Opera in quattro quadri
Libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica
Musica di Giacomo Puccini

Personaggi e interpreti

Mimì Francesca Manzo*
Rodolfo Giuseppe Infantino*
Musetta Rocio Faus*
Marcello Alfonso Michele Ciulla
Schaunard Francesco Bossi*
Colline Yuri Guerra
Benoît/Alcindoro Luca Gallo
Parpignol Domenico Travaglini
Venditore ambulante Massimo Pilloni 
Doganiere/Sergente 
Claudio Armas 
Un monello 
Margherita Gumirato


*Vincitori del Concorso lirico internazionale Giancarlo Aliverta

Orchestra Senzaspine
Direttore 
Nicolò Jacopo Suppa
Coro di VoceAllOpera diretto da Giacomo Mutigli
Coro delle voci bianche del Teatro Comunale di Bologna
diretto da 
Alhambra Superchi
Regia Gianmaria Aliverta
Scene Francesca Donati
Costumi Matteo Corsi


In coproduzione con Orchestra Senzaspine

Che strano caso commuoversi all’ascolto di un’opera, e poco dopo non capire se la commozione era dovuta solo al dramma rappresentato oppure anche agli artisti, alle loro anime e agli ambienti che avevano reso possibile una tale profusione di sentimenti: perché in questo eccezionale allestimento della Bohème pucciniana, organizzato nella periferia milanese dello Spazio Teatro 89, è arrivata dritta al cuore non solo la forza intrinseca dell’opera arcinota, ma anche, e soprattutto, quella peculiare forza d’animo giovanile, vibrante e mirata a smuoverci nell’intimo, propria di giovani, giovanissimi e non – dal primo protagonista in scena fino al maestro alle luci, o all’amministratrice social – che ha travolto gli spettatori sin dalle efficaci parole di presentazione di Gianmaria Aliverta, vero capocomico d’un tempo che fu. Aliverta, ideatore del concorso VoceAllOpera, recentemente intitolato al padre Gianmarco Aliverta, mette su con la sua associazione senza scopo di lucro e tutta basata su donazioni di soci, amici, estimatori e volontari, qualcosa che definire sensazionale è francamente poco: si sa che il confronto non è propriamente professionale, e che talvolta conduce al nulla, ma per questa volta decido di farlo comunque ed affermare brevemente, ma con particolare fermezza e sicurezza, che un certo grande teatro milanese – e un certo grande pubblico un po’ miope – hanno subito una cocente sconfitta sotto più di un aspetto, sicuramente sotto quello sentimentale, umano e dell’apertura mentale. Innanzitutto la regia di Gianmaria Aliverta, con la complicità delle scarne ma efficaci scene di Francesca Donati, sotto le suggestive luci di Alessandro Lotto, è una “dolce tortura”, che non va tanto per il sottile quando vuole farti male: per stessa ammissione del regista, ci troviamo negli anni ‘80 e ‘90 dei paninari milanesi, della povertà dilagante, delle malattie sessualmente trasmissibili, degli ultimi sempre più emarginati e delle difficoltà nel portare un pasto in tavola per tutti coloro che abitano la degradata periferia. I nostri giovani – negli abiti d’epoca curati da Matteo Corsi, fatti di giubbotti bombati, maglioni di lana e jeans di seconda mano – sono un gruppo affiatato di amici che per sbarcare il lunario si arrangia come può, riscaldandosi con le fugaci fiamme di qualche canna e vivendo spensieratamente di espedienti. E pare che tutto proceda liscio finché Mimì, col suo male fatto anche d’emarginazione e povertà, porterà nel gruppo la morte, mettendolo davanti al sommo tabù che ciascuno porta con sé, ovvero la paura e l’evitamento del dolore luttuoso, impossibile da metabolizzare o anche solo accettare. Questa è la drammatica realtà cui Bohème ci mette davanti – e che spesso va persa tra cenci, coriandoli, nevicate e affastellamenti vari -, e che in questo allestimento appare violenta come fosse la prima volta, nella sua cruda franchezza di un divano di pelle rossa, qualche tavolino, quattro panche e una recitazione talmente rifinita da poter essere messa accanto ad altre più celebrate Bohème.

Badate bene che il merito non è stato solo del “genio creatore” Aliverta: il cast giovane e affiatato l’ha fatta da padrone, in un’amalgama vocale e recitativa tremendamente convincente: Francesca Manzo ha tratteggiato una Mimì d’estrema dolcezza, vera, sincera nel fraseggio non artefatto, e dall’apprezzabile vocalità sicura e già ben gestita, in ruolo non facile, dove la freschezza timbrica del giovanissimo soprano ha svettato sull’esperienza un po’ âgée delle colleghe più scafate; sorprendente il Rodolfo di Giuseppe Infantino, innanzitutto per il timbro decisamente bello, e poi per la duttilità vocale, ora volta a ricercare azzeccati pianissimi, ora sfrontata nell’esibire dei do da manuale: che gestisca bene il repertorio e avremo di che goderne; disinvolta e già dirompente la bella Musetta di Rocio Faus, smaliziata e sicura nel brillante ruolo dell’innamorata capricciosa, come il suo Marcello, interpretato da Alfonso Michele Ciulla, anche lui dalla vocalità già piena e corposa, cantante-attore provetto sia nelle scene con la fidanzata che in quelle con l’amico fraterno Rodolfo; di grande impatto la caratterizzazione dello Schaunard di Francesco Bossi, “punkabbestia” dalla rotonda vocalità, all’apparenza il personaggio più estroverso e navigato di tutti, eppure così pieno di insicurezze, tanto da contorcesi a terra di paura e angoscia per la morte di Mimì: la sua recitazione mi ha atterrito nel più alto senso del termine; apprezzabile anche il Colline di Yuri Guerra, mai secondario durante la recita e commovente nell’abbandona della vecchia zimarra, cantato con trasporto e bella voce; il resto del folto cast completava con onore la bella rappresentazione.

Di grande spessore e trasporto, sia per scelta dei tempi che per calibratura dei volumi, la direzione del giovanissimo Nicolò Jacopo Suppa: il direttore, alle prese con un’orchestra a ranghi ridotti per ragioni di spazi – la precisa e professionale Orchestra Senzaspine – ha presumibilmente dovuto ragionare con attenzione sulle sonorità, dimostrandolo con abilità non indifferente, soprattutto se si tiene conto dell’ambiente circoscritto dove i professori suonavano – lateralmente alla platea -, e della perfetta udibilità delle voci, mai una volta coperte o costrette a sforzare suoni ed emissioni, ma anzi sostenute, avvolte e condotte ad esprimersi al meglio (e anche qui ci sarebbero certi confronti che evito con un’abile “preterizione”); ottima e teatrale, poi, la varietà dei tempi e la sicurezza del gesto, che già fa presagire il meglio, in corrispondenza anche di una direzione dell’Italiana in Algeri per i bambini al Maggio Musicale Fiorentino che fatto parlare molto bene.

Apprezzabile anche l’apporto del Coro di VoceAllOpera, diretto da Giacomo Mutigli e il gustoso coro di voci bianche del Teatro Comunale di Bologna, coinvolgente pure scenicamente, istruito da Alhambra Superchi.

Che dire di più, forse solo “grazie”.

Mattia Marino Merlo – Spazio Teatro 89, Milano, 16 aprile 2023

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