C. M. von Weber: Oberon, Ouverture

L. van Beethoven: Concerto per pianoforte ed orchestra n.3 Op.37
Pianista: Jin Ju 

G. Mahler: Das Klagende Lied
Soprano Natalie Karl
Mezzosoprano Maria Josè Montiel
Tenore Dominik Wortig

Orchestra Sinfonica e Coro Sinfonico di Milano Giuseppe Verdi
Maestro del Coro Erina Gambarini
Direttrice Zhang Xian

C.M. von Weber
C.M. von Weber

Ripensando alla splendida serata trascorsa all’Auditorium di Milano, e cercando di condensare l’intensa atmosfera in cui si era immersi, sono giunto alla formuletta del titolo: “fiabesco mitteleuropeo”. Mi pare una locuzione corrispondente alla forte identità del programma (e finalmente un programma che abbia una identità, è sempre più raro). Siamo infatti subito introdotti in questo clima dall’ouverture Oberon di C.M. von Weber, compositore noto proprio per la sua capacità di avvolgere lo spettatore in atmosfere dalle profondità tipicamente mitteleuropee. Viene in mente la foresta nera, sorta di “cuore” misterioso dello spirito tedesco, del “Geist“, che da Goethe in poi (passando dal sublime kantiano) non si può più scindere da un certo senso panteistico e terribile della Natura. E’ il grande utero universale, tanto origine quanto fine di tutto, il grande buio dal quale si viene e al quale inevitabilmente si farà ritorno. Come non pensare allora alla coincidenza: l’Oberon è l’ultima fatica di Weber, che stremato morrà a Londra solo pochi mesi dopo la prima (siamo nel 1826). L’ouverture trasuda questa tetra premonizione, con l’agilità dei violini fiabeschi che cerca di stagliarsi sull’amalgama del nutrito reparto di ottoni, peraltro in grande serata (non è comune trovare, in Italia, ottoni che non sfigurino nel repertorio tedesco). La densità del suono orchestrale va aumentando mano mano che raggiungiamo il grande finale all’unisono, sorta di ritorno all’Uno indifferenziato, al Deus sive Natura.

Da Londra seguiamo idealmente proprio il viaggio della salma di Weber, che sarà riportata in patria su insistenza dei più noti musicisti tedeschi una dozzina d’anni dopo la morte. Raggiungiamo così Bonn, città di nascita di Beethoven, la cui figura è forse il primo grande ponte mitteleuropeo fra Germania e Austria. La pianista Jin Ju si unisce all’orchestra laVerdi per offrirci il terzo concerto per pianoforte del genio bonnese. Per noi, è l’occasione per continuare ad affondare nelle atmosfere a cui il primo brano ci ha introdotto. E’ interessante come si riesca a mantenere una comunanza di sentore con l’Oberon nonostante lo stile sia tanto differente: siamo nel Beethoven più “classico” (nonostante l’interessante interpretazione “nevrotica” della pianista, senza dubbio più moderna che filologica), nel puro schematismo di forme sonore (varrebbe la pena di citare ancora una volta Kant, ma più pregnante è qui la grande polemica tedesco-austriaca fra “Musik als Ausdruck” e “Musik als tönend bewegte Form”). L’elemento semiotico principale in questo caso è la tonalità, il celebre do minore di Beethoven, sua “tonalità tragica”, una firma che ci ricorda la marcia funebre della terza sinfonia e l’incedere del destino della quinta, oltre che il turbolento maestoso dell’op.111.

Primo tema dell'Allegro
Primo tema dell'Allegro del 3o concerto di Beethoven

Eppure la melodia con cui si apre il terzo concerto non ci conduce verso il tragico, come nelle composizioni appena citate, piuttosto essa avanza linearmente (per triadi ascendenti e discendenti) con semplicità ed un tocco di giocosità, nell’incespicare finale (sol-do, sol-do). Arrivando da Oberon e andando verso Das Klagende Lied, non possiamo non leggere questo tratto come una ulteriore immagine di quella tetraggine infantile di cui sono permeate le fiabe mitteleuropee. Si tenta di familiarizzare la morte (come quando la si soprannomina “Freund Hein”) rappresentandola tanto più vicina quanto più di fatto la si vuole esorcizzare, come in ogni buon rito apotropaico. Rispetto a Weber, qui scorre già po’ d’anima austriaca, che fluisce direttamente dal penultimo concerto per pianoforte ed orchestra di Mozart (KV 491), che Beethoven ricalca chiaramente in avvio. L’opposizione archi-ottoni quindi diventa ora una dialettica paritaria fra pianoforte ed orchestra (molto innovativa per l’epoca: 1800-1) a cui si sommano la dialettica bitematica (meno interessante) e soprattutto la dialettica tripartita dei movimenti. Le burrasche emotive dell’Allegro con brio si placano nel lirismo del Largo, come nel più tipico percorso da Wanderer romantico che ritrova l’abbraccio della natura panteista, ed infine si liberano nella gioia danzante del rondò, che si conclude stravolgendo il do minore d’impianto in un luminoso do maggiore. Non è un caso che la fiaba, che segue spesso schemi simili a questo, emerga alla dignità letteraria proprio in quegli anni e in quelle terre.

Mahler e l'osso
Mahler suona l'osso

Se con Beethoven abbiamo reso omaggio a Vienna, ora è il momento di continuare la peregrinazione verso la vera e propria patria della tradizione fiabistica macabra: la Boemia. Quale migliore testimone dunque del giovane boemo Gustav Mahler, giusto punto d’arrivo di questa serata musicale. E quale miglior testimonianza di Das Klagende Lied, composizione sufficientemente giovanile da impregnarsi totalmente di quel retroterra culturale ma anche sufficientemente matura da portare quell’eredità fino alla contemporaneità. Vorremmo concentrare l’impressione di questo brano nell’immagine dello “Spielmann” (il menestrello) che, giunto al castello dove si stanno celebrando le nozze del re e della regina, suona un flauto intagliato in un osso. Mai è stata così evidente la prepotente fusione del mondo fiabesco dell’infanzia (il castello, le nozze regali) con quello della morte, portato in scena dall’osso, che nel finale assurge proprio a protagonista. E’ l’osso-flauto infatti ad animarsi e declamare nel finale, in nome dell’essere umano che fu, il vero e proprio Klagende Lied, traducibile come “canto di lamento e d’accusa”. Di lamento per l’esser morto, ovviamente, d’accusa perché la morte gli è stata portata proprio dal re, suo fratello, che ha così facendo preso il posto accanto alla regina. Questo acme drammatico è destinato al soprano, una sorprendente Natalie Karl, straziante nell’interpretazione. Il ruolo del “narratore” è invece affidato al mezzosoprano, e merita una menzione il bel timbro scuro di Maria Josè Montiel, perfetto per le tetre atmosfere del Lied. Anche il tenore Dominik Wortig non ha deluso, emergendo anche su un’orchestra ricca e invadente come quella di Mahler ventenne, già maestro dei timbri e virtuoso della partitura, ma ancora incapace di moderare l’esuberanza giovanile (e già abbiamo ascoltato la versione rivista e alleggerita dal compositore nel corso degli anni). Evidentemente “domare” questa partitura è stato grande merito della direttrice d’orchestra Zhang Xian, maestra nel gestire le dinamiche (e curiosamente, come la sua compatriota pianista, piuttosto frenetica ed agitata nelle movenze sul palco). Resta da citare, in questa ribalta finale, l’ultimo protagonista, una piacevole riconferma: il sempre puntuale, compatto ed emozionante coro diretto da Erina Gambarini.

Vorremmo dire di più, parlare dell’interessante effetto stereofonico della banda fuori scena schierata nell’atrio dell’Auditorium, parlare del rapporto d’amore-odio fra Mahler e il teatro in musica, parlare dei germi della musica mahleriana già presenti nel Klagende Lied (per questo rimandiamo a due grandi musicologi come La Grange e Principe). Purtroppo il tempo è tiranno. Non ci resta dunque che sperare di avere altre serate così intelligenti e profonde, per poter riprendere il discorso!

Alberto Luchetti