Doktor Faust | Dietrich Henschel |
Mephistopheles | Daniel Brenna |
Wagner / Der Zeremonienmeister | Wilhelm Schinghammer |
Der Herzog von Parma / Soldat | Joseph Dahdah |
Die Herzogin von Parma | Olga Bezsmertna |
Ein Leutnant | Florian Stern |
Drei Studenten aus Krakau | Martin Piskorski |
Marian Pop | |
Lukas Konieczny | |
Theologe / Gravis | Dominic Barberi |
Jurist / Levis | Marcell Bakonyi |
Naturgelehrter / Asmodus | Zachary Wilson |
Studenten aus Wittenberg | Martin Piskorski |
Franz Gürtelschmied | |
Marian Pop | |
Florian Stern | |
Ewandro Stenzowski | |
Beelzebuth | Franz Gürtelschmied |
Megäros | Ewandro Stenzowski |
Frauen Stimmen | Mariia Kokareva |
Olha Smokolina | |
Aleksandra Meteleva | |
Direttore | Cornelius Meister |
Regia | Davide Livermore |
Scene | Giò Forma |
Costumi | Mariana Fracasso |
Luci | Fiammetta Baldiserri |
Video | D-Wok |
Maestro del Coro | Lorenzo Fratini |
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino | |
Nuova produzione del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino |
Doktor Faust di Ferruccio Busoni pare proprio confermare un assunto che ho incontrato più volte nel corso della mia vita, ripetuto su carta e a voce da più di un letterato, filosofo o professore universitario: poche cose hanno segnato così profondamente la storia culturale europea come il mito di Faust, in tutte le sue variegate forme di rapporto tra uomo e male, tra sete di conoscenza e mezzi per varcare i suoi limiti. E soprattutto poche altre cose hanno impegnato la vita artistica degli uomini come questo mistero allucinante, sia stato esso esposto ed affrontato sotto i nomi di “Faust” e “Mefistofele” od altri. Partendo da queste considerazioni, ma lungi dal chiarire tutto, si spiega molto meglio il burrascoso arrovellarsi di Busoni su un materiale incandescente, quasi quanto le fiamme infernali, per trarne un’opera che riuscisse a parlare di lui come uomo, fatto di dubbi, idee, complessi, difficoltà di vita e storia -emblematica la sua biografia-, e allo stesso tempo risultare paradigmatica per chiunque la sentisse e vedesse. Busoni, dunque, cercando di consegnare ai posteri l’opera-monumento della sua vita, ha finito per identificarsi col suo personaggio, e sebbene abbia insistito nel prediligere più la natura lirica e poetica che quella filosofica del mito, discostandosi da Goethe, non ha potuto fare a meno di porsi domande e cercare risposte, giungendo, complice anche la malattia, a non concludere la partitura. Beffarda ironia delle umane sorti o estrinsecazione ultima del senso della vita e dell’affannosa ricerca di Busoni su se stesso e sull’uomo?

La domanda è disarmante e Davide Livermore, senza dar risposta assoluta, ha colto violentemente nel segno, accompagnandoci in un viaggio onirico e biografico, in cui i protagonisti della narrazione sono stati immaginati come proiezioni e frammentazioni di Ferruccio Busoni stesso e del suo vissuto, umano e musicale insieme: quasi tutti i personaggi in scena, infatti, erano provvisti di una maschera che ritraeva il volto del compositore. Avendo evidenziato con genialità il lato autobiografico dell’opera, il regista ha poi messo la propria arte al servizio della narrazione, senza perdersi in inutili filosofeggiamenti, ma regalandoci una serie di immagini impattanti e sublimi, da biblioteche infinite alla Calvino o alla Borges, passando per fiamme, cliniche ospedaliere freudiane e cieli stellati, fino ad atmosfere allucinatorie che incollavano alla poltrona, facendoci sprofondare o librare in aria, proprio come i protagonisti in scena. Dopo aver vibrato alla vista di Faust, in fuga tra le stelle con la duchessa di Parma, a bordo di un pianoforte, mi resta una sola considerazione su questo allestimento, ovvero che si tratta del capolavoro di Davide Livermore tra tutti quelli che ho visto in teatro e in video sino ad ora. L’ho detto.

Il giovane Cornelius Meister ha diretto quest’imponente flusso musicale, provvisto di alcune pagine sinfoniche che paiono vivere di vita propria, in maniera tale da esaltare la vista e da trarre dalla vista l’esaltazione perfetta per la musica: il gesto, sicurissimo e saldo nel mettere in evidenza anche nella partitura la medesima frammentarietà della narrazione, è riuscito a coglierne i risvolti più stranianti e visionari per restituirceli privi di qualsiasi retorica, mantenendo sempre vivo il passo teatrale senza che questo collassasse su se stesso -in un’opera in cui è altissimo il rischio di perdere il filo-. Nella sua direzione, insomma, si sono sentite entrambe le anime, italiana e tedesca, che vivono sotto quelle note, assolutamente non facili da sintetizzare e restituire. Complice di questa prova superba sono state l’Orchestra del Maggio Musicale, spaziale quanto le visioni siderali di Faust, e il suo Coro -istruito dal maestro Lorenzo Fratini- di bellezza e grandiosità annebbianti.

La compagnia di canto, lunghissima e corposa, è stata del tutto all’altezza del livello raggiunto da regia e direzione, pur con le dovute precisazioni: i due protagonisti sono stati annunciati indisposti per viva voce del sovrintendente Pereira, ma la cosa non sembra averli spaventati più di tanto. Dietrich Henschel, veterano nel ruolo del Doktor Faust, ha sicuramente pagato lo scotto del raffreddore, specialmente negli acuti, tra il sofferto e l’accennato, ma non si è risparmiato in niente, all’interno di una parte estenuante, lunga, intensa e difficile come poche. Il baritono, infatti, ha cantato e recitato per tre ore, dominando il dramma e la partitura da vero fuoriclasse, nonché supplendo alla stanchezza vocale in maniera più che credibile, quasi “incredibile” addirittura. Come lui Daniel Brenna il quale, nonostante l’indisposizione, ha messo tutti gli acuti, più o meno belli, al posto giusto, fin dalla scena dell’apparizione e del contratto, con dei passaggi di note scabrosi, isterici ai limiti dell’umano. Il tenore, infatti, ha retto con professionalità il lungo spettacolo, senza segni di cedimento evidenti, forte di una recitazione studiata e di un fraseggio ricercato, specialmente per un ruolo che pare spesso sopra le righe e fuori di sé (non a caso è una creatura infernale). Eccellente oltre ogni dire la Duchessa di Parma di Olga Bezsmertna, dal bel timbro sopranile vellutato e ricco di afflati sensuali ad alto tasso erotico, esplosi nella scena in cui Faust la seduce, da lei recitata con trasporto palpabile. Ottimo anche Joseph Dahdah, oramai soddisfazione costante, qui impegnato nel doppio ruolo del soldato e del Duca di Parma. Il giovane tenore, almeno per chi scrive, non è più una promessa da tenere d’occhio, ma una certezza ogni qual volta sia in cartellone e presente sul palco del Maggio -e non solo-. Entrambi le parti sono eseguite con i giusti accenti e voce sempre a fuoco, sorretta da un timbro personale e gradevole, insieme a una recitazione viva e ragionata. Significativo e di bella musicalità Wilhelm Schingammer, nei ruoli di Wagner e del maestro di cerimonie. Il resto della folta locandina merita comunque un plauso per aver contribuito a rendere unico uno spettacolo che trae imprescindibile forza anche, e soprattutto, dalle infinite parti che lo costellano.

Piccola postilla: questi, come altri che già ci sono stati, sono gli spettacoli che vogliamo vedere a Firenze, e di cui Firenze ha bisogno, all’interno di una programmazione comunque di spessore e motivo di curiosità. Non dimentichiamocelo. Non dimenticatevelo.
Mattia Marino Merlo – Sala Grande del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, 21 febbraio 2023