Heinrich der Vogler: René Pape
Lohengrin: Jonas Kaufmann
Elsa von Brabant: Anja Harteros
Friedrich von Telramund: Tomas Tomasson
Ortrud: Evelyn Herlitzius
Der Heerrufer: Zeljko Lucic
Orchestra e coro del Teatro alla Scala
Direttore: Daniel Barenboim
Regia: Claus Guth
Nell’attesa dell’apertura stagionale del 7 Dicembre, il Lohengrin è già andato in scena in prova ed in anteprima per i giovani under 30, sempre con grande successo e con i migliori auspici per la data fatidica. La scommessa di proporre Wagner alla prima stagionale giunge quindi alla terza puntata in sei anni (dopo Tristan und Isolde nel 2007/08 e Die Walküre nel 2010/11), e progressivamente anche il pubblico italiano comincia a farci l’abitudine. Con buona pace dei polemisti, perché date le condizioni attuali della scena lirica è assolutamente sensato concentrare le forze su un Wagner di ottimo livello, come quello esibito in queste 3 aperture, piuttosto che su un Verdi quasi inevitabilmente deludente come è stato recentemente nell’Aida del 2006/07 e nel Don Carlo del 2008/09, fischiatissimi. Le ragioni sono da una parte la penuria di cantanti adeguati al repertorio italiano, e dall’altra la presenza alla Scala di un direttore, Barenboim, che si trova evidentemente più a suo agio in ambito tedesco. Se c’è un merito indiscutibile di questo Lohengrin allora è proprio quello di fare di necessità virtù, di fare delle congiunture un’occasione per massimizzare il risultato. Da una parte, lo abbiamo detto, c’è la garanzia di Daniel Barenboim sul podio, dall’altra ci sono due delle voci più interessanti e già rodate in quest’opera, Jonas Kaufmann e Anja Harteros, ed uno dei registi più richiesti ed originali negli ultimi anni, Claus Guth. Se c’è un ulteriore merito indiscutibile di questo Lohengrin è dunque quello di essere una produzione in cui tutti gli elementi sono sincronizzati ed armonizzati, con regia e direzione che si accordano per esaltare quelle che sono le qualità specifiche degli interpreti.
Partiamo dunque da quello che ci pare l’elemento più caratteristico di questo Lohengrin: il protagonista. Innanzitutto bisogna contestualizzare la particolarità della voce di Jonas Kaufmann, tenore che ha diviso i loggionisti in altri ruoli (in Tosca soprattutto fu molto discutibile) ma che pare aver trovato in Lohengrin una espressione perfetta per le sue qualità. Ci riferiamo in particolare all’uso della mezzavoce e all’applicazione frequente di forcelle di dinamica, due caratteristiche molto presenti nella tessitura del cavaliere del cigno, per il quale Wagner ha costruito una vera e propria vocalità unica, in bilico fra umano e divino, forte ed etereo, impassibile eppure passionale. I suoi punti di forza sono dunque soprattutto i pianissimi, nei quali il controllo tecnico di Kaufmann raggiunge un suono che pare davvero innaturale. Ciò che in altri ruoli lo rende sgradevole, qui ha un effetto assolutamente funzionale. Va da sé che non può essere l’Heldentenor della tradizione discografica (somiglia invece più al Domingo dell’edizione Solti-Wiener), ed è qui che la regia di Claus Guth pare venirgli incontro, andando abbondantemente contro il libretto e facendone un eroe “debole”, complessato, impaurito ed insicuro in quanto ancora in cerca della sua piena e vera identità. La scelta è azzardata, a nostro parere piuttosto anti-wagneriana (perché Wagner al suo eroe puro e forte ma rifiutato ci credeva, perché vi si identificava!), ma se non altro ha il merito di essere coerente coll’insieme delle interpretazioni che danno vita ad uno spettacolo unitario. Come spesso accade tuttavia, l’anti-convenzionalità mette a rischio gli equilibri formali dell’opera, forzando alcuni passaggi che poco si adattano al nuovo punto di vista e spostando l’attenzione da Elsa e il popolo verso il dramma intimo dell’eroe. Di grande effetto sono quindi le due arie di Lohengrin nel terzo atto (soprattutto Mein lieber Schwann, cantanta in un pianissimo impressionante e con l’orchestra leggerissima e molto mesta), mentre il finale vero e proprio risulta così quasi una appendice di poco significato drammaturgico. Non entro per ora nei dettagli delle scelte di Guth, che complicano la conclusione wagneriana, ma sono piuttosto evidenti. Dei mezzi positivamente impiegati da Guth si segnalano invece le molte ma semplici simbologie (con tanto di soliti alter-ego infanti, comunque funzionali all’interpretazione e non buttati là), mentre sono decisamente sacrificate le scenografie anonime.

Delle altre voci è da citare la già lodata Ortrud di Evelyn Herlitzius, dotata di una voce potente e precisa in tutti i registri e di un fraseggio decisamente ben caratterizzato (in un ruolo in cui Wagner comincia a sperimentare molto il suo declamato). Nelle scene di maggior difficoltà (finale terzo atto, preghiera agli dei pagani) la voce tende un po’ al grido, ma dato il personaggio la cosa non è disturbante, anzi. Anche la Elsa di Anja Harteros non è una scoperta né una sorpresa, e la prova si è dimostrata all’altezza delle attese, con pochissimi segni di fatica ed un emissione sempre penetrante ed intonata. Splendida sia nei momenti lirici che in quelli drammatici, per quanto forse non trasmetta del tutto la caratteristica più problematica di Elsa: l’ingenuità (che poi dovrà negarsi nel voler sapere). Ottimo anche il re Heinrich di René Pape, autoritario e sicuro, per non dire paterno. Le note spiacevoli sono i ruoli baritonali, non tanto l’Herrufer di Zeljko Lucic, che ha solo il difetto di fare alcuni gesti (scenici e vocali) assolutamente privi di senso (perché agitare il pugno mentre si dice “der trete vor”, è una minaccia? da dividere ovviamente la colpa col regista), quanto il poco convincente Telramund di Tomas Tomasson, che ha poca voce (sempre inaudibile nei concertati e duetti) e stona in alto. Più che soddisfacente anche il coro, a parte qualche inciampo nel complesso concertato all’arrivo di Lohengrin (anche qui le colpe sono da dividere col direttore in ogni caso).

Arriviamo così a Daniel Barenboim, inevitabilmente protagonista con una interpretazione non banale ed encomiabile, seppur non priva di difetti (eventualmente limabili col passare delle repliche). Incredibilmente verrebbe da criticargli un tempo un po’ troppo rapido nel preludio (lui che di solito tende anzi a rallentare all’inverosimile), in cui anche il volume del’orchestra pare piuttosto sostenuto. Specialmente i fiati forzano molto per tutta la durata dell’opera, con gli ottoni (tromboni in buca e trombe in scena in primis) spesso in difficoltà ed a volte proprio deleteri con suoni orrendi che rompono gli equilibri di un’opera basata a tratti su fragili atmosfere rarefatte. Encomiabile comunque il lavoro del direttore su un’orchestra che pare sempre più difficile da gestire, ma che ha fornito nel complesso una prova di duttilità e leggerezza notevole. Particolarmente valida la torbida prima metà del secondo atto (la cui partitura somiglia più alle future opere di Wagner, in cui Barenboim si trova più a suo agio) e il concertato finale “sospeso” dello stesso atto (momento molto amato da Richard Strauss), così come il dinamico avvio del terzo.
Un Lohengrin molto umano e “borghese” dunque, in cui le cose migliori arrivano nelle scene più intime, con grande appoggio anche sulle doti di recitazione dei cantanti, mentre l’aspetto un tantino grand-operistico, che è innegabile, risulta una escrescenza difforme nell’economia dell’insieme, con movimenti scenici non memorabili. Tutto ciò non toglie che nel complesso lo spettacolo funzioni, con annesse critiche, e sia probabilmente uno dei massimi livelli raggiungibili oggi (indipendentemente dal fatto che poi uno sia in sintonia o meno con l’interpretazione offerta). Un esperimento riuscito insomma nel suo contesto, da apprezzare cercando di dimenticare cosa sia Lohengrin, cosa rappresentasse per Wagner, e calandosi un po’ invece in una fiaba tragicamente psicologica, un dramma della nevrosi anziché la “opera romantica” ed un po’ schopenhaueriana del libretto.
Alberto Luchetti