Dramma dì ambiente storico in 4 atti
Poesia di Luigi Illica
Musica di Umberto Giordano


Andrea Chénier Gregory Kunde
Maddalena di Coigny Erika Grimaldi
Carlo Gérard Roberto Frontali
Bersi Cristina Melis
La Contessa di Coigny Federica Giansanti
Madelon Manuela Custer
Roucher Vittorio Vitelli
Fouquier-Tinville Nicolò Ceriani
Pietro Fléville Stefano Marchisio
Mathieu Alessio Verna
Un Incredibile Bruno Lazzaretti
L’Abate Orlando Polidoro
Schmidt e Maestro di casa Luca Gallo
Dumas Luciano Leoni


Direttrice Oksana Lyniv
Regia Pier Francesco Maestrini
Scene e video Nicolas Boni
Costumi Stefania Scaraggi
Luci Daniele Naldi
Coreografia Silvia Giordano
Maestro del Coro Gea Garatti Ansini
Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna


La punta di diamante dell’Andrea Chénier, andato in scena per l’ultima volta la scorsa domenica al Teatro Comunale di Bologna, è stata senza alcun dubbio la compagnia di canto, che è riuscita, nonostante gli inauditi volumi orchestrali eretti dalla direttrice Oksana Lyniv, a scalfire, infrangere e superare lo spesso muro sonoro, in più di un caso al limite dell’assordante. Purtroppo con Andrea Chénier il rischio è proprio quello di calcare la mano, di sottolineare certi eventi con fragori e tessuti musicali di matrice wagneriana, cercando di stupire e sconvolgere, ma finendo solo per coprire le voci, appiattire ogni raffinatezza della partitura e far sussultare inutilmente lo spettatore sulla propria poltrona. Questo infausto copione, ahimè, è andato in scena a Bologna, dove la direttrice ucraina, al suo primo impegno operistico in forma completa nel Teatro Comunale, di cui è anche direttrice musicale, ha guidato l’orchestra in maniera precisa e puntuale, con una profonda analisi dal piglio evidentemente sinfonico, ma dai volumi talmente consistenti ed elevati che i solisti hanno seriamente rischiato di rimanerne in più di un caso sopraffatti, persino in quei passaggi dove le varie sezioni orchestrali lavorano a ranghi ridotti e ci si aspetterebbe maggior raccoglimento emotivo e sonoro. La direttrice, al netto di un’ipotetica e comprensibile mancanza di dimestichezza con la sala del Comunale e coi suoi intimi equilibri, ha lasciato la spiacevole sensazione di procedere spedita sul suo binario, facendo correre e fischiare il treno strumentale, noncurante delle voci, ma limitandosi a concedere attacchi e riducendo al minimo ogni aiuto ai cantanti in palcoscenico. Questa lettura così dirompente ed energica non ha contribuito ad elevare intellettualmente l’opera, spesso bistratta, o addirittura tacciata di essere fracassona e troppo “facile” nel concedersi al pubblico: ne è emerso, insomma, un film in bianco e nero, composto di pochi pianissimi e tanti forti e fortissimi, funzionali a sorprendere realmente solo in rari momenti, come nei finali d’atto o nelle grandi arcate musicali dei passi più celebri, per altro resi in maniera eccellente solo grazie al sontuoso cast, che se fosse stato di più bassa levatura sarebbe apparso in affanno o addirittura inadeguato.

Gregory Kunde, nelle romantiche e fiere vesti del poeta Andrea Chénier, lascia per l’ennesima volta senza parole: se è vero che la voce ha perso smalto e che le note più gravi appaiono poco timbrate e meno avvolgenti di un tempo, sia per ragionevoli motivi d’età che per anni di carriera colmi di successi, appena la voce sale, dal registro centrale fino a quello acuto, si resta stupiti per il controllo dei fiati e dell’intonazione, per il vigore e la precisione negli acuti, per la cura del fraseggio e del senso dato alla parola cantata. Già in “Un dì all’azzurro spazio” il tenore deve fare i conti col volume orchestrale e regolarsi al meglio per non affaticarsi inutilmente, riuscendo a cesellare la celebre aria senza alcuna sbavatura, giocando coi propri limiti vocali e sfruttandoli per rendere uno Chénier ancor più accorato e sinceramente sconcertato dal comportamento ipocrita degli aristocratici. La prova continua in crescendo, aumentando lo stupore del pubblico e intensificando sempre più il suo entusiasmo, come dimostrano i frequenti ed energici applausi a scena aperta: a partire dalla sua entrata, insomma, passando per il primo duetto con Maddalena, sino all’Improvviso e all’estremo dialogo alla fine dell’opera, Kunde commuove, appassiona e sbalordisce, sollevando boati, applausi, ovazioni da stadio durante le chiamate finali. Il tenore, visibilmente commosso, ha ringraziato il pubblico, e noi non possiamo far altro che ringraziarlo a nostra volta.

Roberto Frontali, appassionato Carlo Gérard, pur non apparendo al meglio i primi minuti dell’opera, evidentemente non supportato a dovere dalla direttrice, nel preciso momento in cui attacca “Son sessant’anni, o vecchio” allontana ogni dubbio, mostrando, sia scenicamente che vocalmente, ora rancore e passione, ora tristezza e disagio per la condizione in cui vivono lui e l’anziano padre. Il timbro personale, unito all’ottimo fraseggio e all’omogeneità di registro, gli assicura una prova in crescendo, che prende il pubblico un nota dopo l’altra e rende credibili le emozioni contrastanti di questo personaggio. “Nemico della Patria” sconvolge per la credibilità della recitazione e la cura degli accenti, mostrandoci un uomo disilluso dalla rivoluzione, ma ancora speranzoso, assicurando inoltre a Frontali uno degli applausi a scena aperta più sentiti di tutta la recita. Il dialogo con Maddalena, poi, che potrebbe sfociare in un effimero atto di tentata violenza, è sfaccettato a dovere, così come la difesa di Chénier di fronte al Comitato di Salute Pubblica, commovente e vocalmente ineccepibile. Ci troviamo anche qui di fronte a una prova maiuscola, capace di fare breccia nella pesante orchestrazione, che specialmente nelle scene con Gérard diventa davvero diabolica. Per lui vere e proprie ovazioni alla fine dell’opera.

Erika Grimaldi, al suo debutto nel ruolo di Maddalena, non potrebbe impressionare di più per studio del personaggio e bellezza del timbro, dal colore pastoso e avvolgente, piacevole in ogni registro, anche in quello più basso, su cui la parte spesso insiste, e che mette in difficoltà più di un celebrato soprano. Ma non lei. La Grimaldi, infatti, non deve ricorrere a sgradevoli note gutturali da virago, rimanendo sempre dolce e innamorata, con una certa dose di sensualità anche nei momenti più difficili, tratteggiando una Maddalena padrona del proprio destino, forte di un registro acuto splendente e rigoglioso, e di uno centrale che è un piacere per le orecchie. Tutta la grande scena che conduce a “La mamma morta”, cantata con rara intensità e bellezza, rapisce e commuove senza riserve, liberando il pubblico in un fragoroso applauso catartico colmo di “brava”. Insieme a Kunde ci regala duetti memorabili, e anche quando non canta o pronuncia poche frasi l’immedesimazione nel personaggio è totale: la voce rotta dal pianto e un leggero tremore nel momento in cui Schmidt la chiama per il patibolo sono quei dettagli che fanno apparire grande un’interpretazione. Posso dire con piacere che si tratta di una Maddalena tra le più riuscite del panorama operistico internazionale odierno. Anche per lei, ovviamente, applausi al calor bianco durante le chiamate finali.

Ottima anche la Bersi di Cristina Melis, che sfoggia un bel timbro mezzosopranile ed è capace di sottolineare ogni suo intervento con dovizia di accenti e adesione al personaggio, non propriamente centrale, ma comunque motore fondamentale anch’esso della narrazione.

Bene e in parte Federica Giansanti, nelle vesti della Contessa di Coigny, che nonostante la poca credibilità come madre di Maddalena, dovuta principalmente all’età, riesce comunque a dare un certo senso di anzianità e spocchia tipiche del ruolo.

Anche il folto gruppo di cantanti maschili ha brillato per precisione e coinvolgimento nella rappresentazione: vigoroso e sonoro il Roucher di Vittorio Vitelli; in parte e preciso Nicolò Ceriani come Fouquier-Tinville; davvero piacevole e interessante, sia vocalmente che scenicamente, il Pietro Fléville di Stefano Marchisio; ottimo anche il Mathieu “Populus” di Alessio Verna, così come l’Incredibile di Bruno Lazzari; giustamente svenevole ed ipocrita l’Abate di Orlando Polidoro; funzionali e corretti Luca Gallo come Schmidt e maestro di casa, e Luciano Leoni nelle vesti di Dumas.

Menzione speciale per la Madelon di Manuela Custer: il personaggio della vecchia madre senza più figli, di solito stucchevole e, a parer mio, poco ricevibile oggi, pur con tutte le attenuanti del caso, in questa recita è stato tratteggiato al meglio, rendendo credibile una nonna che manda il nipote a morire per la patria con certe frasi un po’ troppo retoriche. Per la Custer missione impossibile superata appieno.

Eccellenti le prove dell’Orchestra del Teatro Comunale e del Coro, istruito molto bene dal maestro Gea Garatti Ansini.

La parte visiva, affidata a Pier Francesco Maestrini, ha convinto pienamente: il regista, infatti, elabora per il primo quadro una sorta di cornice dorata, a circoscrivere gli aristocratici e i loro futili passatempi, con sullo sfondo una gradevole proiezione paesaggistica settecentesca, animata durante la scena pastorale, quasi fosse la tela della suddetta cornice. Alla fine dell’atto la tela brucerà e la cornice, con movimenti invero prevedibili, inizierà a crollare, segno che la Rivoluzione ha colto nel segno. Nei quadri successivi resterà solo la base del quadro, nascosta tra detriti e rovine di ogni genere, messi lì a inghiottire e “macchiare” gli altri elementi scenici simbolici: una scultura ricordante Marat, un cembalo, degli scranni, alcune fioche lanterne e, mi vien da dire, gli stessi protagonisti. Utilissime e davvero bene fatte le proiezioni interattive di Nicolas Boni, a dimostrare che ci si può avvalere di esse con buon gusto e ragionevole funzionalità: nel secondo quadro specialmente, i cantanti e gli attori in scena interagiscono con quelli registrati nelle proiezioni, restituendo davvero l’idea di una Parigi brulicante, agitata, malvagia e avvinta dalla Rivoluzione, fatta di stupri, violenze e distruzione. Il terzo quadro, classico nell’impostazione e nelle strutture tipiche del tribunale rivoluzionario, colpisce per i movimenti delle masse artistiche e per il gioco di luci di Daniele Naldi, abile nel sottolineare i momenti topici per tutta la durata dell’opera. L’ultimo quadro, con un’enorme grata a dividere il proscenio-carcere dal resto del palco-cortile di Saint Lazare, su cui domina una ghigliottina, è semplice nell’impostazione dei movimenti dei cantanti ma efficace nella resa, specialmente degli ultimi momenti in cui Andrea e Maddalena s’avviano verso il patibolo, recitati col noto cliché del “rallentatore”, ma di sicuro effetto se sfruttato e dosato con gusto, come in questo caso. Una regia quindi, anche nei piacevoli costumi di Stefania Scaraggi, classica, in linea con l’epoca degli eventi, ma affascinante e cinematografica, sia nei fermo-immagine alla fine di ogni atto che nella recitazione misurata, tale però da non risultare mai sciatta o lasciata al caso.

Mattia Marino Merlo – Teatro Comunale di Bologna, domenica 23 ottobre 2022

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