Opera in tre atti
Libretto di Wystan Hugh Auden e Chester Kallman
Musica di Igor Stravinskij
Tom Rakewell Matthew Swensen
Anne Trulove Sara Blanch
Nick Shadow Vito Priante
Baba the Turk Adriana Di Paola
Father Trulove James Platt
Sellem Christian Collia
Mother Goose Marie-Claude Chappuis
Keeper of the Madhouse Matteo Torcaso
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Daniele Gatti
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia Frederic Wake-Walker
Scene e costumi Anna Jones
Luci Charlotte Burton
Video Ergo Phizmiz
Nuovo allestimento
Per non rischiare di perdermi in miriadi di discorsi già detti e meglio espressi, preferisco atipicamente soffermarmi su un dettaglio che sempre mi stupisce e che, ascoltato dal vivo nella sua immediata semplicità, permette di cogliere l’originale libertà compositiva di Stravinskij, fondamento della sua opera tanto vituperata dall’avanguardia del tempo: l’uso, invero straniante e caratterizzante, del cembalo per i recitativi. Ebbene sì, di tutto il mare magnum in cui potrei condurmi e condurvi, la potenza di quei tocchi sulla tastiera, così antichi e così fortemente presenti nel loro essere slegati dalla ricreazione artistica del passato fine a se stessa, colpisce e fa roteare la testa sul collo come per predisporci ad una novità cui l’orecchio pare non essere abituato: quando il recitativo inizia, si capisce immediatamente dove siamo, e forse anche dove stiamo andando, in un alternarsi di suoni dolci e raccolti, freddi e metallici, duri e ruvidi, insinuanti e malevoli, a seconda del personaggio e dell’occasione. Nella sua apparente secchezza e stringatezza, dunque, si nasconde un modo nuovo di intendere la manifestazione musicale forse più comune nell’opera, il recitativo, che Stravinskij mai schematizza e sempre modella sulle esigenze del libretto, mostrando ironicamente molta più avanguardia di coloro che contestano l’antico senza progresso.

A fare da maestro cerimoniere, pittore e sensale in questa spumeggiante partitura, “ça va sans dire” di non soli recitativi, è stato il maestro Daniele Gatti, impareggiabile nel sottolineare le influenze musicali e nell’amalgamarle in un impasto orchestrale dove l’insieme ha dominato il particolare, in un gioco raffinato che mai è scaduto nella fredda citazione. Perché il vero pregio di quest’opera – che potrebbe diventare facilmente un’insensata caccia al tesoro – , del tutto compreso e interiorizzato da Gatti, esperto della partitura, con la complicità della straordinaria Orchestra del Maggio Musicale, è quello di disseminare tra le note un retroterra musicale che per il suo compositore era sconfinato: proprio merito della direzione è stato l’averci guidato, con ritmo vivo e teatrale, senza che perdessimo il filo, aver disseminato indizi per permetterci di ricostruire il quadro completo, senza che i particolari fagocitassero la visione d’insieme. Ed è così che si apprezzano i cambi di colore, i ritmi ora cadenzati, ora distesi, le oasi romantiche e quelle pre-romantiche, il subdolo porsi di Nick Shadow, l’amabile incedere di Anne, il dubbio amoroso, a tratti lascivo, di Tom, la femminilità insinuante e turbata di Baba. In questa lettura così pittorica, propria sì di un grande affresco, ma raccolta nella misura di una stampa settecentesca, grande pregio ha avuto il Coro del Maggio Musicale, istruito da Lorenzo Fratini, espressivo all’ennesima potenza, vero attore protagonista con la sua musicalità tutta italiana, che pure ha reso amabile la difficoltosa prosodia della lingua inglese. Grande prova di professionalità e bravura, quindi, da parte delle maestranze tutte, in tempi difficoltosi e grigi per un teatro a cui non posso che voler bene.

Ben amalgamato, nelle sue spiccate differenze musicali e caratteriali, il cast di cantanti: Matthew Swensen si è destreggiato con professionalità nella parte del libertino Tom Rakewell, facendosi apprezzare più per l’immedesimazione scenica che per la vocalità, con note non sempre a fuoco e un timbro di qualità non degna di nota, talvolta espressivamente limitato, ma che, come già detto, è stata in parte supplita dallo scavo interpretativo e dalla resistenza mostrata nel risolvere il ruolo, lungo e insidioso, specialmente per i continui cambi di umore ed intenzione.
Sara Blanch è ormai un’artista che seguo con vivo interesse e che ha colto fino in fondo il vero senso del cognome della sua Anne, “Truelove”, mostrando “vero amore” per il perduto Tom e per il belcanto: il suo timbro di soprano lirico-leggero, debitamente sfumato e ricco di delicatezze, nonché corredato da un controllo perfetto degli acuti e dei virtuosismi, specialmente nella scena del primo atto, ha tratteggiato con trasporto la giovane innamorata, passando dall’ingenuità alla forza d’animo, dalla semplicità alla comprensione della triste sorte di Tom, con fraseggio ricco e ottima proprietà linguistica.
Il Nick Shadow di Vito Priante è stato un compendio di insinuante malvagità, di quella diabolica affettazione che irretisce anche i più scaltri: è forse il cantante in scena, complice anche il libretto gustoso e raffinato, che ha descritto davvero a tutto tondo il suo personaggio, centrando la sua costruzione scena dopo scena, recitando con convinzione e portando il pubblico a sorridere diabolicamente insieme a lui. La parte, vibrante e scoppiettante, insiste spesso sul registro centrale, in cui il baritono si trova completamente a proprio agio, sfoggiando un fraseggio ricercato che dà senso a ogni sua frase, sin dall’insinuante presentazione a Tom, presaga di sventure, fino al suggestivo gioco finale con le carte – scena che, tra l’altro, ha funzionato perfettamente per recitazione, canto e idea registica suggestiva – .

Costruita senza scadere in volgari eccessi, la Baba di Adriana Di Paola è risultata del tutto convincente, sia vocalmente, col suo timbro avvolgente, che scenicamente, apparendo sensuale e fisicamente appetibile nella sua stravaganza, qui espressa con delle movenze e delle vere e proprie occupazioni da “influencer” dei nostri tempi, che l’hanno condotta a tramutarsi in fenomeno da baraccone più per il volgare mettere in piazza la sua vita che per lo sfoggiare un aspetto fisico mostruoso. Il personaggio, infatti, è foriero di una delle poche idee davvero azzeccate della regia di Frederic Wake-Walker, che l’ha immaginata pelata, dunque tutt’altro che barbuta, come una sorta di zimbello più morale che fisico: del resto la maggioranza delle moderne influencers o tiktokers, a cui la Baba è ispirata, è bellissima, sexy e provocante, ma spesso e volentieri tutt’altro che ricca di contenuti, tramutandosi nei fatti in una sorta di fenomeno social circense, vittima di scherno e sadica ironia.
Ben assortito anche il resto del cast, col padre di Anne, il sonoro e autorevole James Platt, la prorompente e dirompente Mother Goose di Marie-Claude Chappius, e i più che corretti Christian Collia e Matteo Torcaso nelle rispettive vesti di Sellem e del Keeper of the Madhouse.

Resta da dire della regia: ci sono stati dei momenti felici, anche suggestivi, come la già descritta rivisitazione, per altro del tutto convincente, di Baba, e la scena del cimiteriale duello all’ultima carta, grottesco e minuziosamente studiato nella recitazione dei protagonisti. Ecco: la ricerca sulla caratterizzazione dei personaggi è stata la parte più apprezzabile dello spettacolo, soprattutto per il suo non essere così banale. Purtroppo sono risultate del tutto inadeguate le numerose proiezioni video, non tanto nella scelta delle immagini, quanto nella loro resa grafica, spesso troppo “pixellosa” e con dei vistosi stacchi ogni qual volta il video ripetesse il suo ciclo. Se penso al Doktor Faust, dove i video erano di fattura hollywoodiana, quasi da film di supereroi, il paragone è tristemente impietoso, e non si può fare a meno di pensarci. Per il resto la scena era quasi sempre scarna, solo con qualche semplice elemento e, talvolta, con numerosi scatoloni a descrivere situazioni e ambienti, restando però ben lontani dall’effetto “Beggar’s Opera” di carseniana memoria. Morale: le scatole sono molto difficili da usare sul palco, e spesso si finisce per romperle, ahimè.
Mattia Marino Merlo – Sala Zubin Mehta, Maggio Musicale Fiorentino, 16 marzo 2023