Melo-dramma giocoso in due atti a sette voci

Personaggi

GiraudFerretti
Il marchese Giulio AntiquatiIl marchese Giulio Antiquati
Il marchese Enrico, suo figlioIl marchese Enrico suo Figlio
Gilda Onorati, sposa di EnricoMadama Gilda Tallemanni Sposa di Enrico
Bernardino, fanciullo in fasce, loro figlio 
Il marchese Pippetto, altro figlio del marchese GiulioIl marchese Pippetto altro Figlio del Marchese Giulio
D. Gregorio Cordebono, Ajo in casa del marchese GiulioSignor Gregorio Cordebono, Ajo in Casa del Marchese Giulio
Leonarda, cameriera attempataLeonarda Cameriera attempata
Simone, servo del marcheseSimone Servo del Marchese
 Bernardino Fanciullo in Fasce Figlio del Marchese Enrico, e di Madama Gilda
 Cori di quattro Servi, due Camerieri, due Lacchè del Marchese
La Scena si rappresenta in Roma, in casa del marchese AntiquatiLa scena in Roma in Casa del Marchese Antiquati

            L’ajo nell’imbarazzo è un’opera buffa che un giovane Gaetano Donizetti scrisse in pochissimi giorni su un testo steso altrettanto velocemente da J. Ferretti: è una delle primissime opere del maestro Donizetti, un melodramma giocoso tramite cui si appresta al genere buffo. I primi tentativi furono Il falegname di Livonia, ossia Pietro il grande (Venezia, 1819) e Le nozze in villa (Mantova, 1819) ma fu necessario scendere a studiare al Conservatorio di Napoli per accedere agli spartiti di Rossini, il grandissimo innovatore del genere buffo: Donizetti arriva a Napoli nel 1822 e già riecheggiano le lodi dell’Italiana in Algeri (1813), della Cenerentola (1817) e, naturalmente, de Il barbiere di Siviglia (1816).

Donizetti si presenta a Napoli con La zingara, opera che lo rese estremamente popolare per la vivacità dei brani nonostante il semplice libretto del Tottola. Colui che rimase per qualche anno noto come “l’autore della Zingara” riuscì ad accedere agli spartiti rossiniani malgrado le precauzioni del bibliotecario, il signor Sigismondi, che tentava di tenerli lontani dalla vista degli studenti. Di fronte alle pagine dell’ouverture dell’Otello avrebbe esclamato: “3° e 4° corno! Ma quanti te ne occorrono, maestro del diavolo! Siamo forse in mezzo ai boschi a cacciare le dame e i cervi?” e del Barbiere diceva che era “una inezia, della quale si è fatta giustizia a Roma”. A questo, riporta il biografo F. Cicconetti, il giovane compositore avrebbe risposto ironicamente: “Calunnia, amico mio, pura calunnia: noi abbiamo tanti Basili nel mondo musicale”.

Nonostante queste iniziali difficoltà, Donizetti si mise a sperimentare meglio il genere buffo: a Napoli nascono, dopo La zingara, la farsa La lettera anonima e la semiseria Chiara e Serafina nel 1822, la seria Alfredo il Grande e il dramma giocoso Il fortunato inganno nel 1823, a cui seguirà la divertente l’Emilia di Liverpool (1824).

Proprio nel 1824, Donizetti è chiamato per comporre un’opera per Roma e il maestro coglie l’occasione per mettere a frutto i suoi approfondimenti rossiniani e si cimenta col primo libretto buffo di Jacopo Ferretti: del poeta romano aveva già musicato la Zoraida di Granata (Roma, 1822) ma quello era il momento per cimentarsi con il libretto dell’autore che aveva dato a Rossini e proprio a Roma La Cenerentola.

Per garantirsi l’interesse da parte del pubblico, Donizetti sceglie L’ajo nell’imbarazzo, melodramma che Ferretti ricava dall’omonima commedia di Giovanni Giraud, un nobile romano di origini francesi, che ebbe felicissimo esito proprio al Teatro Valle. La commedia in prosa di Giraud andò in scena per la prima volta nel 1807 e Ferretti non fu il primo a trasporre in versi per il melodramma L’ajo nell’imbarazzo: sebbene si legga di svariate trasposizioni, in questa sede riusciremo a utilizzare solamente l’unica reperita, quella di Giuseppe Gasbarri.

            La trama

In quasi tutte le commedie di Giraud l’ambiente scenico è quello aristocratico e clericale e in qualche modo emergono sempre ingiustizie e ipocrisie che l’autore tratta con una satira più o meno severa.

L’Ajo fu la rappresentazione teatrale più apprezzata ed esportata fino a spopolare a Parigi e probabilmente tanto successo è dovuto al fatto che Giraud pone letteralmente qualcosa di se stesso all’interno della commedia. Estremamente autobiografica, è posta alla berlina la rigida educazione che i nobili imponevano ai figli che poteva sconfinare nella clausura al fine di evitare che i giovani sperperassero i beni di famiglia nei divertimenti delle grandi città.

Giovanni Giraud nasce a Roma nel 1776 e riceve un’educazione similissima a quella che spetta in sorte all’Enrico e al Pippetto della commedia in oggetto: stretto fra “il rigore ed il bigottismo del padre, la pedanteria e l’ignoranza d’un precettore” (Agli studiosi della letteratura italiana, Prof. F. Salpi), cresce senza alcun rapporto né col mondo teatrale né tantomeno con quello femminile. “Giunto all’età di quattordici anni” – continua Salpi – “… la prima rappresentazione alla quale gli fosse dato di assistere, fu una farsa cantata ed eseguita, Dio sa come, in un palco disposto al meglio che si poteva in un refettorio di frati… Finalmente il più grande spettacolo ch’egli ammirasse fu Il mondo della luna, commedia nella quale non intervenivano donne né vere, né finte”.      La libertà, per Giraud, perviene solo attraverso la morte del padre che avviene quando Giraud ha sedici anni: il primo successo si ha nel 1805 con L’onestà non si vince, rappresentata prima a Roma e poi in altre città italiane (Bologna, Ferrara…) e sempre accolta positivamente. “Fedele alla scuola del Moliere e del Goldoni” – commenta Salpi – “il Giraud non à riguardato la commedia se non come un mezzo di rallegrare e di far ridere.”

            L’opera ha una costruzione perfettamente neoclassica e omaggia l’architettura dell’opera latina: in linea con le unità aristoteliche la commedia si chiude nell’arco della giornata, tratta di un unico argomento e si svolge in un unico ambiente. L’unità di luogo è rispettata alla latina, nel senso che i primi due atti si svolgono in un ambiente “pubblico” (qui un salone della casa del marchese Giulio sul quale si aprono varie porte) mentre l’opera si chiude in un ambiente più chiuso, intimo e privato (qui le stanze di don Gregorio). Anche i nomi assegnati sono parlanti all’antica – quindi immediatamente riconoscibili: Antiquati per don Giulio, Cordebono (ovvero di buon cuore) per l’aio don Gregorio e Onorati per Gilda, in modo che nessuno dubitasse mai dell’onestà del suo personaggio – né della cecità del primo.

            Don Gregorio è un amico del marchese Giulio Antiquati e in cambio di vitto e alloggio si è offerto di occuparsi dell’educazione dei marchesini, Enrico e Pippetto. Il marchese, tuttavia, è uno di quei padri che intende escludere i figli dalla vita mondana (l’azione non si sposta mai nell’esterno della casa di don Giulio e l’unico rimando a un ambiente al di fuori di quello è un’altra casa, quella di Gilda). Don Giulio non nasconde la propria misoginia e pare farne anzi un vanto: grazie al suo rigore può preservare il più a lungo possibile il candore dei marchesini – e il proprio patrimonio dal loro mondano scialacquare.

La commedia ci apre alla casa degli Antiquati in un momento particolare: il primogenito Enrico è segretamente sposato e ha un figlio con la giovane dirimpettaia, Gilda, e vive nella malinconia; il giovane Pippetto viene frattanto raggirato dalla vecchia cameriera, Leonarda, che si vuole vendicare di don Gregorio che non la reputa una minaccia e che, pertanto, la sminuisce nella sua femminilità.

I Camera con varie porte
 1M, LM attende Gr e sollecita L, che
 2M, GrGr discute con M sulla rigida educazione che questi riserba ai figli
 3Gr, PGr dissuade P dal frequentare L; P capisce che il sospetto di L è fondato
 4E, PE lamenta il proprio destino
 5E, GrE ottiene l’aiuto di Gr
 6Gr, SGr prova a liberarsi dei servi per rimanere solo con E
 7E, GilE fa entrare Gil
 8E, M, GrE eGil si confidano con Gr, che si piega al pianto dei giovani
 9E, Gil, Gr, MGil viene nascosta nelle camere di E; Gr evita il rimprovero di M (scena della chiave)
II   
 1Gr, EE riporta i timori di Gil a Gr
 2Gr, MGr e M discutono della gioventù ma M nega che sia moglie a E
 3Gr, LGr, impegnato, rifiuta di discutere con L
 4L, PP giura a L di vendicarsi di Gr
 5L, P, GrL e P si ritirano, Gr entra da E                     
 6Gr, EGr ed E cercano di far uscire Gil dalla casa di M
 7Gil, GrGr rincuora Gil
 8P, LP e L intendono raccontare a M che Gr nasconde una ragazza
 9P, MP racconta tutto a M
 10M, GrM inventa una scusa per entrare nelle stanze di Gr
 11Gr, PP si assicura per L che Gr sia turbato
 12Gr, LL si burla di Gr
III Camera nell’appartamento di D. Gregorio
 1Gr, E, GilGil manda Gr a prendere Bernardino
 2E, Gil, MM scopre Gil, convinto che sia la ragazza di Gr
 3Gr, Gil, MGr torna da Gil, che si nasconde, col bambino e M lo scopre
 4Gr, Gil, MM scopre che Gil è la sposa di E
 5Gr, E, Gil, MM perdona E eGil
 6Gr, E, Gil, M, L, PP chiede la mano di L ma questa lo rifiuta
   Tab. 1 Elenco delle scene nella commedia di Giraud

            I atto

La scena si apre col marchese Giulio che intima alla cameriera Leonarda di cercare don Gregorio: si intuisce subito dell’astio di Leonarda (“D. Gregorio l’ha presa con me; è molto tempo che me ne sono avveduta…”), come evidente (e fonte di seguenti scene comiche) è il buon rapporto che lega il marchese e l’istitutore (Gr. “Perdonatemi, marchese, se non son venuto subito…”;M. “Che dite voi! Anzi scusate se vi ho incomodato…”). Don Giulio interroga don Gregorio circa la malinconia che affligge Enrico ma non ode ragioni quando quest’ultimo lo invita ad allentare la claustrofobica morsa educativa (“E poi voi conoscete il mio modo di pensare… Io sono stato allevato così, e così voglio che crescano i miei figli”). Don Giulio, occupato da impegni che si fanno intendere più importanti dell’educazione della prole (“Io esco di casa per fare una visita al ministro”), si allontana e lascia i figli alle cure dell’aio; questi si preoccupa subito di chiamare Pippetto, che esce dalle camere di Leonarda e che per questo viene rimproverato (P. “M’insegnava a far la maglia, ed a lavorar coll’ago”… ; Gr. “col parlar con Leonarda e co’ servitori, voi avete appreso alcune parole e frasi che sono troppo triviali” – si vogli scorgere una sottile allusione nella risposta di Pippetto). Il giovane ragazzo, evidentemente istruito dalla cameriera, si convince che don Gregorio abbia preso Leonarda in antipatia (“Vedo che Leonarda ha ragione di dire che D. Gregorio è divenuto suo nemico”). [Scene 1 – 3]

Pippetto sorte di scena imbattendosi in uno sventurato Enrico: il giovane tenta invano di proporre al fratello di uscire mentre questi preferisce abbandonarsi alla disperazione (“Son disperato, non v’è scampo per me.”). Una svolta, a questo punto, si ha con l’incontro tra Enrico e don Gregorio, dal quale ottiene aiuto e complicità (“Non sono in questo momento il tuo ajo, sono il tuo caro amico. Io ti giuro di tenere il segreto e ti prometto ogni ajuto, come il padre più amoroso che ti stringa al tuo seno”): Enrico rivela che la ragione del suo male è causato da una donna (“Una donna mi riduce nello stato che mi vedete…”) e don Gregorio, volendo dare in escandescenze, si sfoga sul servo Simone e tenta di sgombrare la casa dagli occhi indiscreti dei servi. Gilda, avvertita da Enrico attraverso la finestra che don Giulio si è allontanato dalla casa, si intrufola nella casa: “animata da un ardire insolito”, Gilda si presenta al pubblico e quindi a don Gregorio come una ragazza vivace, piena di carattere; onesta, sinceramente innamorata ma non stupida.

L’incontro fra gli amanti e don Gregorio scatena una scena vivacissima in cui l’istitutore che alla notizia perde subito le staffe (“Andate via; faccia vostro padre ciò che crede… Egli vi ucciderà: io v’abbandono”) viene immediatamente rabbonito dall’astuta Gilda, che “quando si trova perduta pone nel discorso qualche squarcio dei romanzi che ha letto”: con un monologo strappalacrime (“I nostri cuori sono legati fra loro dal nodo sacro, da quello dell’amore… Saziatevi nel pianto mio, nel mio sangue… vendicatevi tutti sopra la disgraziata Gilda, ma si perdoni Enrico…”) don Gregorio è presto vinto (“Il mio cuore si spezza”). [Scene 4 – 8]

            L’arrivo inaspettato del Marchese interrompe ogni proseguimento del discorso: l’aio rimane “incerto fra sé” mentre don Giulio irrompe. Gilda viene rapidamente nascosta nelle stanze di Enrico e anche qui si ha una scena che dell’ilare: il Marchese si allarma nel vedere Gregorio serrare frettolosamente la stanza di Enrico ma dal momento che chiede spiegazioni, don Gregorio riesce a ribaltare l’inferiorità della posizione in cui si è trovato a proprio favore. Fingendosi punto nell’onore, è don Gregorio che invita il Marchese a controllarlo nel suo operato e questi, per non offendere l’amico, si fida della menzogna raccontatagli (Gr. “Vi dirò… mi è stata regalata… una… cagnolina, ed acciò non imbrattasse l’appartamento l’ho chiusa là dentro”; M. “Orsù, questa è casa mia, l’esigo; D. Gregorio, datemi la chiave”… Gr. “Signor marchese, così si parla a me? Ecco la chiave; apra, veda, e poi arrossisca del torto che mi fa”). Il Marchese se ne va, confuso, e don Gregorio si raccomanda con Enrico affinché tenga Gilda ben nascosta.

            II atto

            Don Gregorio riceve un’altra sassata da Enrico: dal suo amore con Gilda è nato un Bernardino. Questa ulteriore complicazione manda in cortocircuito l’intellettuale che, sebbene si professi abituato a risolvere problemi, si ritrova soffocato dagli eventi. L’istitutore avanza timidamente l’ipotesi di allentare la guardia con Enrico ma viene aspramente redarguito dal Marchese (“… non mi toccate su questo punto se vogliamo essere amici, o vado in furia”). [Scene 1 – 2]

            Grazie a Leonarda, l’unica altra donna della commedia, l’azione scenica prosegue: cerca il confronto con don Gregorio ma questi la scaccia, preso com’è dal problema di Enrico. Questa si sfoga con Pippetto e lo aizza contro l’aio (“… se son vere le vostre premure; se Leonarda vi preme quanto dite, dovrete unirvi meco, affinché sia cacciato via costui da questa casa”). Pippetto giura di assecondarla (“Per Leonarda farò tutto”) e Gregorio raggiunge Enrico al fine di aiutare Gilda a tornare a casa dal bambino: Leonarda e Pippetto osservano di nascosto e vedono il vecchio istitutore nascondere una ragazza. Pippetto intercetta il Marchese, al quale rivela tutto quello che ha sentito (“Dal buco della chiave, ove mi sono posto per la curiosità di ascoltare una voce di donna che parlava piano piano”; M. “E la donna?” P. “Sotto il suo braccio”; M. “Sarà stata qualche vecchia”; P. “Giovanetta”). Don Giulio, infuriato, non osa irrompere nelle stanze di don Gregorio per non ripetere una scena simile a quella della cagnolina (“… se grido, egli nega, e si pongono in malizia i ragazzi… si cerchi scoprire con qualche stratagemma…”). [Scene 3 – 9]

            Il Marchese tenta di farsi aprire le stanze di don Gregorio con una scusa (“Aspetto fra breve un nipote di una mia cugina, il quale penserei, per farlo stare con libertà, di porlo nel vostro appartamento”) ma questi non rifiuta, sicuro di riuscire a liberare Gilda in tempo; di fronte allo stordimento di Gregorio, Pippetto e Leonarda lo canzonano. [Scene 9 – 12]

            III atto

            Gli uomini non sono capaci di gestire questa faccenda intricata, né il giovane e appassionato innamorato né il saggio precettore: è Gilda che deve risolvere questo intrico. Il Marchese la scopre negli appartamenti di don Gregorio credendola ancora l’amante dell’istitutore e quando questi la raggiunge don Giulio lo rimprovera veemente (“Vecchio sfrenato! Mira in che stato mi poni, vedimi, son paralitico dalla rabbia”). Don Gregorio sta recando il piccolo Bernardino in fasce e Gilda irrompe, vedendolo minacciato dalla furia del Marchese: lo strappa dalle sue braccia e lo allontana. [Scene 1 – 4]

            A questo punto l’atto da tragedia: Gilda minaccia di trucidare il proprio figlio per ottenere il perdono per Enrico e quando il Marchese la ferma questa gli rivolge contro tutta la meschinità serbata ai marchesini (M. “Che fate, scellerata? E siete madre?”; Gil. “E siete padre?”).

Il Marchese si arrende, inerme, di fronte alla situazione: Pippetto, giacché lo trova in vena di perdonare, chiede la mano di Leonarda ma questa lo rifiuta (“Io ho lusingato questo ragazzo… al solo fine che altrove non cercasse divagarsi, ma in verità non ho mai sognato di pensare ad esso”). [Scene 5 – 6]

Le trasposizioni

L’ajo nell’imbarazzo, è stato più volte trasposto ma, come detto, pochissimo è il materiale ritrovato in questa sede: ne abbiamo a disposizione una di Giuseppe Gaspari, musicata per il Teatro dei Rinnovati di Siena da Giuseppe Pilotti nel 1813.

Le differenze, a livello drammaturgico, non sono moltissime: le scene sono quasi tutte rispettate e anche i numeri musicali sono all’incirca gli stessi; a seguito riportiamo lo schema dei suddetti numeri (notare che nel libretto citato Gilda muta il nome in Linda). Unica differenza sostanziale è la rimozione del personaggio di Pippetto e la liaison, non presente in Giraud, fra Leonarda e Simone.

            Atto primo

            1. Intro (M, Le, S, Gr): Meno ciarle, e più rispetto

            2. Duetto (Gr, M): Se legate da piccino

            3. Duetto (E, Gr): Giurate di ajutarmi?

            4. Cavatina (Lin): Madre io sono, e sventurata

            5. Terzetto (Lin, E, Gr): Lascia quel cor tiranno

            6. Aria (M; Gr): Perdonate; fu un errore

            7. Finale I (Tutti tranne Linda): Il Marchese si è rinchiuso

            Atto secondo

            8. Aria (Le): Sono una donna

            9. Aria (Gr; E, Lin): Qui si tratta di natura

            10. Quartetto (Lin, E, Gr, M): Vecchio indegno… dalla rabbia

            11. Aria (Lin): Io son rea; ma sol punito

            12. Finale II (Tutti): Dopo le barbare

            Successive versioni

RM 24FI 25*PD 28MO 30MI 37VE 42ME 58
1. Intro======
       
2. cav (Giu) cav (Giu) al. [2] XXX
       
3. d. (Gr, Giu)======
       
4. cav (E) cav (E) al. [3]cav. (E) al. [6]=cav. (E) al. [12]cav. (E) al. [13]
    5. d (Gr, P) [9]d [9]d [9]
5. cav (Gil) cav (Gil) al. [4]cav (Gil) al. [7]   
       
6. t (Gil, E, Gr)======
       
7. d (Giu, Gr) A (Giu) [5]    
       
8. d (Gil, Gr)   d (Gil, Gr) [10]d [10]d [10]
       
9. Fin I======
 10. d (E, Gil) [1]d [1]d (Gil, L) [8]d [8]d [8]d [8]
10. A (Gr; Gil, E)    X 
       
11. t (Gil, E, Giu)   A (Giu) [11]A [11]A [11]
       
12. qn (Gil, E, Gr, Giu; L)======
       
13. Coro (L, P, S, Coro)======
       
14. A (Gil; altri) F1F2 F3F4
       
  * FI 26 (Teatro della Pergola): in questo libretto si legge il nome di Nina in luogo di quello di Gilda.

[1] Recitativo e duetto (E, Gil): Gilda mia, per pietà, non piangete tanto… I trasporti del tuo core [ottonari]

[2] Cavatina (Giu): È d’un padre pur grave la sorte [decasillabi]

[3] Cavatina (E): Cara e fatal’immagine[settenari]

[4] Cavatina (Gil): Sgombra il timor, serenati [settenari, senari]

[5] Aria (Giu): Ah perché, perché quel core [ottonari]

[6] Cavatina (E): Rivedrai lo sposo amato [ottonari, quinari]

[7] Cavatina (Gil): Basta un sguardo lusinghiero [ottonari, quinari]

[8] Duetto (Gil, L): Nella camera soletta [ottonari, doppi senari]

[9] Duetto (P, Gr): Come un asino, maestro [ottonari, senari, doppi quinari]

[10] Duetto (Gil, Gr): Non sapete ch’io son figlia [ottonari, settenari, senari]

[11] Aria (Giu): Sugli occhi tuoi, spietata [settenari, ottonari]

[12] Recitativo e cavatina (E): Inosservato, e sol qui posso almeno… o Gilda; se vittima [senari]

[13] Recitativo e cavatina (E): Che mai sarà di me? Qual tetro aspetto… La speme di quest’anima [settenari]

    Tab. 2 Scene alternative reperite da cinque versioni successive alla prima del   

1824

            Quello che si evince dalla tabella è l’evoluzione di quest’opera nel corso di pochi anni. Rispetto a quella originale la versione, possiamo dire, finale vede come quinto numero musicale il duetto fra Gregorio e Pippetto e come ottavo il duetto alternativo fa Gregorio e Gilda; il secondo atto lo si fa aprire con un duetto (si era dapprima pensato a un duetto amoroso fra Gilda ed Enrico per poi invece preferire un duetto buffo fra le due donne, Gilda e Leonarda); si sostituisce il terzetto del secondo atto fra Enrico, Gilda e il Marchese con una sortita di quest’ultimo.

Molte sono le alternative alle cavatine sia di Gilda che, soprattutto, di Enrico ma le differenze principali riguardano il finale, che, si vede bene, viene spesso rimaneggiato (nella tabella seguente si osservano le differenze tra i vari finali).

Ferretti / DonizettiRif. Giraud
I1Gr, P, L; S, Co.1. Introduzione (Gr, P, L, S, Co)(I. 3)
 2Giu; Gr2. Cavatina (Giu); 3. Scena e duetto (Gr, Giu)I. 2
 3E; Gr4. Cavatina (E)I. 4 , 5
 4Gr, S I. 6
 5E; Gil5. Scena e cavatina (Gil; E)I. 7
 6Gil, E, Gr6. Terzetto (Gr, E, Gil)I. 8
 7Gil, E, Gr; (Giu) 
 8Gil, E, Gr, Giu7. Aria (Giu; Gr)I.9
 9L, P, Gr II. 4
 10Gil, E, Gr8. Duetto (Gr, Gil)II. 7
 11L, P9. Finale I (L, P, Giu, Gr, E, S, Co)II. 8
 12P, GiuII. 9
 13Giu, GrII. 10
 14L, P, E, Giu, Gr, S, Co. 
II1E, Gil III. 1
 2E, Gil, Gr10. Aria (Gr; E, Gil)
 3Gil, E;Giu11. Scena e terzetto (Gil, E, Giu)III. 2
 4Gil, E,Giu, Gr III. 3
 5Gil, E, Gr, Giu,12. Quintetto (Giu, Gr, Gil, E; L)III. 4
 6Gil, E, Gr, Giu, L 
 7L, P, S, Co13. Coro (L, P, S, Co) 
 8Gil; Giu, Gr, E, S, Co14. Rondò (Gil; Giu, Gr, E, S, Co)III. 5, 6
     
   Tab. 3 Schema dei numeri musicali e riferimenti alle scene della commedia originale di   Giraud

           

Atto Primo

N. 1 Introduzione (Gregorio, Pippetto, Leonarda, Simone e Coro) Mi traduca dal volgare

            ottonari, doppi quinari

            Questa introduzione è un pezzo originale che il Ferretti inventa e non trae dalla commedia originale: si vedono Don Gregorio che tenta di far lezione a un recalcitrante Pippetto. La scarsa concentrazione del ragazzo è inoltre ostacolata dalla cameriera Leonarda che subito battibecca col tutore; questi richiama anche gli altri servi affinché non venga mai disturbato mentre insegna ai ragazzi.

Confrontando questa introduzione con quella di altri libretti del Ferretti si deve notare una maggiore semplicità metrica: solitamente, e questo avveniva già nelle opere buffe del settecento, le introduzioni erano pezzi d’assieme da caratterizzate da 3,4 e, più frequentemente, 5 metri. Questa introduzione ha invece una struttura bipartita: tutta la scena è in ottonari fino all’arrivo del coro, e quindi alla stretta, in cui si passa a doppi quinari. Questa accoppiata metrica pare essere la favorita nei pezzi buffi in generale: solo in quest’opera la utilizza tre volte  mentre, a livello didascalico, si segnala che è il metro del dell’esemplare Duetto buffo fra Dantini e don Magnifico ne La Cenerentola.           

N. 2 Cavatina (Giulio) Basso, basso il cor mi dice

            ottonari, doppi quinari

            L’ingresso in scena del marchese Giulio avviene con una cavatina bipartita: inizialmente si presenta con un due quartine di ottonari intimi e sinceramente carichi di preoccupazione per i figli che lo nobiliterebbero a buon esempio di figura paterna. Melodia e testo si volgono repentinamente in toni buffi nella seconda sezione di doppi quinari: egli sciorina la sua misoginia ma non appare minimamente intenzionato – né lo sarà più avanti – a spiegarne le ragioni (“Ma l’empia origine – di questo male / è solo il perfido – sesso fatale … son uom di mondo / so quel che fo”).

 RM 24PD 28
Giu.   Basso, basso il cor mi dice del mio sen dal più profondo: no: d’un Padre in questo Mondo non v’è stato più infelice.    Nel pensare ai cari Figli, sempre sognansi perigli; perché è tanto iniquo il Secolo; che fa il senno ribaltar.    Ma l’empia origine – di tanto male è solo il perfido – sesso fatale, che tutto smorfia – tutto languore, desta un incendio – nel nostro cuore, che in fumo, e in cenere – lo fa cangiar.    Cari miei Figli, – di questo affanni non soffrirete – che ai quarant’anni. Quando il criterio – sarà maturo, quando il giudizio – sarà sicuro, quando il pericolo – sarà passato, quando sia l’epoca – di mutar stato, con Donne giovini – converserete, ci parlerete; – ma prima no: son Uom di Mondo – so quel che fo.È d’un padre pur grave la sorte per l’incerto avvenire de’ figli;
al riflesso d’un dubbio sì forte l’alma in seno tranquilla non ho.    Ma de’ mali nel mondo maggiore sta di donna nei vezzi lo so;    della quale s’annida nel core ogni frode che il vizio operò.    Figli amati da tanto malore preservarvi avveduto saprò.
 

            L’aria alternativa – che fra i testi ritrovati appare una sola volta – è una quartina a cui si accodano tre distici; questa volta si utilizza un metro unico, il decasillabo.

Si sa, il decasillabo è il metro più adatto a esprimere la collera che ribolle ed effettivamente qui scompare quasi totalmente la componente emotiva: il Marchese si lancia in una condanna aperta nei confronti delle donne ma anche qui non ci concede il lusso di spiegare la ragione di tanto astio.

N.3 Scena e duetto (Giulio, Gregorio) Questi miei Figli un peso – Le dirò… così… a quattr’occhi

            ottonari, doppi senari

            Dopo la sua cavatina Don Giulio incontra il maestro Don Gregorio: si capisce che fra i due c’è un legame di sincera amicizia e di rispetto. La conversazione fra i due procede organicamente fra recitativo e duetto: Don Gregorio timidamente avanza l’ipotesi di allentare la sorveglianza sui figli mentre Don Giulio si inalbera immediatamente e pensa, con malizia, che anche l’istitutore gli nasconda qualcosa.

C’è da notare che la seconda sezione in metri doppi è che i quinari vengono sostituiti dai senari soprattutto in situazioni di lite, di discussione o in ogni caso in cui l’intesa fra i due personaggi viene a mancare.

(“Fate quello che vi piace: volete tenerli sotterra? fatelo; ma siate certo che i vostri figli faranno come il cane che, se si lascia con prudenza libero e sciolto, cammina, annasa, conosce e passa; ma quando si tiene soverchiamente alla catena, se mai giunge a spezzar l’uncino che lo tiene attaccato alla muraglia, corre, urla, addenta e, se s’imbatte in qualche letamajo, vi si ravvolge, vi s’imbratta, e fa peggio degli altri cani”)

N.4 Cavatina (Enrico) Nel primo fior degl’anni

            settenari, doppi senari

            Enrico dovrebbe essere il protagonista della commedia: del resto, la vicenda ruota intorno al suo amore per Gilda, la dirimpettaia, mentre l’aio, che invece dà il titolo all’opera, dovrebbe avere un ruolo secondario, quello di aiutante. Quello che invece è abbastanza frequente sia in letteratura che poi in musica è la passività del primo amoroso, che molto spesso si abbandona allo sconforto e lascia che siano altri personaggi a sviluppare il dramma.

Anche in questo caso il tenore non ci delude: nell’unico suo pezzo solista, infatti, lo troviamo da solo mentre lamenta la sua sorte e si scopre incapace non solo di agire ma anche di organizzare una qualunque tattica contro la presunta tirannia del padre.

Come le altre, anche questa cavatina si costituisce di due sezioni, una, in questo caso, in settenari e una in metro doppio, nella fattispecie senari. Ovviamente non sappiamo cosa determina la scelta metrica del poeta ma si può azzardare di ipotizzarne le intenzioni: il settenario è il metro lirico per eccellenza mentre il senario, si sa, esprime e efficacemente il dubbio, l’indecisione.

  RM 24PD 28
Enr.   Nel primo fior degl’anni penar – spirar dovrò! Ne’ i miei spietati affanni narrar – spiegar potrò!    Che strano cimento! – Che strazio, che pena! Mostrar nel tormento – la fronte serena! Sull’occhio, sul viso – di pianto bagnato costringere il riso – mentire il piacer?    Oh barbaro stato – oh crudo dover!   Cara e fatal’immagine d’un dispietato oggetto ah perché mai dal petto rapirmi, oh cruda il cor.    Deh! tu proteggimi pietoso amore, la pace rendimi, ritorna al core la già perduta tranquillità. Quai fieri palpiti, qual crudo affetto, io pur posseggo l’amato oggetto; ma perché palpito perché tremar?
 MD 30VE 42ME 58
    Sì, mia cara a te vicino rivedrai lo sposo amato; un istante fortunato, al tuo sen mi guiderà.    Il perdon del genitore spezzerà le mie catene; e all’affanno ed alle pene il piacer succederà.    Cara consolati, tergi le lagrime: la nostra sorte si cangerà:    fra i dolci amplessi di un fido sposo amor pietoso ci guiderà   O Gilda; se vittima, tu fosti d’amore, or tergi le lagrime serena il tuo cuore, pietosa a sorridere la speme spuntò.    Se i voti di un misero in cielo han ricetto, se tace la collera d’un Padre nel petto più in terra quest’anima bramare non sa.   La speme di quest’anima non fia, non fia tradita; come da morte a vita si desta e balza il cor:    ah! se potrò dividere il viver mio con lei saranno i giorni miei un’estasi d’amor.
  Tab. 4 Testi ritrovati delle cavatine alternative di Enrico

Anche qualora dovessimo confrontare il testo di questa cavatina con le altre che abbiamo a disposizione, si noterebbe che nessuna di queste, praticamente, Enrico riveste un ruolo attivo nella vicenda: la cavatina originale si conclude con “O barbaro stato, o crudo dover” come se fosse un eroe romantico che si arrende al proprio destino.

Al confronto con le altre versioni successive non si notano grandissimi differenze: tutte sono in doppio metro tranne le ultime che si costituiscono di due semplici sestine e quartine geminate di settenari (VE 42: sAsAst; ME 58: sAAt) – l’ultima soprattutto è di stampo puramente metastasiano e pertanto appare addirittura la meno originale.

N. 5 Cavatina (Gilda; Enrico) Qual’azzardo! A un mio cenno – Figlia son d’un Colonnello

            ottonari

            L’ingresso in scena di Gilda si ha con una bellissima cavatina in cui già ci fa capire le sue potenzialità: nella commedia originale l’ingresso si limitava a a quello che poi diventa più recitativo ma, giustamente, il Ferretti aggiunge l’aria desumendola da alcune parole della protagonista e sviluppandola intorno a questo carattere.

(“Farò ciò che posso. Tu sai che quando mi trovo perduta pongo nel discorso qualche squarcio dei romani che ho letto.”)

(Gir.:“Ti prevengo però che questo tuo ajo ha una figura che non mi par nulla buona”;

Fer.: “Non mi piace / quella fisionomia”)

Anche a una lettura superficiale si vede benissimo quanto la cavatina originale sia la più complessa, la più completa rispetto alle successive: metricamente assomiglia molto di più a un rondò (la struttura, rigorosamente in ottonari, lunga e rompe il sistema di quartine) e pertanto dà dignità al personaggio che, come vedremo, è il reale motore della vicenda.

 RM 24 e segg.PD 28MD 30
Gil.   Figlia son d’un   Colonnello. Ho uno spirito marziale, e qui dentro al mio cervello ho malizia in quantità.    Quando parlo, non c’è male. Se sospiro è meglio ancora; e se piango, in men d’un ora quel che voglio si farà.    Di Romanzi, e di Novelle, io ne ho lette tante, e tante, e so cento cose belle, che sul labbro d’un Amante, quando a tempo sian sparate con due smorfie, e un sospiretto, sono tante cannonate, che non mancano d’effetto, e fan gli Uomini più dotti da merlotti – giù cascar.    Gilda tua si raccomanda:
ridi, brilla, e lascia far.
   Sgombra il timor, serenati, fidati a questo core; ma tu costante serbami il tuo primiero amore. Se  amore a me sorride, di più bramar non sò.    (Al par della rosa, tra ceppi racchiusa, che il seno vermiglio non puote spiegar.    Quell’alma amorosa, incerta, confusa ridente il bel ciglio non osa mostrar.)     Basta un sguardo lusinghiero, un soave e dolce accento a domare un cor più fiero del più forte a trionfar.    Muover l’alma a suo talento delle donne è nobil vanto, vezzi, occhietti, riso e pianto al momento s’ha a adoprar.    Deh! calma i palpiti, mio caro sposo, chè alle nostre anime amor pietoso or sarà rendere dolce mercè.

N. 6 Terzetto (Gregorio, Enrico, Gilda) Come! Come!

            ottonari, settenari

            Don Gregorio scopre finalmente la causa del malessere del marchesino Enrico: lo trova sposato con Gilda e addirittura padre di un Bernardino.

Come nel caso del duetto Gregorio-Giulio, anche qui la versificazione perfetta del recitativo amplia il respiro nel numero musicale, lì esprimendo il fatto e qui al dialogo. Dapprima i due personaggi attivi della vicenda, Gregorio e Gilda, si lanciano in rapidi scambi di battute di tempesta (Gr.: “Coppia rea! Su te sta il fulmine / ti abbandono al tuo destin…” Gil.: “Lascialo quel tiranno”)ma poi la ragazza pone in atto il suo piano: il bel monologo di Giraud – che sembra davvero la parodia di una qualche dichiarazione spassionata da dramma serio del Seicento – viene trasformato in undici splendidi settenari metricamente più innovativi rispetto al classico, rigido schema di quartine (schema rime: xA’A’t’ BCBCs’tt).

Don Gregorio cede immediatamente e, da bravo protagonista buffo, si pone al centro del vortice delle querele: da un lato i due giovani amanti clandestini lo martellano con pietosi imperativi (“Gregorio, mio pensateci, / Gregorio, nascondeteci / Gregorio, provvedeteci, / Gregorio, carità.”), dall’altro l’incombente, minaccioso Marchese che si insinua con un rigo di recitativo nel terzetto.

N.7Aria (Giulio; Gregorio) Deh! Scusate – perdonate

            ottonari

            Don Giulio entra in scena: l’istitutore ha nascosto prontamente Gilda nella stanza di Enrico ma il Marchese lo scorge serrare frettolosamente la porta. Si sa, don Gregorio accampa una scusa (per spiegare ulteriormente il concetto di versificazione perfetta si rimanda alle linee di recitativo in seguito riportate) 

Gir.Fer.
Gr.          (Ci vuole spirito.) Vi dirò… mi è stata regalata… una… cagnolina, ed acciò non imbrattasse l’appartamento l’ho chiusa là dentro; più tardi poi la porterò nelle mie camere.Gr.… Signore m’è stata regalata una Cagnuola, ed io perché non imbrattasse queste Stanze l’ho chiusa là; più tardi la porto su da me.
Giu.Scusate, vi torno a dire, ma voi parlate in una maniera… Favorite, datemi la chiave.Giu.                                Ma voi parlate in un modo curioso… perdonate. Date la chiave a me.
Gr.Come!Gr.                                    Come!
Enr.(Son disperato!)Enr.                                               (Son morto!)
Giu.Non sono il padrone?Giu.Che! Non sono il padrone?
Gr.Lo siete, e per questo…Gr.                                                Anzi.
Giu.Voglio vedere che v’è là dentro.Giu.                                               E per questo voglio veder là dentro.
Gr.Ve l’ho detto, una barboncina.Gr.                                        Gliel’ho detto: vi stà una Barboncina.
Giu.Oh! Scusatemi. Io nol credo; orsù, questa è casa mia, l’esigo; D. Gregorio, datemi la chiave.Giu.                                       Barboncina! Sarà; ma io non credo. Perdonatemi, questa è mia Casa. Quà la chiave.
Enr.(Io muojo.)Enr.                                                     (Oh Dio!)
Gr.Nol credete? (Colpo da maestro.)Gr.Non lo credete? (All’arte ingegno mio.)

            Segue un’aria del Marchese con Gregorio come pertichino; questa, a guardar la metrica, appare molto più interessante e “moderna”, più simile a una breve scena che a un classico: Don Giulio apre questo numero tanto moderno con due quartine di gusto puramente settecentesco (a chi altri potevano essere assegnati versi di vaga imitazione metastasiana se non all’Antiquati?), soprattutto la prima (aABBt):

                        Deh! Scusate – perdonate:

            non fu poi che lieve errore.

            Mancò il labbro, e non il core,

            che di voi temer non sà.

                        Nel fidarvi i Figli miei

            ringraziai l’amica Stella.

            Sceglier meglio io non saprei

            per la lor felicità.

            Sebbene si possa trovare indicata come duetto, si ha una quartina di battute fra Marchese e istitutore (cosa che solitamente avviene nel tempo intermedio dei duetti)ma poi la parola passa nuovamente a don Giulio (xAAtxCcCt) in altre due quartine in cui don Gregorio si intromette esclusivamente in un emistichio (indicato in grassetto nello schema delle rime).   

Giu.                              Se la bile in me si desta,

                        se divampa il mio cervello,

                        di Vesuvio, e Mongibello

                        tutto il fuoco bolle in me.

                                   Vi conosco, so per prova

                        quanto onore in cor serbate.

                        Perdonate…

Gr.                                          Ma guardate.

Giu.                 No: possibile non è.

N. 8 Duetto (Gregorio, Gilda) Cara mia, ci vuol pazienza

            ottonari, doppi senari

            Allontanatosi il severo Marchese, don Gregorio fa uscire Gilda dalla stanza di Enrico ma non le garantisce ancora di riuscire a farla tornare a casa da suo figlio senza che il padrone di casa li scopra. In questa situazione, l’azione viene dilatata in un duetto di stampo puramente buffo (nella seconda sezione, in doppi senari, si confermano ancora una volta Gilda eroina della commedia e don Gregorio buffo sopraffatto dagli eventi) che all’apparenza potrebbe suonare eccessivo, quasi superfluo – a favore di tal tesi si noti, dalla tab. 2, la sostituzione con un duetto alternativo. In verità, da un punto di vista strettamente drammaturgico, nessuno dei duetti appare necessario in modo propriamente detto: in quello alternativo si ribadisce quanto detto nel terzetto, con scambi di battute fra un Gregorio sbigottito e una Gilda che punta – e questa volta può suonare come una minaccia – sulla sua origine paterna (“Non sapete ch’io son figlia / d’un signor, d’un colonnello”).

            Il duetto originale, tuttavia, ha una funzione ben specifica – e sempre intelligentemente disposta dal Ferretti. La prima quartina pronunciata è quella di Gregorio che raccomanda a Gilda di avere pazienza:

                        Cara mia, ci vuol pazienza:

            per adesso non si può.

            Un tantin di sofferenza

            che più tardi io proverò.

Bisogna notare che queste sono le parole che Pippetto riferisce al padre nel finale I:

            Le dicea d’aver pazienza.

            “Per adesso non si può.

            Un tantin di sofferenza;

            che più tardi proverò.

Questo dà modo a Pippetto, poco avvezzo alla concentrazione, di svignarsela subito alle prime battute invece di sorbirsi tutto il dialogo e al pubblico di illudersi che queste battute passino totalmente in secondo piano sebbene risuonino come l’incipit di un pezzo musicale.

N. 9 Finale I (Leonarda, Pippetto, Enrico, Giulio, Gregorio, Simone, Coro) Sentiste? Vedeste?

            doppi senari, ottonari, settenari, doppi quinari, ottonari

            Il petto deve adesso correre dal padre per rivelarli quanto ha visto: Don Gregorio è creduto l’amante di una ragazza, la nostra Gilda, dal Marchese che, al suo solito, si adira immediatamente. Protagonista assoluto di questa commedia, Don Gregorio si vede pertanto accerchiato da tutti gli altri personaggi: Enrico che gli chiede aiuto, Il marchese che gli chiede spiegazioni, pipetto con le sue castronerie, Leonardo coi suoi pettegolezzi e infine Simone e il coro che semplicemente affollano la scena. Manca soltanto Gilda, la prima donna, la cui assenza per mette di concentrare l’attenzione proprio sul basso: nel caso in cui ci fosse invece stata sicuramente la voce del Soprano avrebbe carpito l’orecchio del pubblico e avrebbe in qualche modo messo la vocalità del basso comunque in secondo piano.

Convenzionalmente i finali d’atto, così come spesso le introduzioni, sono pezzi di insieme caratterizzati da più cambi di metrica e in questo caso si rispetta una regola non scritta ma che spesso si vede verificata, che è quella di scrivere finali a cinque metri. Come si evince anche dalla tabella 3, la divisione delle scene aiuta il poeta con la scelta metrica: la prima sezione in doppi senari vuole esprimere la titubanza di Pippetto a parlare col severissimo padre e strutturalmente vuole rimandare al coro che precederà il finale secondo (in cui invece sarà protagonista Leonardo). Segue un duetto di stampo buffo, in ottonari, fra il Marchesino che riferisce quanto pensa di aver visto e il padre – che ovviamente reagisce con l’usata collera; la scena si fa quindi seria, lirica col cambio in settenari per il duetto tra Giulio e Gregorio (viene quivi inserita la scena in cui Don Giulio finge di dover ricevere ospiti per poter entrare nelle stanze dell’istitutore).

L’ingresso di tutti gli altri personaggi viene fatto con una caotica cascata di doppi quinari che porta alla stretta propriamente detta (ottonari, sicuramente uno dei versi più utilizzati per i pezzi di insieme); si noti, soprattutto a livello della stretta, il ritorno di elementi ricorrenti quali il cervello che naufraga “in gran tempesta”.

            Atto Secondo

N. 10 Aria (Gregorio; Enrico, Gilda) Zitta, zitta: non piangete

            ottonari, doppi quinari

            Come originariamente era giusto che fosse, il secondo atto si apriva con questa splendida e complessissima aria di don Gregorio con Enrico e Gilda in qualità di pertichini. Successivamente è stata fatta precedere da un duetto – dapprima uno amoroso fra i due amanti, successivamente uno buffo tra le due donne della commedia – ma probabilmente l’idea primigenia del Ferretti era quella di affermare l’aio, il precettore don Gregorio quale protagonista su cui concentrare l’attenzione e non soltanto uno dei buffi che danno il pretesto per creare un titolo simpatico.

N. 11 Scena e terzetto (Gilda, Enrico, Giulio) Ah! Chi sarà! – Signor…

            settenari, ottonari, settenari

            Don Gregorio si allontana dalla casa del marchese, convinto da Gilda a recuperare il figlio Bernardino, da solo senza latte: speranzosa, la coppia si ritrova però di fronte a Don Giulio. Questi, ancora convinto che Gilda sia l’amante di Don Gregorio, apre un terzetto in cui le parti dei personaggi si riconfermano: Il marchese si avventa adirato sulla giovane la quale, da vera eroina del dramma, non smette di combattere per il proprio amore; Enrico, da parte sua, rimane in disparte interviene quasi esclusivamente per parentesi e anche nei pochi interventi diretti non si permette di dire la verità al padre ma si limita ad avanzare timidamente che “è in inganno”.

Questo è forse il punto di più alta drammaticità nel senso che, vicinissimi al finale, La situazione sembra irreparabile: anche in questo caso Gilda prova ad avanzare in sua difesa di essere figlia del colonnello, quindi una persona rigorosa, seria ma Don Giulio la interrompe, non l’ascolta nemmeno e la solita minaccia pare non sortire il solito effetto che ha avuto, suo Enrico e su Don Gregorio.

N. 12 Quintetto (Giulio, Gregorio, Gilda, Enrico; Leonarda) Alma rea!

            ottonari, doppi senari, decasillabi

            Il Marchese si allontana e aspetta l’arrivo di Gregorio, il quale entra trafelato per risolvere la situazione di Gilda punto Don Julio lo sorprende e uno splendido in questo splendido quintetto si vede Don Giulio rimproverare l’istitutore credendo che Gilda sia la sua amante.

Enrico partecipare da parte, al suo solito non attivamente alla situazione e, per complicare il numero musicale, partecipa anche una Leonarda totalmente esterna alla vicenda che entra esclusivamente per spettegolare, per fare del pettegolezzo.

N. 13 Coro (Pippetto, Leonarda, Simone, Coro) Leonarda che fù?

            doppi senari

            Grazie a questo coretto Ferretti intende dare dignità e un po’ di respiro anche personaggi secondari esattamente come era avvenuto nell’introduzione: Leonarda e Pippetto si ritrovano a commentare insieme a Simone agli altri del coro, quindi agli altri servitori della casa di Don Giulio quanto successo: Gilda In verità si è scoperta essere l’amante di Enrico e non di Don Gregorio punto questo pezzo, soltanto apparentemente non necessario, In verità dilata l’azione del secondo atto, altrimenti probabilmente troppo debole troppo scarno e ci conduce verso un finale in cui a trionfare Sono esattamente tutti gli altri personaggi ovvero i principali, soprattutto Gilda. Quasi parallelamente possiamo dire che questo è il finale di Leonarda, L’altra donna della commedia che all’interno della casa di Don Giulio riveste sempre un ruolo ambiguo, poco chiaro. Non si capisce come in questo ambiente così chiuso alle donne Leonarda invece compaia si muova al liberamente interagisca tranquillamente con il marchese

N. 14 Rondò finale (Gilda; Enrico, Giulio, Gregorio, Simone, Coro) Quel tuo sorriso o Padre

            settenari, ottonari

            E finalmente arriviamo al rondò finale di Gilda. Nel recitativo che lo precede tutta la vicenda viene sbrogliata: il marchese ha finalmente perdonato il figlio e la giovane, in parte arrendendosi all’irreparabile, e Leonarda, con una svolta improvvisa, annuncia che non è né è mai stata sua intenzione impegnarsi con Pippetto ma che sarebbe stata mossa dall’unica finalità di vendicarsi di don Gregorio.

A questo punto Gilda accentra su di sé l’attenzione ed esprimendo il proprio infonde il giubilo negli altri personaggi – e negli ascoltatori: don Giulio si rende conto della propria cecità, don Gregorio finalmente tira un sospiro di sollievo e si gode la scena del Marchese che “rimane inzuccherato” ed Enrico, con Simone e il coro, respira finalmente fiducioso in un futuro migliore (“Tutto è per noi cangiato: / l’affanno è terminato”).

Fattore comune nelle opere di Ferretti è il rondò finale della prima donna: fra tanti libretti letti forse solo il Giulio Cesare in Egitto, musicato da G. Pacini, si conclude con un duetto; anche il donizettiano Torquato Tasso si chiude con un rondò, anche se del protagonista.

A un primissimo sguardo non si può non notare la somiglianza con “Tace la tromba altera”, con cui Matilde di Shabran conclude l’opera che porta il suo nome: “Femmine siamo nate per vincere e regnar” risuona simile a “Siam serve: ma regniamo: / siam nate a comandar”. Ci sono altri elementi che ricorrono nei finali ferrettiani e sicuramente vanno notate le elencazioni personali: qui “Maestro… Sposo… Padre!”, ne La Cenerentola Angiolina si impegna a diventare una buona “Figlia… Sorella… Amica…”, ne La capricciosa ed il soldato (M. Carafa, 1821) la Contessa Ernestina invoca “Ah, german! Consorte! Amica!”.

Di fronte alla seconda quartina (“Non più fra tante smanie / palpiterai mio core; / ha vinto, ha vinto Amore / ritorno a respirar”) rivediamo tutte le eroine che hanno preso vita dalle commedie del poeta romano: per la Cenerentola “Ah fu un lampo, un sogno, un gioco / il mio lungo palpitar”, per l’Eleonora de Il furioso all’isola di san Domingo “La memoria del passato / come sogno svanirà”; Amalia “già scorda le pene” (Il nuovo Figaro, musica di L. Ricci); Luisa dice: “Per te il cor fra vivi spasimi / mi sentia morir in petto, / ma, lo sento in sen rinascere / all’aurora del piacer” (Il disertore per amore, musica di P. Romani); “Palpitai tra tema e lagrime / sol d’amor palpiterò”, considera la Matilde de Il folletto (musica di P. A. Coppola) e ancora Elisa, nel Chi dura vince musicato ancora da L. Ricci: “Fortunata la mia pena / se piacer mi diventò”.

Alla stregua di Gilda e della rossiniana Angelina paiono dar voce a tutti i temi cari al librettista anche l’Isabella dell’Olivo e Pasquale(“Padre!… mio caro zio!… / Signor! Mio bene!… / … / Copra un’eterno oblio / il lungo sospirar”) e Irene: “Novello padre!… amico! / … / Fortunati affetti miei! / Maledirvi il cor non sa; / senza voi, no non godrei / così gran felicità” (Eran due or sono tre, L. Ricci)

            Nella Tab. 2 si legge che il rondò finale ha subito più modificazioni che, come si legge nella prossima tabella, vede assottigliarsi sempre più la complessità dei cori e dei pertichini.

 RM 24PD 28MO 30
Gil.   Quel tuo sorriso o Padre tenero al cor mi scende; penso alle mie vicende e parmi di sognar.    Non più fra tante smanie palpiterai mio core; ha vinto, ha vinto Amore ritorno a respirar.   Quel tuo sorrido, o Padre, calma i miei lunghi affanni, della ria sorte i danni io più non sento in cor.    Al Padre, ed allo sposo, fien sacri i voti miei, e imploro dagli Dei per voi felicità.   Quel tuo sorriso o Padre tenero al cor mi scende; penso alle mie vicende e parmi di sognar.    Non più fra tante smanie palpiterai mio core; ha vinto, ha vinto Amore ritorno a respirar.
Giu.       Gr.       Enr.         Gil.   (Costei m’ha già incantato. Pazzo finor son stato che donna! che Donna! L’egual, no non si dà.)    (L’amico c’è cascato rimane inzuccherato! Ci ho gusto, ci ho gusto! Gridar più non potrà.)    Tutto è per noi cangiato; l’affanno è terminato. Che gioja! chegioja! Il cor giubilerà. Maestro… Sposo… Padre! O che felicità!Coro.    Dobbiamo solo a lei tanta felicità.                 Gil.    Ah, vicino al ben che adoro la mia fiamma il mio tesoro,   (Costei m’ha già incantato. Pazzo finor son stato che donna! che Donna! L’egual, no non si dà.)    (L’amico c’è cascato rimane inzuccherato! Ci ho gusto, ci ho gusto! Gridar più non potrà.)    Tutto è per noi cangiato; l’affanno è terminato. Che gioja! chegioja! Il cor giubilerà. Maestro… Sposo… Padre! O che felicità!
                  S, Co.Donne care! qui fra noi non neghiamo il nostro impero: ai Sapienti, ed agli Eroi noi cangiamo il bianco in nero. Siamo serve: ma regnamo: siamo nate a comandar.   (Manco male! c’è una Donna! Del Padron più non temiamo: c’è una Donna; non tremiamo; s’è finito di penar.)tutte provo in tal momento le delizie del piacer.    Della sorte io più non sento, l’implacabile rigore:
ah se a me ti rende amore altro mai sperar non so. Co. L’implacabile rigore, finalmente si cangiò.
Basti ad esprimere il mio contento quel dolce palpito che in seno io sento, quel moto insolito che m’arde il core; le mie delizie comprenda appieno chi alberga un’anima colma d’amor.    Ognor proteggano i numi amici coppia sì amabile, sì puro ardor.
 VE 42ME 58 
Gil.Quel tuo sorriso o Padre tenero al cor mi scende; penso alle mie vicende e parmi di sognar.    Nel dolce incanto di tal momento balzar mi sento d’ebbrezza il cor.    Ah! pria che all’estasi soccomba il core, al senostringimi sgombra il timore immensa è l’estasi del mio piacer.     Ah no, non posso esprimere l’immenso mio contento; in così bel momento che più bramar non sa.    Amor che l’alme unisce non si divida mai: tu sol per me vivrai, io per te sol vivrò. Coro.    Amor trionfi alfine accenda il nostro petto: fia giorno di diletto il giorno che spuntò 
 Tab. 5 Alternative al rondò finale di Gilda

Matteo Oscar Poccioni

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