Tragedia lirica in tre atti
Libretto di Francesco Maria Piave, da “The Two Foscari” di Lord Byron
Musica di Giuseppe Verdi
Personaggi e interpreti
Francesco Foscari Franco Vassallo
Jacopo Foscari Fabio Sartori
Lucrezia Contarini Angela Meade
Jacopo Loredano Antonio Di Matteo
Barbarigo Saverio Fiore
Pisana Marta Calcaterra
Fante Alberto Angeleri
Servo del Doge Filippo Balestra
Orchestra, Coro e Tecnici dell’Opera Carlo Felice Genova
Direttore Renato Palumbo
Maestro del coro Claudio Marino Moretti
Regia e scene Alvis Hermanis
Costumi Kristìne Jurjàne
Coreografie Alla Sigalova
Luci Gleb Filshtinsky
Video Ineta Sipunova
Balletto Fondazione Formazione
Danza e Spettacolo “For Dance” ETS
I due Foscari, mi si perdonerà l’ardito ma proficuo confronto, si presentano sempre come un ottimo, prelibato piatto della cucina italiana arcaica: innanzitutto per il loro non secondario status di colonna portante di tanta drammaturgia verdiana – quali sono le ricette antiche per la nouvelle cuisine – , poi, e qui sta la vera difficoltà, per la loro totale mancanza di sconti e mezze misure quando li si vuole interpretare al meglio e con rispetto. Come nella preparazione di pietanze dalla storia e dai gusti secolari, dunque, per l’esecuzione di tali opere non esistono scorciatoie, non vi sono inganni vocali o semplificazioni musicali cui aggrapparsi, e se si vuole anche solo risultare convincenti bisogna fare affidamento su se stessi e le proprie capacità, senza mai tradire la musica, per servirla ed esserne serviti. Partendo da questi presupposti sempre utili ed immediati nella loro apparente semplicità, riluce ancor più con vigore la stupefacente prova di Franco Vassallo, fedele servo, e di rimando straordinario interprete, di una partitura complessa e nient’affatto banale, sia musicalmente che psicologicamente: il baritono, fin dal preludio che lo ha visto in scena come un vecchio accorato, sofferente e angustiato, ma ancora risoluto nell’esser Doge e padre temprato dagli anni e dalla vita, ci ha donato un ritratto del tutto convincente scenicamente, ancor prima che vocalmente, con una gestualità misurata ma pregnante di significati, in cui uno sguardo, un movimento della mano o del volto avevano un preciso legame con la parola scenica. Quando ha cantato, però, si è raggiunto un livello di appagamento davvero completo: il timbro nobile, ricco, assolutamente personale e piacevolissimo all’ascolto, si è mostrato omogeneo in ogni registro e perfettamente sicuro in quello acuto, sfolgorante e quasi sfrontato per la facilità con cui certe note sono state emesse e tenute – memorabile in tal senso l’esecuzione, quasi sospesa nel tempo, di “Questa è dunque l’iniqua mercede” – ; il fraseggio, poi, denso di saggezza, evidentemente ottenuta negli anni di carriera, ha coronato il tutto, esprimendo intenzioni precise ogni qual volta ce ne fosse bisogno, ora per apparire risoluti e ineluttabili, ora per descrivere luttuoso declino e amarezza. Un compendio, insomma, di come si canta questo ruolo, con grande tecnica e sensibilità, che valeva da sé la visione di un simile spettacolo.

Molto bene ma, va precisato, non allo stesso suo livello di esecuzione, Fabio Sartori come Jacopo Foscari, e Angela Meade come Lucrezia Contarini: il primo ha messo in rilievo il vigore e l’eroismo del giovane figlio del Doge, non tralasciando completamente gli aspetti più malinconici e sofferti, ma sicuramente prediligendo, anche e soprattutto vocalmente, un’interpretazione più baldanzosa ed energica, di certo non arrendevole o dubbiosa; il timbro vocale, infatti, bello e sufficientemente omogeneo di natura, nonché tale da avergli assicurato una lunga e proficua carriera, ha insito in se stesso un animo combattivo, sia per la facilità negli acuti, sia per la vigorìa degli accenti, sbalzati sempre con piglio deciso; il fraseggio, con l’indicatore quasi sempre puntato sull’energia, nonostante durante l’apparizione del Carmagnola mostri delle nuances più oscure e umbratili, è ricco, ma non come ci si aspetterebbe, soprattutto se mostrasse più varietà per sopperire a una presenza scenica talvolta inerte. Ci troviamo comunque davanti a una prestazione di livello, con un piccolo rammarico nella mancata ripresa della cabaletta “Odio solo, ed odio atroce”, che ci sarebbe piaciuta completa, e magari variata, vista la qualità esecutiva.
Angela Meade, sofferente e combattiva figlia e nuora di dogi, si trova dall’inizio alla fine dell’opera in uno dei suoi repertori d’elezione, che guarda con prepotenza al belcanto, ma che già è orientato verso accenti più drammatici, per cui si deve possedere, oltre a una notevole resistenza vocale, un controllo dei registri precisissimo, giacché la partitura va a toccare pressoché ogni zona, scomoda o meno: e la Meade ha tutto questo, mostrandosi lussureggiante e sicurissima nel registro centrale, con note piene in basso e squillante in alto, al netto di un vibrato che si riassorbe ben presto nella pienezza vocale. Pirotecniche le variazioni nelle cabalette – “O patrizi, tremate” è più che esaltante per abilità e gusto esecutivi – e d’effetto notevole sul pubblico in sala, e su chi scrive, l’aria “Più non vive!”, semplicemente uno dei momenti più alti dell’intero spettacolo. Merita precisare che il soprano ha inoltre fraseggiato con gusto, mostrando un netto miglioramento nella pronuncia italiana rispetto ad altre prove precedenti, soprattutto per le vocali che risultano più aperte, senza quel fastidioso “senso di chiusura” e appiattimento spesso esibiti dai cantanti anglofoni.

Ottimo anche Antonio Di Matteo nei panni di Jacopo Loredano, malvagiamente fascinoso nel risultare perfido senza mai perdere la nobiltà del portamento e del canto, forte di un bel timbro autorevole, sempre a fuoco e dalla grande musicalità, e soprattutto sonoro come il personaggio merita, tale da risultare udibile e chiaro anche nei concertati che lo vedono protagonista.
Apprezzabili, poi, gli interventi per nulla scontati di Saverio Fiore, efficace Barbarigo, e Marta Calcaterra, raffinata e scenicamente disinvolta Pisana. Completavano con onore il cast il fante di Alberto Angeleri e il servo del Doge di Filippo Balestra.
La direzione del maestro Renato Palumbo, già molto apprezzato qualche anno fa nell’inedito giovane Verdi de “La battaglia di Legnano”, al teatro del Maggio Musicale Fiorentino, mi ha fatto capire una volta di più l’importanza del giusto equilibrio tra vigore ed energia quasi garibaldini ed estatico abbandono, da ricercare sempre per dirigere, e bene, certo repertorio verdiano primigenio: il maestro non solo ha saputo bilanciare l’energia dei tempi e dei volumi, imprimendo alla narrazione musicale il giusto andamento, tale da mettere in risalto la vena più sanguigna del dramma, ma ha pure evidenziato la raffinatezza melodica di certi pezzi, specialmente nella seconda parte dello spettacolo, dove è emersa con forza la tragedia di un padre e di una moglie, vittime inermi della legge e della storia. È molto facile liquidare il cosiddetto “primo Verdi” con una direzione da furia risorgimentale, molto meno, ma decisamente più apprezzabile, eseguirlo in questo modo, con un occhio al passato, al presente e al futuro dell’opera verdiana. Da apprezzare, dunque, l’ottima Orchestra del Carlo Felice, artisticamente elevata nel seguire l’idea direttoriale, così come il sempre splendido Coro, istruito dal maestro Claudio Marino Moretti.

La regia di Alvis Hermanis, già vista in teatro e in tv per i complessi del Teatro alla Scala, si distingue per un’evidente volontà di rappresentare con la giusta dose di eleganza e onirismo la realtà interiore dei personaggi, piuttosto che l’esteriorità di ambienti e fatti storici. I colori, che inizialmente sono raffinatissimi negli accostamenti e nelle dissolvenze dall’uno all’altro, dopo un po’ annoiano e perdono varietà, salvando solo in parte certe immagini, proiettate a sottolineare eventi del dramma, in pieno stile “calendario di Frate Indovino”, non tanto per la qualità, quanto per l’essere didascalici e ridondanti. Molto meglio il gioco delle pareti che si aprono e chiudo con gusto cinematografico, così come la costruzione di certe scene, specialmente corali, che però lasciano sempre quel retrogusto di “tableaux vivants” fini a se stessi, privi di un vero senso drammaturgico. Senso del dramma che, invece, si sente con violenza per tutto l’ultimo atto, grazie allo straordinario Doge di Franco Vassallo, spogliato letteralmente dei suoi onori e della sua vita, in camicia da notte, folle e sconsolato nel suo aggirarsi intorno al letto a baldacchino dentro cui morirà, circondato dai Dieci e dalla nuora.
Mattia Marino Merlo – Teatro Carlo Felice di Genova, 8 aprile 2023