Dramma giocoso in due atti KV 527
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart
Libretto di Lorenzo Da Ponte
Personaggi e interpreti
Don Giovanni Luca Micheletti
Il Commendatore Adriano Gramigni
Donna Anna Jessica Pratt
Don Ottavio Ruzil Gatin
Donna Elvira Anastasia Bartoli
Leporello Markus Werba
Masetto Eduardo Martínez
Zerlina Benedetta Torre
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Maestro concertatore e direttore Zubin Mehta
Maestro del Coro Lorenzo Fratini
Regia Giorgio Ferrara
ripresa da Stefania Grazioli
Scene Dante Ferretti, Francesca Lo Schiavo
Costumi Maurizio Galante
Luci Fiammetta Baldiserri
Allestimento del Festival dei Due Mondi di Spoleto
Come in un elaborato e raffinato pranzo a più portate, cui il dessert può porre il suggello della buona riuscita o il marchio retroattivo dell’insoddisfazione, in questo Don Giovanni fiorentino – per altro gradevole nella sua totalità – l’ultima parte dello spettacolo, con l’azione del libretto che finalmente inizia a sfogarsi in vero dramma e la tensione scenica a farsi palpabile, la cena del nostro dissoluto impenitente, l’apparizione del Commendatore e lo stravolto coro finale hanno compiuto l’atto magico di gettare una nuova e positiva luce su quanto già ascoltato e, più o meno inconsciamente, apprezzato: la lettura del maestro Zubin Mehta, infatti, ha trovato nel finale una forza drammatica tale da far tremare le vene e i polsi, tale da mettere in guardia chiunque su qualsiasi ipotesi di stanchezza, o mancanza di energie, da parte dell’anziano direttore, entrato da pochissimo negli ottantasette anni. Perché se è vero che è venuta meno quell’ironia beffarda dei tempi e dei colori orchestrali, molto più orientati verso un’aura spettrale e cupa, e che in certi casi il ritmo allentato ha rischiato di far perdere pathos e sensualità alla narrazione, specialmente laddove la sessualità nella e della musica appare indispensabile, il fuoco che si è sprigionato dall’orchestra e dal podio, per tutta la durata dell’arco conclusivo, può essere considerato speciale e precipuo appannaggio di un grande direttore, lontano sì da certe sensazioni più vitalistiche e carnali, ma comunque possessore di un senso del dramma totalizzante. L’Orchestra del Maggio sotto la sua bacchetta pare sempre in un perpetuo stato di grazia, il nitore del suono, la chiarezza timbrica e la raffinatezza dei suoni hanno raggiunto livelli eccelsi, ed è stato palese il grande rispetto per chi sta loro di fronte: ecco, forse non ci troviamo davanti alla “directio princeps” di Mehta, ma quanto meno davanti a un’esecuzione che nella carriera di altri maestri direttori avrebbe avuto il gusto della grande impresa.
Impresa che avrebbe avuto ben altro successo se la polverosa, ammuffita e inespressiva regia fosse stata affidata, almeno nella direzione dei gesti, delle interazioni e delle espressioni a Luca Micheletti, che da par suo avrebbe sicuramente saputo diffondere la sua inequivocabile capacità recitativa anche nel resto della compagnia: il giovane baritono, che già ha fatto suo il personaggio di Don Giovanni – rendendo difficile, nei fatti, trovare qualcosa di significativo che non sia già stato detto o scritto – dovrebbe essere preso in considerazione per mettere la sua arte di cantante-attore al servizio della scena, svolgendo il doppio ruolo di regista e interprete. Micheletti è una forza della natura, sia dal punto di vista vocale, in un ruolo che gli calza a pennello, con quel bel suo timbro brunito sfoggiante centri corposi e mezze voci raffinate, che da quello recitativo, da autentico mattatore, con risate a effetto e movenze sempre funzionali e mai caricaturali: letteralmente da incorniciare la sua esecuzione di “Deh, vieni alla finestra”, ricca di prodezze tutte sul fiato, e la scena della cena, fino all’estremo confronto col Commendatore, cantati e recitati in significativa sintonia col podio, palpabile perfino nelle voraci addentate al fagiano sul vassoio, sino al conclusivo la naturale, che pareva provenire direttamente dall’oltretomba.
Con lui ha fatto coppia, in una relazione scenica calibrata al dettaglio, il travolgente Leporello di Markus Werba: va detto che la voce non ha il colore scuro, profondo e avvolgente preferibile per la parte, ma il timbro, seppur chiaro, è bello, ricercato e mai manierato, valorizzato da un eccellente fraseggio e da una complicità rilevante col “padrone”. Forse in certi momenti ci si sarebbero aspettati una risonanza e volume maggiori, tali, però, da non aver inficiato una prova maiuscola per limatura del personaggio e assenza di ogni volgare incrostazione da buffone arrapato.
Davvero bella la prova di Eduardo Martínez, un Masetto significativo scenicamente e vocalmente, come poche volte si vede e sente restituito questo ambiguo e amabilmente ottuso personaggio: la qualità vocale cresce costantemente, acquistando rotondità, volume e ricchezza di fraseggio, e questa volta, come nella recente Finta Semplice, si apprezzano ancor di più la verve scenica e la sensibilità nella recitazione, quanto mai carica di buon gusto.
Con altrettanta enfasi non si può scrivere di Ruzil Gatin, già da me molto apprezzato nel repertorio rossiniano, che qui è stato un Don Ottavio professionale ma inaspettatamente sbiadito, con uno strano vibrato nella voce e un controllo dei registri che pareva tradire un non completo agio nella parte. Ciò non ha tolto l’evidente partecipazione e volontà di contribuire alla riuscita dello spettacolo, apprezzabili.
Di gran pregio Adriano Gramigni, Commendatore dal ragguardevole spessore vocale e scenico, nonostante per la sua fantasmatica apparizione la regia lo collochi fuori scena, sostituendo la sua persona con l’apparizione, fin troppo esagerata, di una grande testa marmorea che dovrebbe rappresentarlo (e che finisce per assomigliare di più al noto ritratto marmoreo di patrizio romano al Museo di Torlonia).
Jessica Pratt, nonostante qualche percepibile affaticamento, probabilmente dovuto alla parte non così sfogata in acuto e, come dire, non propriamente pirotecnica, ma più centrale, si distingue comunque per un’estrema classe ed eleganza, dove mai un suono è forzato e ogni parola ha il giusto accento, con un gusto per la varietà mai fine a se stessa e con un’equilibrata dose di belcantismo, imprescindibile per la cantante e, bisogna ammetterlo, anche per il nostro piacere: se già ci aveva convinti nella prima parte dello spettacolo, nella seconda ci ha conquistati e fatto capire una volta di più perché ormai ci troviamo di fronte a “la Pratt” e non a un soprano qualsiasi.
Anastasia Bartoli possiede uno strumento che definire bello è riduttivo, opulento nel timbro e di un’omogeneità che affascina per la ricchezza di armonici in ogni registro. La sua Donna Elvira ha margine di miglioramento e crescita, certo, ma, nonostante qualche suono a tratti fisso, non possiamo non apprezzarla, tutt’al più che la recitazione è pregevole e la qualità vocale delle migliori in circolazione. Da riascoltare di certo.
Di piacevole presenza scenica e sempre più vocalmente disinvolta, diciamo pure pronta per ruoli di crescente protagonismo, è Benedetta Torre nelle vezzose vesti di Zerlina: ecco, sebbene la regia paia impacciarla nelle solite movenze da contadinotta, è evidente che il giovane soprano ci metta del suo per andare in un’altra direzione, specialmente con lo strumento vocale, che acquista interessanti e conturbanti sfumature erotiche in “Batti, batti, o bel Masetto”, per altro già apprezzate nella Finta Semplice, e mostrando pure un bel carattere quando si tratta di dividere il palcoscenico col Don Giovanni di Micheletti, nei fatti non correndo mai il rischio di risultare oscurata.
Straordinario come al solito, e che bel solito, il coro del Maggio Musicale, istruito da Lorenzo Fratini.
Della regia cimiteriale, di ragnatele e di muffe, di tombe e squallidi androni direbbero meglio dieci immagini di qualsiasi parola, ma volendo essere onesti bisogna constatare che inizialmente un colpo d’occhio c’è anche stato, per la profondità della scena, per quel gusto neoclassico degli ambienti, per quei colori che parevano provenire dal passato nel loro essere tenui e discreti, insomma, per l’apparenza di trovarci di fronte ad una regia di cosiddetto stampo tradizionale, e che forse poteva portarci stimoli nuovi: tutto è crollato piano piano, nella ripetitività delle luci, degli ambienti e delle azioni – vien da dire smussate e perfezionate dai singoli artisti -, nella banalità delle idee, in cui si è salvato solo il sorriso maligno e beffardo di Don Giovanni dopo il coro finale, quando ormai tutti avevano ripreso il loro posto in un mondo di “pulvis et umbra”, da cui erano usciti per raccontarci la loro storia. Una regia che, nel bene e nel male, ha scontentato tutti.
Mattia Marino Merlo – Sala Grande, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, 6 maggio 2023