Dramma lirico in quattro parti
Libretto di Francesco Maria Piave
Musica di Giuseppe Verdi
Ernani Francesco Meli
Don Carlo Roberto Frontali
Don Ruy Gomez de Silva Vitalij Kowaljow
Elvira María José Siri
Giovanna Xenia Tziouvaras
Don Riccardo Joseph Dahdah
Jago Davide Piva
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore James Conlon
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia Leo Muscato
Scene Federica Parolini
Costumi Silvia Aymonino
Luci Alessandro Verazzi
Tre uomini, fermi nel loro senso dell’onore e tetragoni alla violenza della sorte – almeno finché questa non li uccide, o glorifica, o vendica inesorabilmente – e una donna tra essi contesa, estremamente coraggiosa e più padrona di se stessa di quanto non lo siano i maschi che la desiderano, sono i protagonisti di questa peculiare opera di Verdi, punto di svolta nella produzione del compositore, ricca di motivi d’interesse e di fascino, nonostante una certa staticità intrinseca alla vicenda e alle azioni dei protagonisti. Fondamentale, dunque, la scelta di una direzione capace di trovare varietà nei tempi e nei colori, così da non ripetersi sempre uguale a se stessa, di un cast equilibrato e performante, di una regia, infine, preparata a scavare nel pregiato marmo della vicenda per trarne una scultura viva e affascinante. A Firenze, ancora una volta nella Sala Mehta del Maggio Musicale, circa due dei tre punti appena elencati sono stati all’altezza, se non oltre, delle aspettative.
In primis la direzione di James Conlon, alla guida di un’Orchestra del Maggio in grande spolvero, sempre precisa e puntuale, abile nel seguire e nell’accogliere le intelligentissime e più che mai teatrali scelte del direttore. Conlon, infatti, convince innanzitutto per il sostegno puntiglioso e maniacale, nel più alto senso del termine, verso i cantanti, tale da condurlo a calibrare i volumi orchestrali per non coprire mai le voci: gli interpreti, anche quelli meno centrati, si sforzano di cesellare ogni parola, e sono guidati dalla sua bacchetta non solo attraverso la partitura, ma anche attraverso il libretto, seguendo le idee del maestro nelle veci di “vero” regista. Convince poi la scelta dei tempi, mai fine a se stessa, ricca di varietà e di quei guizzi da vero interprete verdiano, come nei concertati a conclusione di ogni atto, tali da far sobbalzare sulla sedia non per inutili turgori o tempi esagerati, ma per agogiche molto varie e appassionanti, mai prive di raffinatezza. Una direzione dunque, se si pensa che per Conlon si trattava di un debutto, eccellente, da accogliere con piacere. Eccezionale anche l’importante apporto del coro del Maggio Musicale, istruito dal maestro Lorenzo Fratini, anche lui meritevole di altrettante lodi.
Su tutti i protagonisti vocali ha dominato la prova maiuscola di Francesco Meli, davvero in forma smagliante. Il tenore genovese, che frequenta il ruolo del nobile bandito da molto tempo, pare conoscerne ogni tratto, ogni insidia, ogni punto di forza, in modo da volgere a suo favore qualsiasi nota, anche quella che potrebbe metterlo in difficoltà. Il pregevole e personale timbro tenorile, ammaliante, unito a un fraseggio originale e a una pronuncia dell’italiano ineccepibile, fanno di lui l’interprete ideale del personaggio, che convince e appassiona anche quando la partitura lo pone davanti a degli evidenti ostacoli vocali, risolti con intelligenza e senza vistose forzature o disomogeneità di registro. Il primo atto, temibile cabaletta compresa, e il finale ultimo sono da incorniciare, così come i versi dei recitativi, pòrti con estrema eleganza. Una prova, insomma, tutta di altissimo livello.
Maria José Siri, al debutto nel ruolo di Elvira, risolve con professionalità la difficile parte dell’amata contesa. Fin dalla scena d’ingresso il soprano si distingue per potenza vocale non comune, tale da farle oltrepassare la parete orchestrale anche nei concertati più corposi, e riesce a uscire indenne perfino dalla micidiale cabaletta, nonostante le agilità siano ancora da mettere a fuoco. A volte manca maggior timbro nel registro centrale, come nelle note più gravi, povere di armonici, ma non tali da inficiare un’interpretazione più che buona, sostenuta da una sentita partecipazione. Trattandosi di un debutto, è ragionevole credere che la resa vocale e attoriale risulterà via via migliore, e non possiamo neppure negare un’evidente congenialità per il ruolo, ma i personaggi in cui ci ha dato più soddisfazioni, almeno per ora, sono altri.
Tra le altre voci maschili ha dato prova di ottima professionalità anche Roberto Frontali, nelle vesti di Don Carlo, senza però convincere pienamente e mostrando qualche segno di difficoltà nella gestione dei fiati e nella tenuta di alcune note, specialmente nella cabaletta “Vieni meco, sol di rose” e in “Oh de’ verd’anni miei”. In quest’ultimo caso, però, l’abilità maturata negli anni e la freschezza timbrica invidiabile gli hanno permesso di risultare convincente e gradevole nella resa dell’accorato soliloquio. Bene, del resto, anche la caratterizzazione del re rancoroso ma magnanimo, molto più credibile come sovrano altero che come innamorato, sia per una certa forza nel porgere le frasi che per un innato carisma timbrico e vocale da villain.
Del tutto deludente Vitalij Kowaljow nei panni di Silva: la voce è potente, forse meno scura di quel che ci si aspetterebbe, ma comunque dall’ottimo impasto timbrico, avvolgente. Il vero problema è l’articolazione dell’italiano, troppo pasticciato, specialmente nelle frasi più complesse, anche se, va detto, riesce a rendere incomprensibile perfino la pronuncia di un comunissimo “quando”. Le vocali, poi, troppo spesso non corrispondono ai loro suoni reali, e ciò inficia la linea di canto, che se fosse ripulita da questi vistosi difetti potrebbe risultare anche gradevole e adatta al ruolo. Dispiace molto per il personaggio, che se all’inizio dell’opera potrebbe sembrare un comprimario, nota dopo nota acquista uno spessore drammaturgico notevole, andato perduto a Firenze, specialmente nel finale ultimo.
Ottime, senza riserve, le prove di Xenia Tziouvaras, Giovanna, Joseph Dahdah, Don Riccardo, e Davide Piva, Jago, abilissimi nel delineare questi ruoli secondari e nell’innalzare il livello complessivo dello spettacolo.
La regia di Leo Muscato, molto più simile a una forma di concerto in costume che a un vero e proprio allestimento, trasporta le vicende dalla Spagna cinquecentesca alla carboneria della prima metà dell’ottocento, spruzzata di richiami risorgimentali, riuscendo incredibilmente a rendere anonima, nonché priva di grandi idee, quella scelta registica che da qualcuno è ancora definita avanguardia pura. Non si pretendono centimetri di polvere da cartolina d’epoca, neppure scenografie imponenti ultramoderne, assolutamente irrealizzabili sul palcoscenico della Sala Mehta, ma certamente qualcosa di più degli spazi scenici anonimi e cupi di Federica Parolini, in continuo movimento, a descrivere spazi dalle forme triangolari, arricchiti solo dalle luci di Alessandro Verazzi, per altro interessanti, e da qualche arredo scenico sgradevole e kitsch. Pure i costumi di Silvia Aymonino non dicono niente, finendo per non aggiungere nulla alla narrazione. Povero anche il lavoro sugli interpreti e sul coro, destinati fin dall’inizio a ripetere gli stessi movimenti o a uscire di scena tutti insieme, come nel finale del primo atto, senza ragioni drammaturgiche, quasi fossero una folla in processione. Non so se le sgradevoli regie che da un po’ di tempo a questa parte si sono viste a Firenze, con alcune significative eccezioni, siano dovute più a mancanza di fondi e a problemi spaziali propri della Sala Mehta, che a registi in crisi creativa; resta però che auspichiamo un miglioramento complessivo col ritorno nella Sala Grande per l’atteso Don Carlo verdiano (ancora assurdamente privato di una locandina completa)
Mattia Marino Merlo – Maggio Musicale Fiorentino, 15 novembre 2022