FedoraSonya Yoncheva
La Contessa Olga SukarevSerena Gamberoni
Loris IpanovRoberto Alagna (15, 18, 21 ott.)
Fabio Sartori (24, 27, 30 ott. e 3 nov.)
De SiriexGeorge Petean
DimitriCaterina Piva
Un piccolo SavoiardoCecilia Menegatti / Rebecca Calobrisi (24, 27 ott.) / Gaia Passalacqua (30 ott. e 3 nov.)
DesiréGregory Bonfatti
RouvelCarlo Bosi
CirilloAndrea Pellegrini
BoroffGianfranco Montresor
GretchRomano Dal Zovo
LorekCostantino Finucci
NicolaDevis Longo (15, 18, 21, 27 ott.) / Giorgio Valerio (24, 30 ott. e 3 nov.)
SergioMichele Mauro (15, 18, 21, 27 ott.) / Alessandro Moretti (24, 30 ott. e 3 nov.)
MicheleRamtin Ghazavi
DirettoreMarco Armiliato
RegiaMario Martone
SceneMargherita Palli
CostumiUrsula Patzak
LuciPasquale Mari
CoreografiaDaniela Schiavone
Maestro del CoroAlberto Malazzi

Orchestra e Coro del Teatro alla Scala

Nuova produzione Teatro alla Scala

“Ceci n’est pas une Fedorà”: questa potrebbe essere l’epigrafe, di chiara matrice magrittiana, da porre a suggello, ironicamente ma non troppo, del nuovo allestimento di Fedora, ideato da Mario Martone per il Teatro alla Scala. Il regista, infatti, tanto in palcoscenico, quanto nel programma di sala, esplicita il suo intento di intrecciare l’opera di Giordano con quella di Magritte, poiché i quadri del celebre pittore surrealista sono come dei rebus in apparenza incomprensibili, a suo dire in maniera del tutto simile alla trama di Fedora, che è irrisolvibile finché tutti i pezzi non prendono il loro posto. Partendo da questa suggestione, Martone si ispira a opere come L’impero delle luci, Gli amanti e L’assassino minacciato per costruire le belle scenografie, curate dalla fidata collaboratrice Margherita Palli, e per elaborare movimenti scenici tali da riproporre una sorta di tableaux vivants magrittiani. L’idea, di per sé non deprecabile, si scontra purtroppo con un libretto molto connotato storicamente, con una musica moderna e in parte avanguardistica, ma tutt’altro che surreale, e con un lavoro sugli interpreti non all’altezza di altre produzioni del regista napoletano. Non mancano, certo, gli spunti suggestivi e cinematografici a cui Martone ci ha abituati, con scenografie mobili che si compongono e scompongono, tende che si aprono e chiudono a svelare o nascondere spazi scenici, luci azzeccate e sicuramente apprezzabili nel circoscrivere personaggi e avvenimenti; mancano tuttavia idee che riescano davvero a farci credere a ciò che succede in scena, a favorire la comprensione degli eventi e ad aiutare gli interpreti a calarsi al meglio nelle complesse psicologie delle loro controparti operistiche. La mia provocazione iniziale, mutuata dalla celebre opera del pittore, chiarifica bene lo straniamento provocato dall’osservazione di questo spettacolo: ascoltiamo Fedora come opera nel suo complesso, ascoltiamo e vediamo Fedora che canta e agisce come personaggio specifico, ma abbiamo comunque la sensazione di non starlo facendo realmente, come se quello che ci si propone di volta in volta fosse una falsificazione della realtà, un viaggio nella fantasia surrealista con le musiche di Umberto Giordano, e non la sua opera. Questo effetto, che all’inizio può stupire e incuriosire, alla lunga stanca, facendosi apprezzare più come esercizio artistico di indubbia qualità che come regia operistica geniale e d’effetto. I richiami alle opere di Magritte, come accennavo, sono molteplici, ma non riescono mai a cogliere nel segno: se gli spiriti di Wanda e Vladimiro, infatti, appaiono in scena come usciti da Gli amanti, e quindi col capo coperto da un velo bianco, destando curiosità, la composizione da L’assassino minacciato, poco prima del finale, non risulta efficace e rovina l’intimità delle ultime scene tra Loris e Fedora. Sono dunque comprensibili i forti dissensi, pur con qualche esclamazione positiva, alla fine della rappresentazione, epitaffio di uno spettacolo forse troppo cerebrale. Altrettanto comprensibile, ma non di buon gusto, Martone che saluta in maniera stizzita i contestatori, in veste di imitatore, con facce buffe annesse, dei buh piovuti dal loggione, tanto per rincarare la dose. Nelle repliche successive questi consensi non ci sono stati.

A una lettura registica che resta imbrigliata nelle sue stesse idee, corrisponde per fortuna una raffinata concertazione, per mano e bacchetta di Marco Armiliato, sensibile interprete della partitura di Fedora, senza per questo scadere in patetismi o svenevolezze inutili, ma capace anche di sottolineare le sonorità più dirompenti, col giusto equilibrio in un’opera che altrimenti potrebbe risultare stucchevole. Il direttore, infatti, conduce i cantanti con sé in maniera sicura, sostenendoli e aiutandoli, e guida la magnifica Orchestra del Teatro alla Scala, qui a livelli, se non perfetti, altissimi, con mano esperta, spingendo ogni sezione a dare il meglio. Paradigmatico in tal senso tutto il gioco sottile degli archi che sfocia nell’intermezzo, reso con la giusta malinconia e passionalità. Armiliato, in breve, è riuscito laddove la regia non ha brillato, permettendo ai cantanti e all’orchestra di recitare a far fluire le emozioni taciute in palcoscenico. La partitura di Giordano è prettamente sinfonica e ogni atto è diviso in movimenti sinfonici ben precisi e su questi si posa il canto. Il primo atto, diviso in 4 movimenti principali, si sviluppa come un appassionate giallo: Allegro Brillante, Presto-Moderato-Presto, Lento-Allegro. La confessione di Loris avviene su un assolo di pianoforte dando un effetto straniante. La canzone svizzera a inizio terzo atto ritorna alla fine a suggellare la morte di Fedora.

Sonya Yoncheva, nelle complesse vesti di Fedora, si è trovata ad affrontare una parte difficile, soprattutto per la sua vocalità. La partitura del ruolo insiste nel registro medio e grave, non permettendogli quindi di sfoggiare con maggior successo il registro centrale e acuto, in lei sempre sicuro e affascinante; l’artista è però intelligentissima, costantemente in parte e convincente per tutta la durata dello spettacolo, soprattutto dal punto di vista psicologico. Se nel primo atto tutto procede al meglio, in quelli successivi la situazione si complica, specialmente quando la voce scende e spinge dove la cantante ha più difficoltà, fino alle tremende frasi finali, in cui il soprano, in evidente affanno, tende a gonfiare e ingrossare i suoni bassi, a perdere smalto, a risultare poco raffinata e un po’ gutturale. Questa situazione inficia un poco la prova da considerarsi non ampiamente superata. Meglio aveva reso Stephana nella splendida Siberia di Giordano, due anni fa al Maggio Musical Fiorentino. Per lei successo caloroso, con qualche isolato ma significativo dissenso.

Serena Gamberoni, nelle fascinose vesti della contessa Olga Sukarev, è stata semplicemente splendida. La voce ricca, dal timbro personale e gradevole, molto sensuale e ricco di armonici, le ha permesso di descrivere una contessa brillante, piena di vita e passione, ma anche disillusa, soprattutto nell’ultimo atto, dove Martone la fa cantare in bicicletta e lei, spavalda, non solo pedala e gira per il palco, ma canta perfettamente, senza sbavature, stupendo e conquistando tutti. Fin dall scena della festa parigina è abilissima, insieme a Roberto Alagna, nel catalizzare l’attenzione, mostrando voce vertiginosa al pari dello spacco del suo bellissimo abito, unendo la vocalità a una recitazione misurata, elegante nel sedurre con sguardi e fascino timbrico. Per lei successo caloroso e certamente meritato.

Roberto Alagna, vendicativo e passionale Loris, lascia senza parole per freschezza vocale, bellezza del timbro, omogeneità in ogni registro, acuti squillanti e sonori, interpretazione assolutamente di rilievo, magnetica e totalizzante. Si può dire quanto si vuole che, data la carriera onerosa e l’età rilevante, la voce abbia perso un po’ di smalto e colore brunito, o che i pianissimi non sono presenti tutti all’appello, va detto e sottolineato, però, che questo non inficia minimamente una prova senza alcun dubbio maiuscola, sinonimo di salute vocale, di buona amministrazione delle proprie doti e di un dispiegamento di forze non indifferente, da far invidia a giovani cantanti con la metà dei suoi anni. Alagna riesce a rendere commovente, credibile e per nulla lezioso o svenevole, tutto il suo racconto sulla madre e la moglie fedifraga, a incidere nella orecchie del pubblico la sua celebre aria, cesellata finemente, senza inutili sfoghi vocali, a commuovere per le sue reazioni più della stessa Fedora morente. Che dire poi di tutta la grande scena del disvelamento delle sorti fraterne e materne, in cui il tenore passa dalla sete di vendetta alla pietà più assoluta, sia vocalmente che scenicamente, con mezze voci e gestualità studiata. Successo trionfale, dunque, per un cantante che lo merita tutto, fino all’ultimo battito di mani o “bravo”.

Alcuni giorni dopo abbiamo ascoltato Fabio Sartori che conferma la sua alta qualità di cantante. Esordisce nel secondo atto con frasi appassionate e sonore. Sartori è capace di sfruttare al massimo la duttilità della sua voce, smorzando e alleggerendo numerosi passaggi. Molto applaudito “Amor ti vieta” che pur nella brevità, caratteristica delle arie veriste, infiamma il pubblico. Il duetto appassionato che chiude il secondo atto mostra Sartori al pieno delle sue capacità.

George Petean, de Siriex, continua la sua scia di debutti in opere di Giordano, dopo la Siberia fiorentina di cui si è detto, convincendo e facendosi valere su un’orchestrazione che spesso lo mette a dura prova. Si ha l’impressione, tuttavia, che in certi momenti la voce abbia perso volume o che sia in difficoltà, specialmente nelle parti d’insieme, o quando la musica si fa violenta. L’interpretazione elegante e sentita, però, unita a un ottimo uso dei mezzi vocali, sostenuti da un timbro gradevole e funzionale, permette a Petean di superare la prova, soprattutto in un personaggio non propriamente centrale e forse un po’ sacrificato dalla regia disattenta. Anche per lui applausi convinti e sinceri.

Ottimo anche tutto il resto del cast: Caterina Piva, Dimitri, risulta precisa e puntuale, dalla bella vocalità, perfetta per un giovane cameriere, da ascoltare sicuramente anche in ruoli più centrali; Cecilia Menegatti, piccolo savoiardo, proveniente dal coro delle voci bianche diretto da Bruno Casoni, ha bella voce suggestiva e personale, etera e surreale, questa sì, per descrivere la sospensione del finale, mentre canta la montanina; Gregory Bonfatti è un sonoro e corretto Desiré; Carlo Bosi, Barone Rouvel, oramai una certezza, è sempre puntuale, preciso, professionale e in parte; Andrea Pellegrini, Gianfranco Montresor e Romano dal Zovo si distinguono bene e con gusto nelle rispettive parti di Cirillo, Borov e Gretch; bene anche Costantino Finucci, Lorek, come anche i coristi Devis Longo, Michele Mauro e Ramtin Ghazavi nelle parti di Nicola, Sergio e Michele.

Pieno successo per questa prima rappresentazione e per la recita con Sartori, suggello di molti ritorni, con uno inverosimilmente troppo atteso, sul palcoscenico scaligero (e italiano).

Mattia Marino Merlo (Teatro alla Scala-15 ottobre 2022)

Fabio Tranchida (27 ottobre 2022)

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