Dramma per musica in tre atti di
Wolfgang Amadeus Mozart
su libretto di Gianbattista Varesco

Idomeneo Antonio Poli
Idamante Cecilia Molinari
Ilia Benedetta Torre
Elettra Lenneke Ruiten
Arbace Giorgio Misseri
Gran Sacerdote Blagoj Nacoski
Voce di Nettuno Ugo Guagliardo
Due cretesi Lucia Nicotra Maria Letizia Poltini
Due troiani Damiano Profumo Franco Rios Castro

Maestro concertatore e direttore d’orchestra Riccardo Minasi
Simone Ori (25 febbraio a cui si riferisce la recensione)
Regia Matthias Hartmann
Scene Volker Hintermeier
Costumi Malte Lübben
Coreografie Reginaldo Oliveira
Luci Mathias Märker / Valerio Tiberi

Allestimento della Fondazione Teatro Carlo Felice di Genova
Orchestra, coro e tecnici dell’Opera Carlo Felice
Maestro del coro Claudio Marino Moretti
Violoncello Antonio Fantinuoli
Clavicembalo Sirio Restani

Balletto Fondazione Formazione Danza e Spettacolo “For Dance” ETS

A distanza di ben 243 anni Idomeneo è sbarcato finalmente a Genova, per la primissima volta in assoluto, accolto come meglio non si poteva sperare (ma che era lecito immaginare scorrendo la locandina). Infatti mi è parso subito chiaro che al Carlo Felice volessero fare le cose fatte bene, come si dice, “con tutti i crismi”, e l’ultima recita di domenica pomeriggio ha confermato le previsioni, spargendo il sentore odoroso di una celebrazione quasi religiosa, in cui si rendeva vero onore al genio mozartiano e al suo capolavoro serio. Innanzitutto è stata sottolineata, celebrata, assecondata la cocente italianità dell’opera, nella scelta di un cast pressoché tutto di madrelingua, nel gusto interpretativo netto e ben delineato – molto diverso dalla solita leggerezza, anche vocale, abitualmente collegata al titolo -, nella ricerca di un suono anfibio, che fosse davvero l’eroe di due mondi operistici al loro momento di congiuntura (l’opera è del 1781).

Antonio Poli, debuttante nel ruolo eponimo, incarna un Idomeneo che entrerà fra quelli di riferimento – specialmente nel panorama dei tenori italiani, pochi, che hanno cantato o cantano la parte -. E la mia non è ricerca di sensazionalismo, ma semplice realtà. La vocalità è quella generosa e ampia che conosciamo, il colore, poi, è di bellezza senza eguali, e il fraseggio più vario che mai. Se ci si aggiungono la qualità delle micidiali agilità, la forza espressiva del perfetto italiano e dell’accentazione raffinata, il gioco è fatto. Successo, ça va sans dire, grandioso.

Cecilia Molinari risulta un eccellente Idamante, ricco di musicalità ed eleganza, non privo di una bella dose di sensualità. Il mezzosoprano fa della delicatezza vocale e del volume non ampissimo due punti di forza per evidenziare dolcezza e amore, senza mai inzuccherare l’amabilità di un personaggio comunque tormentato e fiero. Un gran successo.

Benedetta Torre – bravissima, oltre che bellissima, Ilia – ha qui compiuto una maturazione totale. Il giovane soprano conosce bene Mozart, e lo volta e rivolta come un abito prediletto: la voce bella, splendente ma con piacevoli note calde, il fraseggio ricercato e mai svenevole, la partecipazione sentita ma raccolta descrivono una principessa sinceramente commovente. Successo fragoroso.

Giorgio Misseri, efficacissimo Arbace, eccelle per scolpitura del personaggio, bellezza timbrica e perizia tecnica notevole, che fanno del ruolo, tutt’altro che secondario, uno dei cardini dell’opera: le sue due arie sono tra i momenti più coinvolgenti e pirotecnici della recita, con acuti e sovracuti (mi sopra il rigo!) senza paura proprio perché sostenuti da sicurezza, intelligenza e musicalità. Applausi scroscianti.

Lenneke Ruiten, nei panni quasi inaffrontabili di Elettra, si dimostra interprete di classe e rifinita, nonostante una certa asprezza timbrica quasi metallica. L’aria “D’Oreste, d’Ajace”, ad onta di certi suoni poco puliti (il do acuto, di per sé illegale, è sghignazzato) la vede uscire vincitrice, accolta da un boato di pubblico.

Di grande pregio il Gran Sacerdote di Blagoj Nacoski e la Voce di Nettuno di Ugo Guagliardo, che mantengono alto il già alto livello complessivo.

Eccezionale la resa del Coro, anch’esso protagonista, qui in una delle sue prove più significative ed encomiabili.

In tutto questo risulta fondamentale la direzione d’orchestra di Simone Ori, del tipo che senza di essa una notevole percentuale di successo verrebbe meno. Ori, direttore musicale di palcoscenico presso il Carlo Felice, giunge sul podio per l’ultima recita, mostrando innanzitutto un’intesa non comune con l’Orchestra del teatro, che suona tanto bene da sembrare specializzata in questo repertorio. E infatti il suono che ne viene fuori, come ho già accennato, fonde passato e futuro, senza indulgere in effetti barocchi, ma mitigandoli con un vitalità quasi romantica, all’occorrenza dolce od energica. Le medesime varietà e ricercatezza si ritrovano nei recitativi – animati dai superbi violoncello e clavicembalo di Antonio Fantinuoli e Sirio Restani – caleidoscopici, parte fondante del dramma. Tenendo conto che l’opera era eseguita quasi integralmente, con tanto di balletto finale (che mette sempre di buon umore), questo Idomeneo, in futuro, andrà tenuto a mente.

Matthias Hartmann e i suoi collaboratori firmano una scenografia di sicuro impatto, ad alto tasso tecnico, con effetti di luce grandiosi, ma quasi priva di una vera regia, che mostra qualche guizzo solo nella gestione delle masse corali. La scena, fissa ma rotante, rappresenta l’enorme relitto abbandonato di una nave e una colossale testa di toro (come a dire che Creta, luogo dell’azione, è sempre maledetta da qualcosa di simile al famigerato Minotauro), con conchiglie giganti e ancore sparse. Nessun grande lavoro drammaturgico, insomma, che però ha avuto il pregio di presentare un’opera poco frequentata e di riuscire a impressionare favorevolmente anche lo spettatore più assonnato.

Mattia Marino Merlo