Opera in quattro quadri
Poesia di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa
Musica di Giacomo Puccini

RodolfoFreddie De Tommaso
SchaunardAlessio Arduini
MimìMarina Rebeka
MarcelloLuca Micheletti
CollineJongmin Park
MusettaIrina Lungu
Benoît/AlcindoroAndrea Concetti
ParpignolHyun-Seo Davide Park
Sergente dei doganieriGiuseppe De Luca
Doganiere Alessandro Senes
Venditore AmbulanteLuigi Albani
DirettriceEun Sun Kim 
Regia e sceneFranco Zeffirelli 
ripresa daMarco Gandini 
CostumiPiero Tosi
LuciMarco Filibeck

Produzione Teatro alla Scala
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Coro di Voci Bianche dell’Accademia Teatro alla Scala

La Scala festeggia il centenario della nascita di Franco Zeffirelli riproponendo uno dei suoi allestimenti più longevi, La bohème, un classico, andato in scena per la prima volta nel 1963 con la direzione di Herbert von Karajan. Possiamo dire, senza ombra di smentita, che si tratta di uno spettacolo esemplare per la Scala. La prima volta che lo vidi mi rimasero in mente alcuni momenti topici come la grande scena del caffè Momus del secondo atto con quella fantasmagoria di coro e comparse che affollavano la scena fino alla marcia nel finale dell’atto. Mi rimase in mente la garza bianca, un velario, che permetteva di fare l’effetto nebbia e bruma per tutto l’atto terzo mentre nevicava: un elemento semplice ma molto efficace. La morte di Mimì, che sempre mi commuove, grazie a quel parlato di Rodolfo, che rende reale il suo dolore. La regia non è esattamente quella del 1963, tanti particolari sono cambiati nel tempo, per esempio non sono più presenti gli animali nel secondo atto.  Il Museo Teatrale della Scala ha inaugurato una grande mostra che ricorda la lunga collaborazione tra il Maestro e il Teatro, con le opere degli anni ’50 (molti i bozzetti originali) i costumi dell’Aida, i quattro costumi di Fiorilla per il Turco in Italia indossati dalla Callas, Otello, Pagliacci e Cavalleria Rusticana ispirata ai costumi delle donne di Piana degli Albanesi. Nel ridotto Toscanini molte sono le foto in bianco e nero che vedono Zeffirelli all’opera mentre illustra ai cantanti le sue scelte.


Puccini fu ispirato per La Bohème da un romanzo sui generis Scènes de la vie de bohème, una serie di racconti legati fra loro sulle avventure di giovani artisti nella Parigi del 1840. L’autore fu Henri Murger e pubblicò a puntate queste avventure sulla famosa rivista “Le Corsaire” tra il 1845 e il 1848. Questi squarci di vita vissuta erano molto autobiografici e anche i lettori de Le Corsaire potevano ben conoscere i protagonisti reali. Insieme a Théodore Barrière, Murger ricavò una pièce teatrale che ebbe grande successo nella Parigi del tempo. Molto difficile per Luigi Illica (che si occupava della drammaturgia) e Giuseppe Giacosa (che rifiniva le rime, molte quelle baciate nel libretto finale)  realizzare il libretto da un materia letteraria così episodica anche se vennero un poco aiutati dalla versione teatrale che concentrava l’attenzione su pochi personaggi. Puccini con la sua personalità e intuito non li lasciò soli un momento mentre stendevano il libretto. Illica aveva pensato una pièce di 5 quadri (atti) ma come molti sanno Puccini eliminò la scena della festa nel cortile della casa di rue Labruyère, una scena che avrebbe avuto protagonista Musetta. Chi volesse sentire questo atto può ascoltarlo nella versione di Leoncavallo (atto secondo). Ruggero Leoncavallo (o Leonbestia come lo chiamava Puccini) stava lavorando in contemporanea alla sua Bohème, che venne rappresentata per seconda. All’inizio sembrò che entrambe avessero lo stesso successo ma il tempo privilegiò la versione del lucchese. Come spesso succedeva Ricordi vinse su Sonzogno.  Vi sono come minimo tre registrazioni audio della versione di Leoncavallo, di cui una diretta da Molinari Prandelli e una da Alberto Zedda che vi consiglio.
La musica di Puccini è in ogni momento superiore a quella di Leoncavallo con motivi musicali che garantiscono l’omogeneità dell’insieme. Puccini non procede sfruttando una base sinfonica, con regole interne, ma segue con attenzione il dramma cantato dando unità narrativa ad ogni momento. I motivi ricorrenti vengono impiegati per ragioni di colore musicale e per rendere compatta l’opera. La scrittura risulta leggera e fragrante e il ritmico sempre vispo con riferimento al Falstaff che era stato eseguito la prima volta pochi mesi prima della Manon Lescaut. In Falstaff tutto è burla e disinganno mentre nella Bohème la tragedia incombe e fuoriesce da scene allegre e spensierate. Il rapporto d’amore tra Rodolfo e Mimì è complesso e articolato come si evince nel terzo atto sotto la neve.

Non è stata una scelta felice scegliere come direttrice la coreana  Eun Sum Kim che si è limitata a solfeggiare e a dirigere in maniera completamente anonima senza tenere conto della morbidezza e imprevedibilità della scrittura pucciniana. Tutta la prima parte del terzo atto era completamente sbilanciata con errori proprio nella scansione ritmica. E’ la direttrice musicale della San Francisco Opera ma non ne comprendiamo il perché. L’unica differenza che trasmetteva in orchestra era o fortissimo o, raramente, piano.
Marina Rebeka, dopo la non facile interpretazione di Elena nei Vespri siciliani di qualche settimana fa, nelle prime recite era stata infatti contestata, sembra trovare nel personaggio di Mimì una maggior aderenza vocale. Le note gravi presenti nel personaggio di Elena avevano dato notevoli problemi alla Rebeka mentre la scrittura di Mimì non ha certo queste discese. Il soprano è pienamente lirico e ha modo di porsi in primo piano fin dal primo romantico atto. “Ma quando vien lo sgelo” viene cantato con il calore della primavera e la parola “Amor” viene ripetuta tre volte a fine primo atto facendo sciogliere il cuore di ogni ascoltatore. La Rebeka ha modo di emergere anche nel terzo atto, vero e proprio capolavoro. Insieme al Rodolfo di Freddie De Tommaso viene tessuto un mirabile duetto d’amore dove si promettono di lasciarsi dopo l’inverno. De Tommaso sembra più interessato all’acuto stentoreo che a costruire con morbidezza le frasi.



Il timbro è buono e piace in “Or or dal mio forziere” fino al luminoso acuto su “La speranza”. Musetta è una valida e piccante Irina Lungu che ha modo di essere protagonista nel secondo atto. Il timbro è chiaro e seducente e l’attrice è a suo agio nella regia di Zeffirelli anche negli eccessi del crampo al… piè! Nelle prossime repliche prenderà la parte di Mimì. Interessante Schaunard del giovane Alessio Arduini dalla voce calda e intonatissima, validissimo il Marcello di Luca Micheletti che ci offre un ampio e morbido timbro baritonale. Un po’ troppo cavernoso il Colline di Jongmin Park (“Vecchia zimarra” eccessivamente grave), perfetto invece il Benoît e Alcindoro di Andrea Concetti verso esperto dei ruoli comici: lo abbiamo ascoltato l’ultima volta a Bergamo nel Borgomastro di Sardaam. Il racconto del pappagallo morto nel primo atto ci fa venire in mente una opera che si apre con l’orazione funebre per la morte di un pappagallo, Vert-vert di Offenbach uno dei suoi capolavori scritti per Opéra-Comique. Nei bravi 20 minuti del secondo atto facciamo la conoscenza di Parpignol: regala la tromba e il cavallin ad un bambino. Un figlio di Toscanini morì a 5 anni e venne seppellito nella tomba realizzata dallo scultore Bistolfi al monumentale di Milano. Qui Bistolfi forse su suggerimento di Toscanini scolpì una tromba e un cavallino in ricordo dell’opera tanto amata. Nel secondo atto protagonista è sicuramente il coro della Scala che satura ogni momento di questa caleidoscopica scena. Il canto del coro è perfetto, i costumi di metà ottocento, la presenza del coro di voci bianche, la marcia finale su un secondo livello, tutto contribuisce a creare un atto insuperabile per invenzione e varietà. La Scala fa un omaggio a Zeffirelli ma una migliore direzione avrebbe giovato a tutti anche sulla resa dei cantanti penalizzati dalla coreana. Viva Zeffirelli, regista immortale.  

Fabio Tranchida

Pubblicità