J. Brahms: Variazioni su un tema di Haydn op.56a
F. Schubert: Sinfonia n.4 in Do minore D.417 “Tragica”
F. Mendelssohn: Salmo 42 (Wie der Hirsch schreit) op.42
Orchestra e coro sinfonico di Milano Giuseppe Verdi
Soprano: Laura Aikin
Maestro del coro: Erina Gambarini
Direttore: Ruben Jais
Il XIX secolo è stato per la storia della musica quasi certamente il secolo più prolifico, sia per quantità che per qualità della produzione. Di questo avviso sono soprattutto i tedeschi, che hanno dovuto aspettare l’Ottocento per trovare una degna espressione musicale (e letteraria) per il loro popolo. Nel Settecento, i centri della cultura musicale erano tutti fuori dalla Germania (prima Napoli, Venezia, poi Vienna e Parigi), che sarebbe rimasta inevitabilmente nel limbo della periferia se non ci fosse stata la figura determinante di Ludwig van Beethoven, che da Bonn andrà a conquistare proprio Vienna. Dopo di lui, ed in qualche modo anche sotto la sua ombra, la musica tedesca (diciamo pure “romantica”) ha cominciato ad assumere un significato specifico a partire dalla tradizione viennese (chiamiamola pure “classica”). Ci pare che questa transizione sia ben rappresentata dalla selezione di autori e brani effettuata da laVerdi questa settimana: Brahms – Schubert – Mendelssohn.
Il programma inizia col più tardo dei tre, Brahms, con un suo brano, le variazioni su un tema di Haydn, che ci rievoca subito il confronto col mondo viennese in almeno due modi: in primis ovviamente il nome di Haydn, in secundis per la forma della variazione, di cui Beethoven aveva fatto un arte. C’è tuttavia un uso della variazione diverso da quello beethoveniano, che era soprattutto analitico, per sviscerare tutte le potenzialità di una frase musicale (si vedano le variazioni Diabelli) quando non c’era a disposizione la sintesi e la varietà timbri dell’intera orchestra. Brahms sperimenta invece qui con questa forma proprio mentre si muove dal pianismo della formazione (dove aveva usato la variazione in maniera più beethoveniana) al sinfonismo della maturità. Peraltro questa stessa opera è stata innanzitutto composta per 2 pianoforti (op.56b), a dimostrare che la transizione all’orchestra era proprio il passo da compiere per Brahms in quel periodo (siamo nel 1873, egli si era da poco trasferito a Vienna, ovviamente!). Facendo un salto in avanti a quella che è considerata la sua opera capitale, la Quarta sinfonia, ritroviamo i frutti di questo lavoro proprio sulla forma della variazione nel potente quarto movimento conclusivo. Nel mezzo non serve neanche citare quanto sia stato importante per la poetica brahmsiana la rielaborazione di temi semplicissimi in infinite varianti che divengono blocchetti di costruzione per le sue più ardite architetture musicali. Siamo sempre nel segno di Beethoven dunque, ma con una consapevolezza sempre più spinta delle porte espressive che si spalancavano per la musica ottocentesca dopo di lui: innanzitutto la ricerca timbrica, soltanto “agli albori” nelle sinfonie beethoveniane, quindi lo sfruttamento intensivo di effetti musicali di maggiore impatto (accordi complessi e dissonanti, specialmente le settime diminuite, dinamiche sempre più brusche e nette, ecc….), infine la sempre maggiore articolazione e lo strutturalismo nella composizione che allungano le durate medie delle opere. E’ su queste linee che si muove la transizione piena verso la musica romantica e verso un ruolo sempre più centrale per il musicista nella vita culturale europea.

Per gli altri due autori, Schubert e Mendelssohn, dobbiamo fare un passo indietro, tornando nel mezzo di questo processo di trasformazione che abbiamo visto culminare in Schumann (forse il grande assente della serata in questo percorso) e Brahms. Innanzitutto è interessante notare come Schubert e Mendelssohn abbiano tanto avuto straordinari tratti comuni (fra tutti ovviamente l’amore per Beethoven e l’influsso dalla sua musica, specialmente nel sinfonismo, la precocità nel comporre e la brevità dell’esistenza: uno muore a 31 anni, l’altro a 38!) quanto straordinarie differenze (innanzitutto l’origine, povera uno, aristocratica l’altro, viennese e cattolico uno, tedesco ed ebreo (poi protestante) l’altro, poi il successo in vita, pochissimo uno, molto l’altro, ed infine l’eterogeneità poetica fra l’intimo e introverso liederista Schubert e il più corale e lieto Mendelssohn). Non stona, a partire da quanto appena detto, l’accostare allora la quarta sinfonia, “tragica”, del primo, alla speranzosa cantata sul salmo 42 per soprano e coro del secondo. Entrambi sono due aspetti dell’evolvere della sensibilità romantica dopo il grande gesto di Beethoven. La sinfonia in do minore rimanda per tonalità alla quinta del genio di Bonn (anche la scelta della tonalità accessoria per il secondo movimento, lab maggiore, è identica), per quanto i risultati ottenuti dal diciannovenne Schubert non siano all’altezza dell’ispiratore. Se manca il lungo sguardo strutturale che tiene insieme quello che è ormai un modello sinfonico per eccellenza, non mancano dei tratti che diventeranno caratteristici della poetica romantica quali la ripresa dei temi, ciclicamente, nell’opera, l’utilizzo di modulazioni inconsuete che aprono atmosfere più profonde e meno astratte e formali, l’intervento quasi “narrativo” di colpi di scena nella sinfonia che esulano dalla conduzione classica dell’esposizione sviluppata e ripresa. Specialmente caratteristico di questo nuovo sentire ci pare il secondo movimento di questa sinfonia, con la forma A-B-A-B-A che rimanda alle forme del canto (il Lied che farà poi la fortuna, postuma, di questo compositore e della musica romantica tedesca) e percorsi armonici fluttuanti ed avvolgenti che svolgono un ruolo di atmosfera più che di elaborazione di un discorso. Altro personaggio fondamentale da citare per queste innovazioni è Carl Maria von Weber (altro morto precoce) che traghetterà questi sviluppi fino alla rivoluzione wagneriana che non poteva trovare altro sbocco che nell’opera, nel dramma teatrale. Chiudendo la panoramica giungiamo a Mendelssohn, figura cruciale nell’istituzionalizzazione della posizione del musicista nel mondo tedesco che andava formandosi. Notoriamente sua è stata la riscoperta del glorioso passato della musica tedesca, specialmente con Bach, in un generale gusto storicista e di scavo nella tradizione (anche in virtù della necessaria costruzione di uno “spirito” nazionale) che caratterizza il secolo. Le cantate sui salmi sono proprio ottimi esempi della sintesi compiuta da Mendelssohn fra le forme di Bach ed i mezzi espressivi del post-Beethoven. In questo caso particolarmente poi, dato l’uso di mezzi estesi sia in orchestra che vocalmente (coro misto, soprano e quattro voci maschili con parti solistiche). Di Bach troviamo soprattutto il gusto per il complicarsi della linea di canto nei momenti di maggior pathos (qui sempre sulle parole che attengono al tormento interiore: “was betrübst du dich, meine Seele”, ma lo stesso vale per il coro che si infrange in voci discordanti per poi riunirsi nei finali gloriosi), mentre da Beethoven viene tutto il potenziamento drammaturgico dell’armonia e della dinamica. La conclusione, in fugato, omaggia in qualche modo entrambi i maestri che proprio alla forma della fuga hanno consegnato alcune delle loro ultime e migliori pagine.

Concludiamo con un doveroso rendiconto anche dell’esecuzione della serata. Sicurissimo di sé il maestro Ruben Jais, che non perde occasione di salire sul podio quando va in scena musica sacra e raramente qui manca il colpo. Mentre la sinfonia di Schubert scorre via forse in modo un po’ troppo fluido e impalpabile, è splendida la sua gestione in Mendelssohn, esaltando il contrappunto e dosando bene i complessi intrecci fra voci e strumenti. Non ci è parso invece all’altezza degli standard a cui ci ha abituati il coro diretto da Erina Gambarini, a volte impreciso (specialmente il quartetto maschile quasi a cappella ha peccato per alcune stonature). Encomiabile la prova della nota soprano americana Laura Aikin, che non ha mai esagerato nell’emissione, controllando la voce impostandola dove gli armonici sono migliori e dove la linea di canto, sicura di non inciampare, poteva dispiegarsi nel migliore dei modi.
Alberto Luchetti