Herodes | Wolfgang Ablinger-Sperrhacke |
Herodias | Linda Watson |
Salome | Vida Miknevičiūtė |
Jochanaan | Tomasz Konieczny |
Narraboth | Sebastian Kohlhepp |
Ein Page der Herodias | Lioba Braun |
Fünf Juden | Matthäus Schmidlechner, Matthias Stier, Patrick Vogel, Patrik Reiter, Horst Lamnek |
Zwei Nazarener | Jiří Rajniš, Sung-Hwan Damien Park* |
Zwei Soldaten | Alexander Milev, Bastian Thomas Kohl |
Ein Kappadozier | Matías Moncada* |
Ein Sklave | Hyun-Seo Davide Park* |
* Solista Accademia Teatro alla Scala
Direttore | Axel Kober |
Regia | Damiano Michieletto |
Scene | Paolo Fantin |
Costumi | Carla Teti |
Luci | Alessandro Carletti |
Coreografia | Thomas Wilhelm |
ripresa da | Erika Rombaldoni |
Produzione Teatro alla Scala
Orchestra del Teatro alla Scala
La Salome andata in scena alla Scala nell’ultimo mese non poteva non essere quella che è stata, non poteva esserci nulla di diverso da quello che si è visto e sentito, e se qualcuno avesse tentato di spostare un solo elemento, il perfetto equilibrio sarebbe rovinosamente crollato. La lucida follia che questo memorabile allestimento, in ogni sua parte, è stato capace di instillare meritava degli avvisi all’entrata del foyer: “Lo spettacolo può causare eccessi di pazzia e sconvolgimento”. Mi sarei aspettato delle reti di protezione, su per i palchi fino al loggione, o dei medici in sala per soccorrere eventuali svenienti. Tutto ciò per dire che è davvero difficile restituire a parole l’altissima densità dell’atmosfera in sala, quasi come se ciò che avveniva in scena si espandesse fino a raggiungere ogni angolo del teatro, saturandolo di ogni sentimento possibile. Perché la regia di Damiano Michieletto è passata attraverso tutti gli stati dell’animo, senza escluderne nessuno, e come un tessuto cangiante ha reso camaleontici sia i cantanti che noi comuni spettatori, sempre pronti a guardarci intorno, a guardarci addosso e scrutarci dentro. Svevo diceva che, a suo modo di vedere, tutto ciò che Freud aveva scritto era molto più utile agli scrittori di romanzi che agli psicanalisti stessi, e forse aveva ragione: ma di sicuro questa Salome scaligera, in certi sensi psicanalizzata fin nelle viscere, ha avuto il grande merito di scrutare gli abissi dell’uomo in una costruzione che pareva quella da sempre, che non poteva essere altrimenti, dati gli sviluppi terribili della vicenda, come se Michieletto avesse fatto riemergere delle rocce aguzze da un lago, in cui le barche sempre affondavano senza sapere perché. Eppure quelle rocce erano sempre state lì, solo che non le vedevamo. Il finale, poi, che ha visto Salome gettarsi nella cisterna del Battista – con un rimando, forse, a una delle varianti sulla morte della principessa, caduta in fiume ghiacciato e decapitata dai lastroni che si richiusero su di lei -, ci porta a una dimensione tutta umana della vicenda, atroce storia di una donna violentata, e violenta suo malgrado, vittima della malvagità maschile e della santità ammaliante, anch’essa tutta maschile, emanata dal Battista.

Vida Miknevičiūté è Salome, in tutto: nella sua vocalità peculiare, a tratti aspra, ma non senza eleganza e “volontà”, volontà di cantare esattamente in quel modo, ricercando sonorità e accenti quasi spettrali, da donna in preda a una follia costante, che sta vivendo gli ultimi istanti di un’esistenza ormai rovinata. Si perdona quindi un leggero vibrato che a volte si palesa con insistenza, perché rientra in una lettura coerente del personaggio, schizofrenico e nevrotico. La parte è difficile, si sa, ma il soprano lituano risolve ogni insidia con abilità e, soprattutto, presenza scenica totalizzante, perfino negli sguardi e nei movimenti delle mani. La danza dei sette veli, in verità una sorta di non-danza ma rappresentazione delle violenze subite dalla donna, è un compendio di arte recitativa, che si prolunga nelle ossessive richieste della testa del Battista, davvero terribili, sino alla grande scena finale, acume di una follia che nemmeno noi ascoltatori riuscivamo più a sostenere. Il teatro è crollato tributandole un successo clamoroso.
Altro successo della serata, seppur in volume ridotto, è stato quello di Linda Watson, Herodias: nonostante qualche caricatura registica di troppo, il soprano americano non ha mai abbandonato quella corrotta nobiltà matronale propria del ruolo, a tratti volgare e lasciva, sì, ma sempre coerente con l’ambiguo personaggio. La voce ampia, svettante anche nelle parti orchestrali più impegnative, corposa e insinuante, ha catalizzato l’attenzione quando era lei a dominare la scena, fagocitandosi gli interpreti maschili.
Come è facile prevedere, le parti maschili se la sono dovuta vedere con delle interpreti femminili oltre la loro comprensione, e hanno lottato, chi più chi meno, per guadagnarsi il loro spazio in scena: Tomasz Konieczny ha affrontato molto bene il ruolo spirituale e profondo di Jochanaan, con un timbro pregevole, giustamente scuro e vellutato, ben emesso in alto e significativo nel registro centrale, con certe frasi da manuale. Complice l’idea registica che lo vedeva avvolto da un cerchio di fiamme, la sua maledizione a Salome è stato uno dei momenti più appaganti e vibranti della serata.
Wolfgang Ablinger-Sperrhacke non ha colpito particolarmente nel segno, descrivendo un Herodes più completo sotto il profilo attoriale che vocale, non sempre a fuoco e in più di un momento sopraffatto dalla possente orchestrazione. Molto meglio il Narraboth di Sebastian Kohlhepp, dal timbro pregevole di metallo vibrante e lucente, nonostante una voce non così ampia, ma comunque squillante, e Lioba Braun, un paggio di Herodias, di ottima professionalità e corretta interpretazione. Il resto del cast si è disimpegnato bene, con una menzione speciale per gli interpreti dei cinque giudei, protagonisti di una scena volutamente ironica e grottesca, anche nel testo di Wilde, che si trasforma ben presto in una sorta di incubo: molto abili, dunque, nell’alternare sentimenti e atteggiamenti, perfettamente in linea con l’idea registica che li vedeva pungolati e perseguitati da tante piume nere piovute giù dal cielo.

Axel Kober, infine, è colui che imprime alla narrazione musicale quella sensualità malsana, quasi decadente, propria della vicenda, tutta giocata sui timbri, ora luminosi, ora scuri e cupi, ora ossessivi e malati, accompagnati da delle scelte ritmiche disturbanti. La danza dei setti veli è paradigmatica in tal senso: ogni accento orientaleggiante è messo in secondo piano per descrivere invece una tensione erotica violenta, quasi oscena, con il trillo finale dei clarinetti sostenuto più del normale, a sottolineare la sofferenza di Salome e il suo disperato bisogno d’amore. Mirabile la gestione della scena dei giudei, come è affascinante la solennità dei temi legati al Battista, macchiati da un senso di incombente distruzione, sia nei ritmi che negli accenti. Significativa, infine, l’articolazione del finale, un vero caleidoscopio di storture mentali, violenze, abbandoni e sofferenze, che si conclude con le ultime note, calate come colpi d’ascia, a terminare finalmente la vita di Salome.
Mattia Merlo (Teatro alla Scala – 31 gennaio 2023)