Opéra-Comique in due atti
Libretto di Jean-François-Alfred Bayard
e Jules-Henry Vernoy de Saint-Georges
Musica di Gaetano Donizetti
Personaggi e interpreti
Marie Giuliana Gianfaldoni
Tonio John Osborn
Sulpice Roberto de Candia
La Marchesa di Berkenfield Manuela Custer
Hortensius Guillaume Andrieux
Un caporale Lorenzo Battagion
Un notaro (attore) Federico Vazzola
Un contadino Alejandro Escobar
La Duchessa di Crakentorp con la partecipazione speciale di Arturo Brachetti
Orchestra e Coro Teatro Regio Torino
Direttore Evelino Pidò
Maestro del coro Andrea Secchi
Regia Barbe & Doucet
Ripresa da Florence Bas
Luci Guy Simard
Regia video Guido Salsilli
Direttore dell’allestimento Antonio Stallone
Nuovo allestimento Teatro Regio Torino
in coproduzione con Teatro La Fenice di Venezia
Non è per voler fare un torto agli altri componenti della compagnia, se pensando al nuovo allestimento de “La fille du regimént”, in quel di Torino, la mente e il ricordo volano, con subitaneo ed inevitabile vigore, a John Osborn e al suo Tonio: spesso si usano – ed io stesso uso – termini come “raffinatezza” e “buon gusto” per riferirsi a interpretazioni particolarmente cólte nello stile, nella bravura e nell’abilità di dosare delicatezza e sfrontatezza vocali. Nel nostro caso, però, diventano seriamente superflui, poiché ci troviamo davanti all’apoteosi di entrambi, alla loro consacrazione e sublimazione, a un tale livello di completezza, sotto ogni aspetto, cui pochi altri possono aspirare e giungervi. Non una parola, non una nota o una frase sono emesse, articolate per improvvisazione o mero autocompiacimento, al contrario acquistano tutte un senso stilistico pregnante, denso di significato, che serve a preparare l’ascoltatore, a metterlo nella possibilità di cogliere l’intenzione animante l’interiorità di ciò che viene eseguito, in un canto che non è mai per se stessi, mai per la propria gloria, ma tutto proiettato verso l’altro. Come a dire che la splendida proiezione vocale che Osborn sfoggia, precisa, perfetta, è un tutt’uno con quella della sua volontà interpretativa e del suo gusto nel bel cantare, una rara simbiosi, insomma, che soddisfa, diverte e commuove. Dopo queste parole, quindi, appare quasi inevitabile il successo ottenuto, e di cui lo abbiamo ricoperto, la sera della prima, dopo la celeberrima “Ah! Mes amis”, coi suoi estremi do rinforzati quasi a voler andare oltre le possibilità umane – bissata, ça va sans dire, senza risparmio alcuno – e financo dopo la sua seconda e difficilissima aria, ricca d’accenti dolci e patetici, ”Pour me rapprocher de Marie… Tout en tremblant, je viens” con delle note da far spavento, imperniata nel suo svolgimento sia su una tessitura sia acutissima che dolcemente chiaroscurale, risolta da vero ed inappuntabile fuoriclasse. Quello che Osborn riesce a realizzare, in una commistione di ironia, comicità, ingenuità e trasporto, è a buon diritto la summa di un ruolo che trova in lui profondo compimento.

La meraviglia, ne va reso atto, di questa “Fille” risiede anche nella piacevolissima direzione di Evelino Pidò: il direttore, versato nelle arti del belcantismo romantico e non solo, tratta la partitura – nella sua edizione critica curata da Claudio Toscani – da esperto, il che non si trasmette solo nella tecnica, nel gesto o nell’impeccabile sostegno ai cantanti, ma anche, e soprattutto, nell’abilità di cangiare colori e ritmi, nonché nel sottolineare certi passaggi come accade di rado: è proprio nel ribollimento di questa rappresentativa opéra-comique che il maestro si immerge, trovando accenti riflessivi perfino laddove sembrerebbe imporsi la comicità, senza mai abbandonare quell’aura sentimentale che pervade l’opera. In taluni passaggi, specialmente dei brani arcinoti, è sembrato quasi di ascoltare certi suoni per la prima volta, il che vale già molto di per sé, sia per il valore dell’Orchestra del Teatro Regio, volenterosa nel seguire il maestro, che per il suo impeccabile Coro.

Venendo al resto del cast, solitamente la parte di Marie è notevole banco di prova, e di soddisfazione personale, per ogni soprano che l’affronti: ci si può davvero sbizzarrire e far saltare il pubblico sulle poltrone. Giuliana Gianfaldoni, da par suo, mi ha stupito, forse anche perché era la prima volta che l’ascoltavo dal vivo. Innanzitutto canta bene, molto bene, con una linea di canto sempre pulita, sostenuta a dovere e pregevole nei colori e nelle nuances, specialmente quelle più tenere e patetiche, e non è un caso se proprio “Il faut partir”, assieme alle sofferenze dell’ultimo atto, sono i momenti più riusciti e soddisfacenti, con quei pianissimi “da capogiro”. Ma forse è proprio in questa espressione che sta il margine di crescita: perché se la vocalità è sorretta da ferrea tecnica, manca quel senso di vertigine proprio nella pirotecnica del registro acuto, per altro sicuro e sonoro. Qui, sebbene si resti favorevolmente impressionati, ancora non si trasale per il funambolismo vocale, ma si percepisce netta la qualità indubbia per ulteriori sviluppi.
Impreziosiscono quest’allestimento Roberto de Candia e Manuela Custer: che cantanti-attori! qui come non mai impegnati dal lato recitativo. Il primo delinea un Sulpice “seriamente divertente”, nel senso che fa sorridere davvero, con quell’apparente seriosità (più che serietà) del personaggio, sempre bilanciata da ammiccamenti, occhiate, sbuffi e movenze comiche ma mai grottesche. E poi canta benissimo tutto quello che c’è da cantare, in costante affiatamento coi colleghi. La seconda, da par suo, è perfettamente calata nelle vesti eleganti e volubili della Marchesa di Berkenfield, alternando rigore e solennità a pura verve comica, sempre offerta al momento giusto, non dimenticando la vena di sofferenza e amore silenzioso che il personaggio nasconde. La Custer, insomma, riesce a cogliere in pieno quella che definisco “ironia dell’eleganza”, ovvero quell’involontaria comicità, celebre anche nel cinema, che gli aristocratici a volte dimostrano nelle situazioni più comuni e triviali.
Ottimo, poi, l’Hortensius di Guillaume Andrieux, spigliato sia vocalmente che scenicamente, sempre in mezzo a gag che lo vedono protagonista; benissimo anche il caporale di Lorenzo Battagion. Completano il cast il corretto contadino di Alejandro Escobar e il piacevole notaio dell’attore Federico Vazzola.

Voglio infine spezzare una lancia, anche due, a favore della regia di Barbe & Doucet, che in teatro ho sentito un po’ vituperata: non mi si tacci d’esser di bocca buona, ma, di questi tempi, a me l’idea generale è piaciuta non poco. Quell’idea di ambientare l’opera sul comò di un’anziana Marie, oramai in ospizio, i cui ricordi, raccontati ai nipoti e tramutati in minuscole personcine di swiftiana memoria, prendono vita tra un orologio a cucù, delle confezioni di medicinali, qualche ninnolo religioso, una macchinina di latta, teneri ricordi fotografici, carillon e via discorrendo, non solo mi ha convinto, ma mi ha pure commosso (ogni tanto fa piacere tornare in soffitta e scoprire che non c’è solo polvere). Bisogna però essere onesti e dire che la realizzazione risulta a tratti ridondante e un po’ troppo “alla Offenbach”, autore in cui l’esagerazione ha senso pure visivamente, ma che in quest’opera dovrebbe essere più contenuta, più educata, ecco, come Marie a casa dalla madre-zia. Ci sono alcune scene, infatti che sprizzano eccessi, altre invece meglio calibrate, e anche i costumi, non sempre belli, anzi, a volte paiono scazzottare i nostri occhi. E nonostante questo, l’impatto visivo continua a dare soddisfazione, a riscaldare, a inserire la vicenda in un’ottica di commosso ricordo, col finale in cui l’anziana Marie, già vista in video durante l’ouverture, riappare con un malinconico sorriso che ci fa sorridere a nostra volta. La vera perla di quest’allestimento va ricercata però in Arturo Brachetti e nella sua duchessa di Crakentorp: che ci si trovi davanti a un’artista a tutto tondo non è una novità, e qui, tra abbattimento della quarta parete e numeri di trasformismo (ben due) come solo lui sa, tra disinvoltura scenica sfacciata e musica tradizionale torinese, Brachetti si ritaglia un successo personale significativo, in un crescendo di coinvolgimento e risate.
Mattia Marino Merlo – Teatro Regio di Torino, 13 maggio 2023