Dramma per musica in tre atti anonimo,
da L’isola di Alcina musicata da Riccardo Broschi (Roma 1728)
Musica di Georg Friedrich Händel

Alcina Cecilia Bartoli
Ruggiero Carlo Vistoli
Morgana Lucìa Martìn-Carton
Bradamante Kristina Hammarström
Oronte Petr Nekoranec
Melisso Riccardo Novaro
Oberto Solista dei Wiltener Sangerknaben / Innsbruck
preparati da Johannes Stecher


Direttore Gianluca Capuano
Regia Damiano Michieletto
Scene Paolo Fantin
Costumi Agostino Cavalca
Luci Alessandro Carletti
Coreografia Thomas Wilhelm
Video Rocafilm/Roland Horvath

Les Musiciens du Prince – Monaco

Teatro del Maggio Musicale Fiorentino
Firenze, Auditorium Zubin Mehta, ottobre 2022

Un trionfo inimmaginabile è il risultato di questa memorabile esecuzione di Alcina, presa in prestito dal festival di Salisburgo. La nuova veste fiorentina migliora la performance con un nuovo notevole controtenore, Carlo Vistoli, e un palcoscenico più piccolo che esalta le scena di Paolo Fantin.  Nonostante le 4 ore e 10 minuti di esecuzione si è terminato con un bis del breve coro che chiude l’opera. Nella compagnia di canto spicca su tutti Cecilia Bartoli, mentre la direzione è affidata ad un mago della bacchetta, il maestro Gianluca Capuano che sfrutta al meglio il suono dell’Orchestra Les Musiciens du Prince-Monaco. Damiano Michieletto crea uno dei suoi capolavori, grazie ad idee vincenti sul piano visivo.   

Cecilia Bartoli entra in scena durante l’ouverture, dove le sue doti di maga vengono mostrate nel soggiogare ai suoi voleri molti uomini, interpretati da una decina di mimi che seguono Alcina come fosse un magnete.  La sua è un’Alcina che fin dall’inizio screzia la sua voce di melanconia e pathos, il suo amore è, fin dalle sue prime note, contrastato e sofferto. I moti dell’animo sono ben espressi e la sua voce strega non solo i personaggi dell’opera ma tutto il pubblico.  La sua aria del primo atto è lenta e concentrata un vero monumento. Nel secondo atto “Mio cor” è cantata con la massima perfezione esaltando al massimo la musica del sassone.

Carlo Vistoli crea un Ruggero sfaccettato e con una psicologia complessa. Il un timbro è immacolato e virile, capace d’agilità iridescenti ma anche di momenti più rarefatti. Lui chiude il primo atto con una aria di alta qualità “La bocca vaga”. Celeberrima “Verdi prati” nel secondo atto. Nell’ultima aria Ruggero deve fronteggiare il suono dei corni naturali e Carlo Vistoli esce vittorioso da questo pezzo di bravura.   
Lucía Martín-Cartón, ha un timbro non del tutto perfetto nelle regioni più acute. Apre l’opera con “O s’apre al riso” caratterizzato da una scrittura fiorita. Buoni anche i recitativi a cui Händel riserva particolare cura e sintesi.

Kristina Hammarström, ha un timbro un poco fanè e stanco. Una coloratura talvolta in affanno nella funambolica scrittura del compositore. Visivamente non ha alcuna grazia femminile ed risulta più credibile nel ruolo en travesti.

Peter Nekoranec, Oronte, ha gestito la difficile parte ottimamente, con timbro gradevole e linea di canto pulita. Le parti più ostiche della sua parte sono state risolte bene, e ha recitato con gusto. Bene anche l’affiatamento creato con Lucía Martín-Cartón, tale da far risultare verosimile la psicologia della loro coppia.

Riccardo Novaro ha dato a Melisso la giusta aura di austerità e rigore, nonché di sensibilità nei confronti della prediletta Bradamante. Il timbro scuro e avvolgente, la linea di canto quasi sempre pulita e corretta, uniti a un fraseggio giustamente marziale, ma non per questo privo di commozione laddove il personaggio la richiede, gli hanno permesso di ottenere il dovuto successo e riempire ampiamente la scena, grazie anche ad un innato signorile portamento.

La giovane voce bianca del Wilten Boys’ Choir di Innsbruck -di cui purtroppo non conosciamo il nome per probabili stringenti politiche sui minori- nelle giovani vesti di Oberto, ci ha lasciato senza parole: durante le sue apparizioni, intense ed espressive nonostante la giovane età, il controllo della voce ha fatto invidia a quello di cantanti in carriera; il timbro è sempre stato omogeneo; il controllo dei fiati, davvero difficile da gestire nelle sue parti ricche di patetismi e funambolismi vocali, quasi ineccepibili. Un vero talento, senza molti giri di parole, di cui sentiremo parlare (magari conoscendone finalmente il nome).

Sulla direzione di Gianluca Capuano c’è davvero tanto da dire, o poco, se ci si limita a qualche aggettivo mirato: moderna, pirotecnica, impressionante. Impressionante, per la scelta di tempi, mai fini a se stessi, per i volumi, coerenti e fondamentali nel far risaltare ogni aspetto dell’opera, per l’uso delle smorzature, da brividi, per come certe note venivano cadenzate, rinforzate e sottolineate.

Pirotecnica per le variazioni musicali, appannaggio solo di orchestre eccellenti, eseguite insieme ai cantati durante le riprese delle loro celebri arie, sempre in stile ma mai banali o ripetitive.

Moderna per i suoni prodotti dagli strumenti, ora descriventi ruscelletti, zefiri e spiriti, ora ululanti come spettri e fantasmi, ora affilati e insinuanti come frammenti di specchio e lame aguzze. Insomma, un autentico caleidoscopio di inaudita raffinatezza.

La regia di Michieletto, coadiuvato dalle eleganti scene di Paolo Fantin, immagina, con autentica originalità, l’isola di Alcina come una sorta di opprimente albergo, descrivendone di volta in volta spazi diversi, sempre moderni e di buon gusto, scuri, dominati da tubolari luci chiare, allucinate, che si alzano e abbassano lungo i lucidi muri neri. Al centro, a dominare la scena, una parete girevole trasparente, a specchio, che raddoppia e confonde, superfice spettrale ed ideale per le meravigliose proiezioni di Roland Horvath. A sinistra, su una delle pareti di fronte al pubblico, uno specchio ovale, illuminato in maniera inquietante dalle sapiente luci di Alessandro Carletti, si apre ad ogni entrata in scena di Alcina. Questo specchio, simbolo del potere della maga, nel momento dell’uccisione della protagonista alla fine dell’opera, sarà infranto sonoramente con un’ascia, presentata in scena fin dall’inizio dello spettacolo, con un forte colpo assestato da Ruggero. La parete girevole a quel punto si solleverà e scenderanno dall’alto decine di frammenti di vetro, appesi a fili trasparenti, mentre i personaggi principali intonano le battute finali. Questi e altri dettagli si potrebbero dare sull’idea registica di Michieletto, tali, però, da non restituire appieno la sua effettiva spettacolarità.

Tripudio, trionfo, grida, mani doloranti, sala tutta in piedi a suggello di uno degli spettacoli più memorabili ascoltati da me in undici anni di frequentazione del massimo teatro fiorentino.

Mattia Marino Merlo
Fabio Valmore Tranchida

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