Opera in due atti e otto scene
Libretto di Philip Hensher
Musica di Thomas Adès

La Duchessa, Irina Bogdanova*

La cameriera, L’amica, La cameriera che prepara il ricevimento,
L’amante del Duca, La ficcanaso, La giornalista di cronaca rosa,
Amélie Hois*

L’elettricista, Il gigolò, Il cameriere, Il ficcanaso, Il fattorino,
Thomas Cilluffo*

Il direttore dell’hotel, Il Duca, L’addetto alla lavanderia,
Un ospite dell’hotel, Il giudice,
Lorenzo Mazzucchelli

Orchestra Teatro Regio Torino
Direttore Riccardo Bisatti*
Regia Paolo Vettori*
Scene Claudia Boasso
Costumi Laura Viglione
Luci Gianni Bertoli
Direttore dell’allestimento Antonio Stallone


*Artisti del Regio Ensemble

Nuovo allestimento Teatro Regio Torino

Per descrivere la conturbante meraviglia di Powder her face bisogna innanzitutto cominciare dallo straordinario libretto di Philip Hensher, immaginato a partire della reali vicende della sua protagonista: la mia formazione prettamente letteraria trova in questo gioiello una vera e profonda soddisfazione, perché se è vero che spesso i testi da mettere in musica, quando letti senza musica, lasciano gran parte dei fruitori interdetta, in questo caso è vivamente consigliabile procurarsene una copia, sia per coloro cui piacerebbe capire il senso e l’originalità dello scrivere un libretto nella nostra epoca, facendolo per altro così bene, sia per tutti quelli che sono incuriositi dalla poetica inglese contemporanea, in questo caso d’altissimo profilo. Innanzitutto colpisce la duttilità della lingua, che qui raggiunge vette olimpiche con le sue peculiari sonorità, con i suoi divertissements canzonatori della fraseologia inglese, con una prosodia evidentemente aggiustata e misurata per suonare all’unisono con la ricchissima partitura. Poi il linguaggio, così vivo e pregnante, eppure tanto raffinato nell’esprimere sensualità, crudezza e raggelante pornografia, in un equilibrio formale che garantisce il “non-disagio” anche quando le scene maliziose diventano profondi e fulminei amplessi. E ancora i ritmi serrati dei dialoghi, con la geniale e programmatica idea di affidare più personaggi allo stesso interprete, eccezion fatta per la Duchessa protagonista, sempre fedele a se stessa, nel lusso, nella ricchezza, nella povertà e nella vergogna, che pur nella dissolutezza lei mai ha perso – “The shame I never lost.” -. Come è facile intuire, la frantumazione linguistica, psicologica e morale che il libretto mette in campo, è stata terreno di gioco e conquista da parte degli interpreti, veri cantanti-attori che son sembrati reincarnarsi nei loro doppi, tripli e quadrupli scenici, contribuendo a quell’indispensabile straniamento, racchiuso nella visione degli stessi volti in ruoli diversi, ottenuto con un cambio di psicologia, gestualità, inflessione vocale, e financo timbrica, tale da farci immaginare per ognuno un trascorso formativo da attori di prosa. Ed è con la musica che Thomas Adès eleva la bellezza testuale a pathos, a grandezza tragica, anche nella forma ridotta di un ensemble da quindici professori, dove le emozioni, raccolte nella tranquillità di una piccola sala, con musicisti e direttore a vista, esplodono e lasciano a bocca aperta: la partitura, nel suo essere racconto per suoni – dove “per” vuol dire “attraverso”-, emessi da strumenti insoliti o da strumenti soliti manomessi in maniera insolita, immerge l’ascoltatore in un acceleratore di particelle sentimentali, impressionandolo ora con strane sordine, ora con trilli elettronici, ora con vive percussioni, ora con archi che non sembrano archi, in una costruzione teatrale che fa sprofondare subito dentro il dramma.

Ovviamente, tenere le redini di una così complessa struttura, che a un primo ascolto pare priva di sporgenze cui aggrapparsi, mette la tempra tecnica e morale del direttore a dura prova, ma qui arriva il bello: Riccardo Bisatti lascia senza parole. Dopo il recente Don Giovanni, il giovanissimo direttore “cambia viso, muso e naso, per poterci servir”, rimanendo sempre lo stesso, ma nei fatti dando prova di saper gestire con sicurezza, trasporto e micidiale precisione un repertorio, se così si può definire, cronologicamente vicinissimo a noi eppure così lontano dalle abitudini di ascoltatori e addetti ai lavori. Quello che colpisce più di ogni altra cosa è il totale controllo della situazione, gli attacchi sempre puliti, mai incerti, cui i cantanti si affidano ciecamente per orientarsi in un groviglio organizzato di suoni; e ancora il gesto, la partecipazione e quel giusto grado di nervosismo che riesce a imprimere a uno spettacolo che si basa su questo, sul dosaggio delle angosce, dei turbamenti e delle ilarità, musicali e librettistiche, sempre malinconiche e, appunto, “nervose”.

La compagnia di cantanti, giovane e fresca, che di meglio non poteva trovare per essere guidata in questo mare di cipria, era composta da quattro assi: Irina Bogdanova ha grandemente interpretato la vita dissoluta e sofferta della Duchessa di Argyll, contribuendo col suo bel timbro sopranile, caldo e sensuale, ad evidenziare la lenta e centrale linea di canto della protagonista, con ragionati effetti vocali, specialmente in corrispondenza dei suoni consonantici, e con uno straziante finale, a metà tra la follia e la disperazione; pirotecnica, poi, nella musicalità e nella recitazione Amélie Hois, nei panni dell’irriverente cameriera dalla vocalità estrema, con salti di registro propri di un virtuosismo volutamente eccessivo ed estremizzato, ad accentuare leggerezza e frivolezza; ottimo anche Thomas Cilluffo, elettricista dall’accattivante recitazione e dalla vocalità adamantina, quasi da musica leggera d’altri tempi, intrigante sin dalla sua prima canzone, così “ruggente” nel ricordare anni ed epoche musicali d’un tempo che fu; ultimo ma non ultimo Lorenzo Mazzucchelli, direttore d’hotel-duca-giudice, che ci ha rapiti con la sua interpretazione esiziale del “judge”, commendatore di mozartiana memoria, in una parte costellata da note bassissime, di una profondità demoniaca, e picchi in acuto da risolvere addirittura col falsetto.

Dulcis in fundo la presenza di Paolo Vettori, che ha saputo dare della vicenda una lucida lettura, quasi spettrale nei movimenti scenici, nelle apparizioni dei protagonisti, nell’uso degli spazi e delle luci per caratterizzarli: la stanza d’albergo, o di manicomio, finemente decorata e ammobiliata secondo gli usi dell’epoca, è come una cella, come la camera di un pazzo, in cui i flashback sulla vita della Duchessa paiono animati da spiriti ultramondani. Ed è proprio qui la genialità, nel far spirare in un contesto moderno delle ventate di soprannaturale, di grottesco, sganciandosi da una lettura espressamente “verista”. Così un attore rappresenta le pulsioni sessuali e fisiche della protagonista, così le pareti si aprono su un aldilà di foto erotiche, così la scena del processo, con la testata del letto che alla fine crolla per fare spazio all’implacabile direttore d’hotel, ci riporta con la sua costruzione scenica, e con i versi “Order. Justice. Silence. Order. Silence. Madam.” del giudice, a quei lapidari “risolviti” e “pentiti” del convitato di pietra per antonomasia. Innegabile, dunque, un lavoro recitativo e materiale impeccabile, di cui si potrebbe scrivere molto, e che ha contribuito a costruire una sinergia da gran teatro d’opera, d’impatto violento e straniante.

Mattia Marino Merlo – Teatro Regio di Torino, Piccolo Teatro Puccini, 18 marzo 2023