Dramma serio per musica in due atti
di Vincenzina Viganò Mombelli
Revisione sulle fonti della Fondazione Rossini,
in collaborazione con Casa Ricordi,
a cura di Daniele Carnini

Lisinga JESSICA PRATT

Demetrio – Siveno CECILIA MOLINARI

Demetrio – Eumene JUAN FRANCISCO GATELL

Polibio RICCARDO FASSI

Direttore PAOLO ARRIVABENI

Regia DAVIDE LIVERMORE

Ripresa della regia ALESSANDRA PREMOLI

Scene e Costumi ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI URBINO

Luci NICOLAS BOVEY

CORO DEL TEATRO DELLA FORTUNA M. AGOSTINI

Maestro del Coro MIRCA ROSCIANI

FILARMONICA GIOACHINO ROSSINI

Con il sostegno di Sistemi Klein

Produzione 2010

 

La composizione della prima opera di Rossini dovrebbe collocarsi intorno al 1810. Domenico Mombelli affidò al giovane Rossini il libretto della moglie Vincenzina Viganò (imparentata col famoso coreografo Salvatore Viganò e con Boccherini) il quale stese la musica saltuariamente pezzo per pezzo affidando le voci femminili alle due figlie di Domenico, Ester e Anna, e la parte del basso a Ludovico Olivieri factotum della famiglia. Il tenore protagonista sarebbe stato lo stesso Domenico che probabilmente inserì nella partitura l’aria del secondo atto di Eumene e forse compose la sinfonia. In mancanza dell’autografo rimangono dubbi su alcuni brani che forse sono spuri. Alcuni brano invece come il duetto delle due donne o il famoso quartetto essendo stati riutilizzati più volte denunciano l’autografia. Del quartetto riutilizzato in Equivoco, Pietra, Ciro e Elisabetta esiste un autografo che però attesta una versione un poco rielaborata della musica. Questa partitura, sempre rimasta in possesso dei Mombelli, è oggi stata acquisita dalla Fondazione Rossini divenendo il più antico autografo rossiniano tutt’ora disponibile. Stendhal amava questa opera e pensava che anche la sola composizione di questo lavoro avrebbe consegnato Rossini all’immortalità con Mozart e Cimarosa. Stendhal amò molto il primo periodo rossiniano, facendo fatica a comprendere lo sviluppo napoletano successivo. In Demetrio e Polibio, passando per Tancredi e Aureliano, possiamo trovare infatti una grazia, un incanto estatico che mano mano sfumerà verso strutture più complesse perdendo quel suono fragrante e virgineo delle composizioni iniziali.
La vicenda è abbastanza semplice e il libretto è un poco ripetitivo, non aiutando a descrivere dei personaggi a tutto tondo. La scrittura di Rossini risulta molto interessante e il ruolo per Ester Mombelli si apprezza per la sua completezza. Rossini incontrerà la giovane cantante anche a Parigi a fine carriera e le affiderà il ruolo di Madama Cortese nel Viaggio a Reims.

Jessica Pratt il famoso soprano australiano, che ha scelto Firenze come città d’adozione, canta il ruolo di Ester con grande professionalità. La Pratt è già stata applaudita qui al ROF in intense interpretazioni come Adelaide di Borgogna, in Ciro in Babilonia e in Aureliano in Palmira. Ritratti tutti consegnati all’immortalità grazie a preziosi DVD che testimoniano la sua bravura. Jessica Pratt è oggi una Lisinga perfetta: ne è esempio la sua ampia aria “Sempre teco, ognor contenta” dove sviluppa l’ampia coloratura in arcate iridescenti, entusiasmando il pubblico. Nella cabaletta che segue ascoltiamo mirabili picchiettati, specialità del nostro soprano, sempre a fuoco e nitidi. Dopo la Rivoluzione francese le donne emersero come donne combattive e coraggiose: pensiamo nel teatro alla Leonora di Paër. La seconda aria “Superbo, ah! Tu vedrai” ne è un esempio: preceduta da un preludio che troverà spazio nel Tancredi per introdurre l’aria di Amenaide, l’aria viene cantata dalla Pratt insistendo su diversi affetti e approfondendo la complessità degli stati d’animo. La limpida voce sale e scende con sbalzo senza nessuna difficoltà tra i registri. L’impervia coda è svolta come un gioco, con estrema abilità portando il pezzo alla giusta temperatura. Ester all’epoca aveva 17 anni e siamo sorpresi che Rossini scrivesse per lei musica tanto difficile.
Le due donne cantano con dolcezza quasi settecentesca il duettino “Questo cor ti giura amore” ammirato da Giovanni Berchet nel 1813 in un ascolto al Teatro Carcano di Milano. Lo canta insieme alla Pratt, Cecilia Molinari un Siveno dotato di una voce equilibrata e morbida. Un duettino estatico e prezioso che avrà compimento dopo tanti passaggi con quelli di Semiramide e Arsace. L’aria “Perdon, ti chiedo o Padre” non ha molte difficoltà tecniche e viene svolta con intensità dalla Molinari. Mentre l’aria di presentazione è costituita da una cabaletta in tempo vivo.
Juan Francisco Gatell è un tenore rossiniano e ricordiamo con piacere il suo Don Ramiro romano e il morbido e accattivante Idreno fiorentino. Tenore argentino, di stanza ormai a Barcellona, da dove raggiunge i più importanti teatri del mondo, affronta qui una parte un poco insolita del tenore/padre e rapitore: nell’aria “All’alta impresa tutti” sfrutta un canto di sbalzo, un canto di forza, che va a coinvolgere tutto il coro maschile in un ampio brano. Gatell continua la descrizione del personaggio con “Lungi dal figlio amato” una aria forse spuria che non lo fa salire verso il registro acuto dove la sua voce avrebbe modo di essere esaltata, ma lo costringe ad un registro centrale forse il più consono a Domenico Mombelli. Gatell ci restituisce un personaggio che ama il figlio perduto, ma anche un uomo violento e rapitore. Gatell si allontana dal ruolo dell’amoroso e riesce con la duttilità della sua bella e chiara voce tenorile a scurirla in alcuni punti per un risultato nuovo e ben riuscito.

Riccardo Fassi è il Re Polibio che si presenta già nell’introduzione in un duetto con Siveno. In questo duetto possiamo ascoltare degli incisi orchestrali che ritorneranno nelle prime farse veneziane. Fassi emerge nel duetto con Eumene dove grazie ad una voce corposa e vellutata esprime con veemenza lo sdegno verso l’altro in un brano concitato ancora legato al ‘700 metastasiano. Apre il secondo atto un’aria di Polibio con Siveno e Coro pertichini, dove Fassi esplora il registro centrale con ricche sfumature bronzee dominando la massa corale con la consueta nobiltà.
Il Coro del Teatro della Fortuna di Fano assolve con precisione i numerosi interventi che rendono quest’opera molto aperta ed elastica nell’articolazione dei brani. La Filarmonica Gioachino Rossini è ben preparata da Paolo Arrivabeni che trova il giusto colore in ogni pezzo chiuso: i colori sono già brillanti per il giovane Giochino e l’uso dei fiati intelligente. In partitura è presente un solo flauto mentre gli altri fiati raddoppiano tutti. Il finale I si apre con un “notturno” moderno mentre Lisinga dorme e sogna. Il topos del notturno ritornerà da lì a breve nel finale della Scala di seta con risultati simili. Lo spettacolo già visto nel 2010 è realizzato dall’assenza delle Belle Arti di Urbino. Davide Livermore ha molte idee, ambientando la vicenda dietro un sipario, come se vedessimo gli attori prendere vita quando il sipario si chiude. Ogni cantante ha un doppio, un mimo che anima la vicenda in continui scambi. Finti vigili del fuoco spengono l’incendio causato nel Finale I e i costumi che fanno da scenografia nel primo atto appaiono tutti bruciati nel secondo. Ogni personaggio accende sulle proprie mani delle fiammelle. Molti quindi sono gli elementi che animano la vicenda, che rimane avvolta sempre in una mezza oscurità dando un senso dark alla vicenda. Anche la conclusione non sembra dare speranza ai personaggi imprigionati dentro ad un teatro cupo e opprimente. Ringraziamo Daniele Carnini per la revisione sulle fonti di Demetrio e Polibio che ci ha permesso di conoscere questa partitura che racchiude in nuce tutte le potenzialità del 18enne compositore. Una partitura molto apprezzata tra gli anni ’10 e ’20 dell’800 per poi essere dimenticata dalla messe di capolavori uscita dalla penna di Gioachino. Quanto Ciro e Tancredi si ascolta in queste note e giustamente Stendhal ne apprezzava il candore, il candore immacolato del primo Rossini.

Fabio Tranchida