza interpretativa che la trattiene dallo spiegare la voce in una situazione dove risulterebbe deleterio poiché romperebbe gli equilibri fragili dell’atmosfera sospesa. D’altro canto la vocalità ed una sensibilità della Ganassi non ci è parsa ideale per quella che è in fondo una derivazione della musica da camera francese. Semplicemente certe finezze di fraseggio tanto necessarie qui non sono assolutamente presenti nella pratica del cantante operistico, e rari sono i casi di versatilità. L’effetto complessivo è in ogni caso di ottimo livello, ammaliante e ipnotico nel pentatonismo conclusivo che, oltre a ricordare le future sonorità della Salome di Strauss,  codifica in maniera assolutamente simbolica e astratta l’imminente morte della protagonista del canto. In poche parole, dalla luce siamo progressivamente scesi, attraverso le acque del mare, alle profondità torbide e oscure: siamo pronti per Tchaikovskij.

Ritengo del tutto superfluo presentare la Sesta sinfonia in Si minore. Gioverà ricordare solo che essa fu composta proprio negli stessi anni del Poème de l’amour et de la mer di Chausson, seppur i due mondi paiano poi così lontani. Qui regna il timbro scuro di fagotti, contrabbassi e violoncelli dell’Adagio iniziale. Qui si sente e si deve sentire la fatica dell’arco sulle corde e del fiato vitale che si disperde nel canneggio. La perizia dell’orchestra, in tutti gli elementi, permette tutto questo. Pappano ci gongola, impostando tutta l’introduzione nel segno di una intimità che esalta queste gestualità quasi cameristiche. Ne emerge un timbro sordo, che all’arrivo del (celeberrimo) primo tema risulta dunque più adatto all’eco malinconico delle codette che alle intensità delle esposizioni. Si compensa con abbondanti ritardandi da giocare prima della fase discendente del tema, che diviene così accelerata e più burrascosa. Certo non si può imputare a Pappano una scarsa varietà nell’approccio: in totale opposizione con la trattazione del materiale tematico, egli impronta le componenti di transizione del primo movimento nella massima apollineità e ponderazione. Quando poi il corso degli eventi viene travolto dall’agitazione dell’Allegro vivo egli deve reinventarsi ulteriormente trovando il furore e l’orrore. Gli vengono in aiuto gli ottoni, ed in particolare i tromboni, assolutamente degni di ogni elogio stasera, ma il risultato complessivo non è incisivo a causa del gesto di Pappano troppo impreciso e sistematicamente enfatico per gestire con dovizia l’accumulo di energie e tensioni cruciali in questi passaggi di Tchakovskij. Lo stesso varrà poi per il grande climax del quarto movimento, momento chiave dell’intera sinfonia e purtroppo scivolato via rapidamente senza lasciare segni indelebili. Se la varietà, la vivacità e la brillantezza potevano essere ottime armi nei primi due brani, qui il confronto con le grandi letture è impietoso e si fa tanto più necessario trovare un taglio preciso e coerente per far rivivere un testamento spirituale di questa portata. Anche nei movimenti centrali è difficile individuare una unità di visione complessiva, mentre si registrano svariati e sparsi effetti splendidi (ancora una volta grandi meriti all’orchestra) quali l’alternarsi dei rubati degli archi sul battito “cardiaco” del timpano nel secondo movimento o il ribattersi stanco e disperato del medesimo accordo dopo la cavalcata sfrenata del terzo (dopo il quale non sono mancati alcuni improvvidi applausi). L’impressione è che, avendo anche a disposizione un eccellente materiale orchestrale, Pappano abbia cercato più l’effetto estemporaneo che la profondità di lettura, trovando così belle soluzioni locali senza tuttavia integrarle in una economia globale delle forze musicali in gioco. Peccato, perché si sarebbe potuto fare davvero molto riuscendo a dare a tutta la partitura l’intensità lugubre che abbiamo trovato ad esempio nell’inizio e fine del quarto movimento, con gli strumenti come trascinati a fatica e debordanti da una frase all’altra in un vero e proprio calvario (in perfetta aderenza alla forma “a croce” del tema iniziale).

Generosa, ma ancora una volta poco comprensibile nell’ottica della valorizzazione di Tchaikovskij (che evidentemente ha commesso l’imperdonabile errore di chiudere la sinfonia in pianissimo), l’aggiunta di ben due bis che distolgono il pubblico bresciano dalle mestizie in Si minore per una sfolgorante Variazione Enigma di Elgar e per la fanfara dal Guglielmo Tell, sorta di simbolo della storia recente dell’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia sotto Pappano. Grossi applausi e speciale firma di autografi dei cd per il maestro nel foyer (ove non manca apposito banco vendite).

Alberto Luchetti