Dramma lirico in quattro parti su libretto di Salvadore Cammarano
tratto dal dramma El Trovador di Antonio Garcìa Gutiérrez
Musica di Giuseppe Verdi

Il Conte di Luna Amartuvshin Enkhbat
Leonora María José Siri
Azucena Ekaterina Semenchuck
Manrico Fabio Sartori
Ferrando Riccardo Fassi
Ines Caterina Meldolesi
Ruiz Alfonso Zambuto
Un vecchio zingaro Davide Piva
Un messo Joseph Dahdah

Maestro concertatore e direttore Zubin Mehta
Regia Cesare Lievi
Scene e costumi Luigi Perego
Luci Luigi Saccomandi
Coro e Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
Maestro del Coro Lorenzo Fratini

Il trovatore è un’opera notturna, […] buia e disperata. I personaggi si muovono in un paesaggio desolato, senza futuro, senza vita, imbrigliati in un destino di morte. […] Il passato ritorna. La madre ritorna: è senza quiete e tormenta la mente di ognuno. Sdoppia e raddoppia la realtà (da una parte il presente, dall’altra il passato; da una parte il reale, dall’altra l’immaginario), ma non le basta: fonde, confonde, e la vita diventa un magma. Le distinzioni spariscono. Visione e realtà coincidono. Conscio e inconscio si intrecciano e si annullano. È il caos. Il fuoco vero: la (il) fine.”

Queste parole, ovviamente non mie, ma approntate dal regista Cesare Lievi per il programma di sala, alleggeriscono, si fa per dire, il nostro lavoro, poiché da sole si autoaccusano, e per di più autoaccusano chi le ha scritte, della natura criptica, caotica, sorprendentemente grigia e povera dell’idea registica di questo Trovatore. Davvero si potrebbe perdere non poco tempo, e occupare buona parte della recensione, per elencare tutte le trovate lambiccate e cervellotiche che caratterizzano lo spettacolo proposto in questi giorni a Firenze, ma forse è meglio, per rendere maggiormente l’idea, citare i numerosi “figuranti speciali”, come definiti nella locandina, che hanno recitato accanto ai protagonisti veri e propri: la madre di Azucena, che ovviamente non poteva mancare, aleggiante in palcoscenico come spettro terribile dall’inizio sino alla fine dell’opera, di volta in volta apparendo come il vero motore della narrazione, come colei che guida e condiziona le scelte dei personaggi del presente (e risparmio i dettagli sul doppio che pure lei possiede, a rendere ancora più contorta la vicenda); i doppi, bambini, perché così il cliché è completo, di Manrico e del Conte di Luna, tra l’altro incomprensibilmente sfruttati anche per sdoppiare Leonora e Manrico durante la scena delle nozze, insieme all’onnipresente madre di Azucena che ne porta via uno, munito di velo da sposa oltretutto, a rappresentare la sua volontà di interferire “modus spectri” con la felicità di uno dei figli del Conte padre; una figura femminile cadaverica, vestita da sposa in abiti sdruciti, che forse rappresenta il doppio di Leonora, e che più tardi personificherà lo spirito della donna avvelenata, anche se persistono dei dubbi, visto che mentre la si vede rovistare in una carrozzina abbandonata in scena ci viene quasi il dubbio che sia la madre di Manrico e del Conte: immaginate la chiarezza; vari carnefici, che di volta in volta torturano, trascinano, legano bambini e streghe; suore come se piovesse, soprattutto nelle scene finali, quasi fossero delle prigioniere che il Conte e i suoi sgherri hanno raccolto dal convento del secondo atto, dove Leonora desiderava darsi a Dio. Insomma, un guazzabuglio cui ancora stento a dare un senso, il tutto contornato da un lavoro approssimativo sui cantanti e la loro recitazione, con scene senza nessun interesse estetico fatte di pareti grigie, ferrigne, decorate con panche, letti rugginosi sbilenchi, scrivanie munite di sedie girevoli, con solo qualche gioco di luce a catturare l’attenzione. I costumi poi, novecenteschi, dalle smorte tonalità, uniti alla scenografia, hanno fatto pensare e dire a molti che il regista avesse fatto un Trovatore “coi nazisti e i tedeschi”. Tutta la compagine di Cesare Lievi è stata sonoramente fischiata, col pieno sostegno di chi scrive.

Il versante musicale, specialmente quello canoro, ha portato in vita, per fortuna, il vero dramma che è Il trovatore, fornendo quella coerenza che alla vista è mancata totalmente, grazie soprattutto a un’Orchestra del Maggio Musicale che con Zubin Mehta entra in stato di grazia, producendo sempre suoni puliti, ricchi e avvolgenti. Il direttore, infatti è amato incondizionatamente da tutti, soprattutto dal pubblico, che alla fine lo dimostra tributandogli ovazioni da stadio. Qui però, spiace dirlo, bisogna essere obbiettivi, e i tempi di questo Trovatore sono parsi tutt’altro che coerenti col dettato verdiano, musicale e drammaturgico. La lentezza dominante, infatti, con quel senso straniante dato da un dilatamento delle agogiche quasi sinfonico, ha dominato l’interpretazione del maestro fin dall’inizio, mantenendosi tale per quasi tutta la recita, a eccezione di rari casi dove la narrazione musicale acquistava più ritmo, alleggerendo non poco il lavoro dei cantanti e facendo presa sul pubblico. Le spiegazioni di tali scelte potrebbero essere molteplici, magari non pienamente musicali, lasciandoci così la sensazione di una stanchezza dominante, di un allentarsi del dramma che perde forza, soprattutto in quei meravigliosi concertati dove un piglio più rapido e deciso creerebbe emozioni magiche. Sicuramente le oasi liriche si adattano molte bene a questa chiave di lettura, che però mette a rischio la tenuta vocale dei cantanti e talvolta crea degli scollamenti tra buca e palcoscenico piuttosto evidenti, come nell’attacco del coro dei gitani, in cui l’eccellente e sempre impeccabile Coro del Maggio Musicale istruito da Lorenzo Fratini, si smarrisce per qualche secondo, oppure quando Leonora attacca con rapidità “Tu vedrai che amore in terra”, costringendo Mehta a raggiungerla e velocizzare i tempi per pochi attimi. Il maestro, nonostante questi limiti, riesce però a soddisfare l’orecchio con una gestione delle timbriche magistrale, curando ogni singola parte dell’orchestra e creando una sorta di poema sinfonico sulle note del Trovatore, con la stessa cura del suono che impiega nelle sue esecuzioni mahleriane, ancora eseguite a memoria.

María José Siri, nelle vesti di Leonora, forte di un bel timbro rotondo, corposo e omogeneo, ci restituisce l’immagine di un’amante forte, dolce e sensibile allo stesso tempo, arricchendo la sua interpretazione man mano che l’opera si sviluppa, con pianissimi ben emessi, mezze voci che rapiscono e acuti sicuri, saldi e d’effetto. Nell’ultimo atto specialmente, con tutta la scena che va da “D’amor sull’ali rosse” fino a “Tu vedrai che amore in terra”, passando per lo splendido Miserere, vince e convince, sia come cantante che come attrice, fraseggiando con trasporto e precisione, nonostante la regia priva di qualsiasi guizzo l’abbandoni a se stessa, assicurandosi uno degli applausi a scena aperta più calorosi della serata, bissati durante le finali chiamate alla ribalta.

Fabio Sartori, Manrico poetico, ha la voce adatta per fare coppia con quella dell’amata Leonora. Se infatti lo squillo e gli acuti non sono sempre irreprensibili, il lirismo del suo timbro, omogeneo e personale, unito a un fraseggio curato e attento, tratteggiano un trovatore molto più poeta che guerriero, maggiormente a suo agio nel canto spianato, dove si dimostra avvolgente e appassionante. Anche per lui le parti migliori si trovano nella seconda parte dello spettacolo, con un “Ah sì, ben mio” ottimamente calibrato tra passione amorosa e impeto battagliero, e con un finale eccellente davvero avvincente, sia nell’estremo dialogo con la madre che in quello con Leonora (d’effetto non comune l’attacco di “Ha quest’infame l’amor venduto”). Applausi festosi e convinti per il tenore alla fine della recita.

Amartuvshin Enkhbat, straordinario Conte di Luna, trionfa sia a scena aperta che alla fine dell’opera, offrendoci una prova maiuscola. Il timbro è sempre personale, caldo, avvolgente e pastoso, il colore brunito e scuro al punto giusto, il volume di potenza sorprendente. Non si riesce a trovare qualcosa che non vada, e se in questo caso la regia non lo aiuta a risultare più incisivo dal punto di vista attoriale, le prodezze della voce descrivono un Conte di Luna particolarmente sofferente, capace di mezze voci timbrate e acuti svettanti che hanno fatto impallidire più di un mio vicino di posto. “Il balen del suo sorriso” commuove davvero e ci porta, come notato argutamente da un signora fin troppo rumorosa durante la recita, a soffrire per quello che dovrebbe essere il “cattivo”. Ovazione dopo la sua aria più celebre e trionfo alle chiamate finali.

Ekaterina Semenchuck, Azucena spaventosa nell’accezione più alta del termine, si conferma artista dalle grandi doti recitative e musicali, restituendoci una madre-strega diabolica e affettuosa a un tempo. Il timbro bello e personale, omogeneo in ogni registro nonostante perda un po’ di armonici nelle zone più basse, ha i suoi punti di forza nei centri e negli acuti, sempre sicuri, saldi ed estremamente teatrali. “Stride la vampa” le dà l’occasione per dare sfoggio di queste peculiarità ma è nel “Condotta ell’era in ceppi” e nel duetto col Conte che davvero spaventa, fraseggiando in maniera quasi impeccabile e ponendo l’accento su certe frasi da vera artista. Sicuramente il suo è stato uno dei personaggi più curati dalla regia e ne ha giovato tutta la costruzione psicologica, come hanno dimostrato i sentiti e calorosi applausi finali.

Riccardo Fassi, spietato e diabolico Ferrando, conferma ancora una volta la bellezza del timbro, la cura del fraseggio e la straordinaria musicalità. Il personaggio che interpreta, tutt’altro che secondario, acquista con lui una rilevanza quasi da coprotagonista: il suo “Di due figli vivea padre beato”, oltre che vocalmente impeccabile, ci trascina nella follia della narrazione che sta per squadernarsi davanti ai nostri occhi; ogni suo intervento poi, sino a quello con cui svela l’identità della zingara, attira l’attenzione, portando lo spettatore a seguirlo con lo sguardo e con le orecchie. Davvero cosa non da poco per un ruolo che spesso è affidato a voci inesperte. Per lui successo caloroso e sincero alla fine della recita.

Molto ben assortito anche il resto del cast: Caterina Meldolesi è un’Ines sonora, di buon gusto e dalla linea di canto pulita e piacevole; Alfonso Zambuto si dimostra più che corretto e funzionale nei panni di Ruiz; Davide Piva e Joseph Dahdah svolgono bene i brevi ruoli rispettivamente del vecchio zingaro e del messo.

Mattia Marino Merlo – Maggio Musicale Fiorentino, 29 settembre 2022

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