Poesia Salvadore Cammarano
Musica Giuseppe Verdi

Il Conte di LunaErnesto Petti
LeonoraChiara Isotton
AzucenaAnna Maria Chiuri
ManricoAngelo Villari
FerrandoGiovanni Battista Parodi
InesIlaria Alida Quilico
RuizAndrea Galli
Un vecchio zingaroDomenico Apollonio
Un messoLorenzo Sivelli
  
DirettoreMatteo Beltrami
Regia e costumiStefano Monti
SceneAllegra Bernacchioni
LuciFiammetta Baldiserri
OmbreTeatro Gioco Vita
Maestro del CoroCorrado Casati
  
Orchestra Filarmonica Italiana
Coro del Teatro Municipale di Piacenza
  
Nuovo allestimento in coproduzione con Teatro Municipale di Piacenza, Teatro Comunale Pavarotti-Freni di Modena, Teatro Goldoni di Livorno, Teatro dell’Opera Giocosa di Savona, Teatro del Giglio di Lucca

Il trovatore è un’opera incredibile, sia nel senso letterale del termine, che in quello più propriamente artistico e musicale: si strabuzzano gli occhi leggendo il libretto, con un sorriso tra l’amaro e l’incredulo, ma poi quelli stessi occhi tremano e si velano, credendo a ciò che si squaderna loro davanti, e le orecchie vibrano, ascoltando il genio di Verdi. Questa notevole edizione del Trovatore, dunque, andata in scena al Teatro Municipale di Piacenza, ha colto esattamente nel segno di una stupefazione generale, attanagliante, unita a un calore e un successo d’altri tempi: non è stato solo il dramma, sempre uguale e sempre diverso, ad essere incredibile, ma in modo particolare la compagnia di canto, guidata da un eccellente direttore, e impreziosita da un coro e un’orchestra a livelli stellari.

Matteo Beltrami, giovane e già valentissimo direttore d’orchestra, non solo ha dato fuoco alla miccia dell’infiammata partitura, ricercando ogni grammo di travolgente e violenta passione, ma ha anche condotto i cantanti ad esprimersi al meglio delle loro possibilità, aiutandoli a mettere in evidenza i personali punti di forza, siano stati essi delle sfolgoranti puntature, che a noi piace vengano concesse, specialmente se fatte così bene -e pure ai cantanti, se assicurano loro uno strepitoso successo-, siano stati essi dei desideri interpretativi originali o d’effetto, come se ne sentono raramente. Intanto Beltrami ha avuto il gran pregio di riaprire tutti i tagli di tradizione, riproponendo i da capo, e di ripulire la partitura dalle usure degli anni, riuscendo ad alternare il già citato fuoco ai momenti di lirismo più puro, senza mai perdere quell’omogeneità di tempi e tensione ritmica che in quest’opera si rivela imprescindibile. Le arie si sono avvicendate come armonizzandosi con le successive cabalette, e i grandi concertati, furiosi ma nobili, hanno trascinato l’azione con vigore: in questa scelta esecutiva è da sottolineare il grande sostegno dato ai cantanti, sempre seguiti e accompagnati a dovere, a maggior ragione quando si sceglie di articolare la direzione su tempi netti e serrati, senza cadere nella logica del “chi è con noi, è con noi.”. Ottimo poi anche il lavoro con l’Orchestra Filarmonica Italiana, in cui si sono distinti gli archi, con una peculiare violenza quasi graffiante, e i fiati, tutti apprezzabili nei loro interventi, da quelli più crepuscolari a quelli più battaglieri. Eccezionale come sempre il Coro del teatro, sia femminile che maschile, istruito dal Maestro Corrado Casati, con un plauso speciale all’esecuzione del Miserere fuori scena, mortifero ed etereo a un tempo.

Ernesto Petti, nelle vesti del Conte di Luna, ha dato sfoggio di un materiale vocale di pregevole fattura, dal timbro omogeneo e personale, ricco di armonici e dal volume notevole. Ci troviamo di fronte a un’ottima prova, specialmente quando il cantante piega il proprio strumento alla ricerca di sfumature e suoni più raccolti, variando il fraseggio e le intenzioni. Diversamente, almeno nella sua celebre aria “Il balen del suo sorriso”, il volume ci è parso calibrato più sul forte, con qualche suono un po’ opaco, specialmente in alto, a scapito di una varietà di accenti che pure il giovane baritono ha messo in campo in altre zone dell’opera. Lo spirito del Conte è emerso comunque con vigore, facendosi decisamente apprezzare dal pubblico: un maggior controllo dei volumi e della forza vocale, magari meglio indirizzata, e il suo Conte potrà dirsi più rifinito, laddove già ci si può ritenere soddisfatti.

Eccezionale, senza esagerare, la Leonora di Chiara Isotton: il giovanissimo soprano ha tratteggiato con raffinata eleganza il profilo malinconico e sofferente di una donna, preda degli uomini e del fato, che vorrebbe vivere il proprio amore con dolcezza, ma che è messa di fronte a scelte atroci ed è costretta a lottare, financo con la morte, per farsi valere. C’è poco da aggiungere, se non che questa è la Leonora che si vorrebbe vedere e ascoltare più spesso in teatro. Il timbro è vellutato, avvolgente e corposo, debordante di armonici e preciso nel valorizzare le tipicità del personaggio, specialmente nel registro centrale e nei pianissimi, finissimi e perfetti. Notevole è anche il piglio con cui affronta le cabalette, risolte senza forzature e con la grazia del belcanto, dagli acuti sicuramente perfettibili, ma già solidi e ben proiettati; è però in “D’amor sull’ali rosee” e nel Miserere che ci avvince, muovendo alla commozione sia per la bellezza della voce e dell’emissione, che per la drammaticità del fraseggio, trasudante sofferenza e partecipazione. Successo meritatissimo e destinato a perdurare.

Anna Maria Chiuri ha fatto della sua Azucena un’epitome della sottrazione: la sua zingara è stata liberata da ogni impaccio volgare e cencioso, che la rendono spesso del tutto mancante di credibilità, sfaccettando un personaggio quasi novecentesco, fatto di psicosi, annebbiamenti e paure, folle nel suo ricordo doloroso, ma razionale nel portare a compimento la vendetta materna. Nelle sue parole, fraseggiate a regola d’arte, si è colto sempre il senso, la volontà di cantare ed accentare per trasmettere un’intenzione, ora veicolata per farci rabbrividire, ora per renderci compassionevoli. Il timbro è ormai celebre e riconoscibile, dal bel volume, certo non enorme, ma sempre sfruttato a dovere, con note gravi timbratissime e un’emissione controllata e fine, priva di volgarità o suoni gutturali. “Stride la vampa” è stato cantato quasi fosse una scena di follia, mentre il duetto successivo con Manrico ci ha condotti nella sua mente allucinata e ha destato stupore per il crescendo recitativo e vocale, fino alle note più estreme ben udibili e d’effetto. Un’inedita Azucena, insomma, davvero molto apprezzata.

Manrico è stato impersonato da Angelo Villari, autentico poeta-guerriero “à la” Guglielmo IX, primo dei “trobadores”, innamorato, fiero, passionale e impavido a un tempo: il tenore ha sbalzato un Trovatore come non se ne sentiva da tempo, forte, eroico, gagliardo negli acuti sfolgoranti, quasi sfrontato nel dare sfoggio della sua sicurezza vocale, ma non per questo meno capace di articolare la parola per risultare ora più melanconico, come nella prima cantata fuori scena e nella meravigliosa esecuzione delle frasi del Miserere, ora più passionale, come in “Ah sì, ben mio”, ricco di sfumature e carico di quell’eroismo tragico proprio degli innamorati coraggiosi. Ma è con la temutissima Pira – dove solitamente il tenore di turno, pur bravo e capace, come dire, si defila o mostra eccessiva cautela – che Villari dà fuoco alle polveri e manda il pubblico in visibilio, non solo eseguendo la cabaletta con da capo e puntature varie, ma bissando l’ultima ripetizione a furor di popolo, testimoniando quante, e di che qualità, siano le voci per rendere al meglio in questo repertorio. Non è per niente scontato ascoltare un cantante ripetere un pezzo simile, ma può succedere, e quando succede con questa tecnica e baldanza, ne siamo più che felici.

Ottima anche la prova di Giovanni Battista Parodi, autorevole e incisivo nella parte di Ferrando, dal volume considerevole e dal bel fraseggio, specialmente in quelle frasi che costellano l’opera e che fanno di lui il vero motore e depositario della narrazione. Bene anche Ilaria Alida Quilico nelle accorate vesti di Ines, come Andrea Galli, in quelle di Ruiz, preciso nei suoi interventi. Completano il cast i professionali Domenico Apollonio, un vecchio zingaro, e Lorenzo Sivelli, un messo.

La regia di Stefano Monti, caratterizzata da una sorta contenitore rosso sanguigno incandescente, è costruita su dei parallelepipedi che di volta in volta scorrono e si spostano a circoscrivere ambienti o rappresentare elementi architettonici del libretto. Il gioco di luci certo conferisce maggior profondità a un impianto scenico di per sé scarno, ma il lavoro sulla recitazione non è sempre così incisivo, ad eccezione di precisi momenti, come nella prima scena di Azucena, cantata al proscenio, tutta sguardi vitrei e folli, sussurri e gesti raccolti. In alcuni momenti, poi, si è avuta la strana sensazione di trovarsi in altre opere, come nelle prime scene della seconda parte, in cui una luce bianca, rotonda e pallida, illuminava sullo sfondo la scena tutta rossa, ricordando più la prima apparizione di Turandot che un campo di gitani. Ben risolta l’ultima parte, invece, specialmente l’estremo duetto tra Azucena e Manrico, con una suggestiva colonna a separare le due immaginarie carceri dei prigionieri. Una regia che, alla fine dei conti, non ha aggiunto molto a ciò che già si sapeva, ma che nemmeno ha tolto, cosa che, di questi tempi, non è da darsi per scontata.

Mattia Marino Merlo – Teatro Municipale di Piacenza, 5 marzo 2023