Dramma lirico in quattro atti
Libretto di Arrigo Boito
Musica di Giuseppe Verdi
Personaggi e interpreti
Otello Arsen Soghomonyan
Jago Luca Salsi
Cassio Joseph Dahdah
Roderigo Francesco Pittari
Lodovico Adriano Gramigni
Montano Eduardo Martínez
Un araldo Matteo Mancini
Desdemona Zarina Abaeva
Emilia Eleonora Filipponi
Orchestra, Coro e Coro delle voci bianche
del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Zubin Mehta
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Maestro del Coro di voci bianche Sara Matteucci
Regia Valerio Binasco
Ripresa da João Carvalho Aboim
Scene Guido Fiorato
Costumi Gianluca Falaschi
Luci Pasquale Mari
Allestimento del Teatro del Maggio
L’Orchestra e il Coro del Maggio Musicale Fiorentino, semplicemente, non danno scampo: fin dalla prima battuta che li contraddistingue mettono subito in evidenza chi sarà a dominare e saturare la sala grande, o quanto meno chi sarà disposto a dar battaglia a chicchessia nel furoreggiare e catalizzare l’attenzione. L’energia di volta in volta sprigionata, mai risolta in baldanza sonora fine a se stessa, la bellezza timbrica delle sezioni, in una gara virtuosa di precisione e compenetrazione, il nitore dei suoni, levigati e calibrati sulle necessità della scena, tutte queste peculiarità, che le due compagini mostrano e dispiegano, non danno il tempo di riprendersi da quanto appena ascoltato, e, come in uno spettacolo pirotecnico attanagliante, ciò che si è già ascoltato viene superato da quel che si andrà ad ascoltare. Gli archi fanno un lavoro sovrumano nel dischiuderci i flutti del mare, i tormenti dei ciprioti e dei soldati, i fiati, invece, con le trombe in testa, imprimono nella mente quei “titanici oricalchi” che “squillan nel ciel”, sfoggiando uno squillo, appunto, spaventoso nella sua più alta accezione per perfezione e dominio dell’impervia partitura. Poi esplode il coro, sprigionante la sua veemenza verbale e spirituale in un “Dio, fulgor della bufera! Dio, sorriso della duna!” che pare piombare giù dal cielo, con una tale furia religiosa, creatrice e distruttrice a un tempo, sconvolgente. Le percussioni, a conclusione di un affresco musicale ancora ribollente, danno il loro magistrale colpo di grazia, non certo per abbreviarci le sofferenze, ma solo ed esclusivamente per accrescere la stupefazione, totale, davanti all’ “àncora fedel” che si posa “in fondo al mar placato”. L’apertura dell’opera, se non fosse chiaro, in questo caso assurge ad epitome della qualità estrema di coro e orchestra, che come un fiume carsico ha irrorato di bellezza l’intero spettacolo, fino alla sua estrema conclusione. Del resto tutte le maestranze del Maggio visibilmente, sensorialmente stravedono per il maestro Mehta. E vorrei ben dire. La monumentalità del genio verdiano è sbalzata dalla direzione come nel marmo, marmo che non è qui sinonimo di pesantezza, ma di resistenza e durabilità nei decenni, di qualità cristallina dei suoni, di luminosità sia negli afflati voluttuosi che nei tratti più marziali e solenni. Come un’unica grande arcata la musica ci ricopre, scaturendo da un gesto minimo, irradiando vita nella morte: tutto è calibrato, le dinamiche ora straripanti, ora lievi, sempre al servizio di chi canta; le agogiche, dall’incedere grave, di tragedia incombente, che possono far pensare alla “stanchezza”, ma che sono in realtà espressione di chi dirige, non mero effetto dell’età. Leggo spesso, talvolta con rammarico, che il successo che accoglie il maestro Mehta alla fine di una recita pare quasi una routine rispettosa e affettuosa, ma poco comprensiva della realtà: in parte potrà essere vero, ma è altrettanto vero che la purezza dei suoni di questo Otello, malinconico e ieratico insieme, non può lasciare indifferenti.

Il Moro che s’inserisce in questo pregevole lavoro è Arsen Soghomonyan. Il tenore armeno mi ha colpito per un aspetto in particolare, ovvero per il rispetto, emerso chiaro ed inequivocabile, del personaggio e dello spartito verdiano. Otello non è per lui sfoggio di esagerazioni o machismo, nonostante gli acuti ci siano tutti; il tenore, infatti, forse consapevole di un timbro vocale non certo baciato dal fato e di qualche asperità vocale, non calca mai la mano, non sfocia in eccessivo istrionismo, ma è più uomo, amante dubbioso, roso dal sospetto e dalla diversità, che condottiero bellicoso punto nell’onore. La voce, opportunamente scura, dagli acuti saldi, trova proprio nelle oasi amorose del primo atto e negli sconvolgimenti interni del terzo i momenti migliori, mancando, come accennato, di bellezza timbrica, che in certi casi tende a farlo apparire secondario rispetto agli altri protagonisti, complice anche una dizione da rivedere (il libretto di Arrigo Boito non perdona). Inoltre, si capisce bene che l’interprete fa quello che può e sa per sopperire a un abbandono registico palese, consegnandoci un Otello non memorabile ma vocalmente rispettabile.

Diventa anche più difficile emergere quando ci si trova a fare i conti con Luca Salsi e il suo Jago: il baritono, conoscitore della parte, mette in campo tutta l’acquisita esperienza col personaggio, e se è vero che ormai la sua voce, estesa e tecnicamente ferratissima, il suo timbro, omogeneo e corposo, il colore, inconfondibile e scuro, non hanno più bisogno di presentazioni, l’interpretazione riesce ancora una volta a stupire, in virtù di una dizione e di uno scavo sulla parola esemplari. Non ho riscontrato alcuna forzatura nella caratterizzazione del suo Alfiere, ma solo e semplicemente (come se fosse poi così semplice) l’incarnazione della malvagità, dell’invidia, della gloria del vedere e del fare il Male, la personificazione di quel suo “Credo”, la cui esecuzione sconvolge schiettamente. La gestualità è verosimile, seppur teatrale, composta di sguardi, occhiatacce, movimenti rapidi delle mani, fulminee azioni che interessano ora una, ora l’altra delle sue pedine umane; perfino quando la sua trama è ormai disvelata, conserva il fascino del male, fascino oscuro che lo rende il vero trionfatore in palcoscenico.
La Desdemona di Zarina Abaeva ha dalla sua parte una peculiarità non così scontata, quella di possedere uno strumento vocale ampio e ben timbrato nel registro centrale, con acuti sicuri, anche se un po’ tesi, in quello più alto. È piuttosto l’interprete che non si presenta sempre a fuoco, con qualche problema di pronuncia e comprensione del libretto, e un’aria da donna matura che la fa apparire più una nobile signora che una sposa accorata. Il finale del terzo atto, con un’orchestrazione colossale, la vede prendere le redini della recita e imporsi con professionalità, mentre la canzone del salice e l’Ave Maria spiccano per la pregevolezza dei pianissimi, un po’ meno per la varietà di accenti. Anche su di lei si percepisce uno scarno lavoro registico, che la relega a una banale convenzionalità, smorzata da qualche interazione riuscita con Otello. L’idea registica, si capisce, ha condannato lo spettacolo, in più di un’occasione, ai limiti dello squallido abbandono.
Molto bene, davvero, il resto del cast, determinante per l’azione e la drammaturgia della vicenda: professionale e più che corretto, nonostante l’indisposizione, il Cassio di Joseph Dahdah, che risolve la parte con gusto, sicurezza e appeal scenico; molto bene anche l’infido Roderigo di Francesco Pittari, degno compare di Jago, e l’autoritario Lodovico di Adriano Gramigni, dalla voce notevolmente estesa, ahimè non supportato nella figura dal suo abito di scena, un po’ troppo Conte Dracula; benissimo il Montano di Eduardo Martínez, che mette già in evidenza la ricchezza vocale con un “È l’alato Leon!” squillante e poderoso; molto bene, specie nel registro centrale, l’Emilia di Eleonora Filipponi, capace di lottare fieramente sia con Jago che con Otello; ottimo, infine, l’Araldo di Matteo Mancini.
La regia di Valerio Binasco, ripresa da João Carvalho Aboim è brutta sotto ogni aspetto, stereotipata, priva di originalità, senza alcuna coerenza interna, ambientata in un presente-futuro martoriato dalla guerra – che dovrebbe invece essere in fondo al mare – in cui si muovono personaggi dai costumi più variegati, rappresentanti un Medio Oriente sbiadito, confuso e offuscato. Bisogna dire che del cast che vide la nascita dell’allestimento, nell’ormai lontano 2020, non è rimasto che Luca Salsi, così è sparita anche quella componente di lavoro sulla coppia di sposi che si era potuta constatare in televisione. Si fa davvero fatica a trovare un momento buono, con il coro immobile, granitico, e gli interpreti che girano in più di un caso a vuoto per la scena. Riesco a salvare due idee interessanti: il talamo nuziale dell’ultimo atto, abbandonato in mezzo alla scena desertica, e l’ombra di Otello, che si proietta sullo stesso e sulla parete di fronte, quando sopraggiunge per uccidere Desdemona dormiente. Per il resto un “nulla eterno” ben poco poetico, anzi da incubo.
Mattia Marino Merlo – Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, 23 maggio 2023