Dramma lirico in quattro parti su libretto di Salvadore Cammarano
tratto dal dramma El Trovador di Antonio Garcìa Gutiérrez
Musica di Giuseppe Verdi
Manrico Angelo Villari
Leonora Anna Pirozzi
Conte di Luna Simon Mechlinski
Azucena Enkelejda Shkoza
Ferrando Alessandro Della Morte
Ruiz/Un messo Davide Tuscano
Ines Ilaria Alida Quilico
Un vecchio zingaro Chuanqi Xu
Direttore Sebastiano Rolli
Maestro del coro Martino Faggiani
Filarmonica Arturo Toscanini
Coro del Teatro Regio di Parma
Regia Elisabetta Courir
Scene Marco Rossi
Costumi Marta del Fabbro
Light designer Gianni Pollini
Coreografie Michele Merola
È innegabile che la musica di Giuseppe Verdi, specialmente nel caso del Trovatore, possieda l’abilità intrinseca di donare un senso profondo di verità e credibilità alla narrazione di eventi incredibili, grazie a una partitura che dialoga col passato e con la tradizione, riuscendo a convincerci che una madre, in preda alla follia vendicatrice, possa davvero immolare il proprio figlio anziché quello del nemico, e dare così il via a una serie di improbabili rivolgimenti. Ebbene, Verdi ci riesce perfettamente, regalandoci un’opera ricca di spunti tematici e dalla fama imperitura. Chi dirige Il trovatore deve quindi riuscire, da par suo, a trovare un equilibrio formale che permetta alla narrazione di funzionare, salvaguardando musicalità, teatralità e rispetto della partitura: compito enorme e non facile se poi, come in questo caso, il versante registico deficitario e latitante rende il lavoro più periglioso, offrendo al direttore uno spettacolo vuoto, quasi in forma di concerto. Sebastiano Rolli decide di affrontare la partitura con volontà filologica, restituendocela completa di ogni nota e con tutti i da capo, come è giusto che sia per un festival dedicato a Verdi, venendo a patti anche con la tradizione e perciò senza escludere a priori le controverse puntature a cui ci hanno abituati la maggior parte delle rappresentazioni. La questione, però, porta con sé qualche dubbio, poiché ci è parso che almeno in un caso, ovvero per il celebre do della Pira, siano state disattese le indicazioni del maestro, che in più di un’occasione, come nel programma di sala, aveva espresso la volontà di eseguire un Trovatore asciutto, senza rischiosi acuti, con ogni parola al posto giusto. Può darsi che nel corso delle recite successive cambi qualcosa, oppure semplicemente si riproponga quanto già ascoltato. Al netto di queste considerazioni, il direttore firma una direzione chiara, anche precisa e puntuale, ma priva di mordente, che conduce in porto con onore la serata, senza però far trapelare troppi guizzi interpretativi. Il rispetto totale della partitura, strano a dirsi, non è mai facile, non perché sia impresa impossibile interpretare lo scritto verdiano, quanto più per la difficoltà di unire tale rispetto a una visione drammaturgica e teatrale coerente. Sebastiano Rolli è in grado di controllare la partitura e di curarne i dettagli, nonostante lavori con un’orchestra, la Filarmonica Arturo Toscanini, a ranghi necessariamente ridotti, data la misura esigua del golfo mistico, e non sempre a fuoco, in alcuni casi poco in sintonia coi cantanti in palcoscenico. Una prova, insomma, non del tutto convincente, animata però da una certa logica interpretativa che permette al direttore di far quadrare i conti e raccogliere i consensi del pubblico, pago di una serata soddisfacente.

Anna Pirozzi, arrivata a sostituire l’indisposta Silvia Dalla Benedetta nel ruolo di Leonora, nonostante le prevedibili esigue prove per questo Trovatore, raccoglie la sfida e ci conferma di avere davanti un’artista a tutto tondo. La sua Leonora, decisamente romantica e infuocata sia per potenza vocale che per temperamento da donna padrona del suo destino, si discosta dalla figura angelica dell’innamorata in balìa degli eventi, forte di una voce ampia, quasi troppo per il piccolo teatro di Fidenza, ma dosata al meglio, caratterizzata da acuti svettanti e da un registro centrale corposo e avvolgente. Il soprano, però, coglie anche le sfumature liriche del personaggio, emettendo pianissimi e filati che rapiscono per precisione e raffinatezza, impreziosendo le riprese delle cabalette con variazioni curate e in linea con la visione del direttore. Spiace vederla relegata in posizioni statiche, causa l’idea registica anti-teatrale, soprattutto in quei momenti dove il contatto coi colleghi in scena potrebbe giovarle ancor di più dal punto di vista interpretativo. Nonostante questo, riesce con la voce e con gli sguardi laddove non arriva la regista, e trionfa sia alle chiamate finali che dopo “D’amor sull’ali rosee”, affascinante, e “Tu vedrai che amore in terra”, ricco di trasporto e passione.
Angelo Villari, Manrico di razza, tratteggia un trovatore eroico e romantico allo stesso tempo, sfoggiando una voce dal colore tipicamente italiano, fascinoso e avvolgente, con uno squillo sicuro e un fraseggio ricco e appassionato. Il tenore, versato particolarmente nel repertorio verista e pucciniano, in cui ha accumulato notevoli successi, affronta la sua difficile parte con gusto e partecipazione, spiccando particolarmente nei momenti più lirici con un “Ah sì, ben mio” etereo e ricco di pathos, giocato sulle sfumature e sulle mezze voci, non privo di quel piglio eroico che rende Manrico poeta e guerriero. Se la Pira, con un do finale non pienamente centrato, è corretta ed eccitante, i duetti con la madre e il finale sono indimenticabili, naturalmente capaci di assicurargli pieno successo. Mi permetto un appunto, a mio avviso più che lecito: Villari è un tenore che meriterebbe senza riserve anche i palcoscenici più blasonati, avendo dato prova in svariate rappresentazioni di grande bravura e ottima musicalità, per giunta in ruoli estremamente difficili, laddove anche colleghi ben più celebri sono caduti o hanno arrancato. Per lui pieno successo alla fine dell’opera.
Simon Mechlinski, il Conte di Luna, possiede uno strumento vocale interessante e da tenere sicuramente d’occhio, ma il personaggio è da rifinire e l’emissione da migliorare. Se all’inizio la voce sembra essere affetta da un lievissimo vibrato, quando il baritono si scalda e la rappresentazione prende il volo, il timbro appare più brunito e avvolgente, con un’estensione in acuto ragguardevole. Anche i pianissimi ci sono, il fraseggio, però, merita più cura, come l’articolazione della pronuncia italiana, sicuramente perfettibile. Si capisce, insomma, che ci sono tutte le possibilità per scolpire un Conte di Luna efficace, ancora acerbo ma già apprezzabile.

Enkelejda Shkoza, la zingara Azucena, sostituisce l’indisposta Rossana Rinaldi, molto più dentro al personaggio dal lato interpretativo che vocale. Il timbro, invero non totalmente privo di pregi, appare usurato, con una certa antichità di fondo. Se questo può giovare all’interpretazione di una vecchia madre errabonda, non aiuta dal punto di vista musicale, con un’emissione disomogenea e certe frasi musicali più parlate che cantate. Come dicevo, l’artista è credibile e porta a termine la serata grazie una partecipazione evidentemente sentita, ma il personaggio è anche sfoggio di timbro mezzosopranile caldo e avvolgente, nella Shkoza, però, purtroppo pericolante e stanco.
Alessandro della Morte, Ferrando, ha timbro gradevole ma a tratti disomogeneo, un po’ acerbo per questa parte nient’affatto di contorno. Si nota uno studio sul personaggio diligente e attento, non sempre corrisposto a dovere dal fraseggio, che deve essere approfondito e messo a punto. Resta comunque una prova corretta, da rifinire, sì, ma con un buon materiale di partenza.
Molto bene gli altri interpreti: efficace e musicale l’Ines di Alida Ilaria Quilico; sonoro e funzionale Davide Tuscano nel doppio ruolo di Ruiz e di un messo; puntuale, ma dal fraseggio perfettibile, Chuanqi Xu nei panni di un vecchio zingaro.
Prova sublime e impeccabile quella del Coro del Teatro Regio di Parma, fine conoscitore della parte, abilissimo sia nelle vesti di zingari che in quelle di soldati. Gestisce bene ogni suo intervento, cantando con precisione e partecipazione, mostrandosi sempre professionale e sicuro. Applausi calorosi sia per loro che per il maestro Martino Faggiani alle chiamate finali.

Sul versante registico, paradossalmente, sarebbe bello poter proferire tre parole: regia non pervenuta. E invece la regia, senza esserci, riesce comunque a impoverire e scarnificare la meraviglia del Trovatore. Poche volte accade di assistere a uno spettacolo così povero, triste e privo del benché minimo fascino. La scena è sempre nera e oscura, fredda e mortuaria, le luci non aggiungono niente, limitandosi ad illuminare personaggi e zone del palco, arricchite, si fa per dire, da tribune in legno scuro, francamente brutte. I costumi sono anonimi, grigi e dal gusto polveroso, la cura della recitazione assente e lasciata al gusto dei cantanti. Solo il coro ha qualche momento in cui pare seguire un’idea interpretativa, comunque sempre povera e insensata. Leonora, costretta in posizioni plastiche di dubbio gusto, ha un suo doppio in una giovane donna che recita per lei interagendo coi protagonisti, privando l’opera di tutto il fascino derivante dalla passione amorosa e dal contatto tra i personaggi. Meglio tacere l’uso stucchevole di gigli bianchi finti, sparsi per la scena, e di una rete, piena di tali fiori, calata improvvisamente dall’alto nel bel mezzo della rappresentazione, tanto simile a qualcosa che si può trovare in una nota catena di mobilifici. L’unica cosa opportuna sarebbe stata quella di lavorare sugli interpreti, ma, ahimè, non è successo, preferendo investire risorse inutilmente, azzoppando l’intero spettacolo. Leciti dissensi alla fine della recita per tutta la compagine registica, forse fin troppo contenuti.
Mattia Marino Merlo – Teatro Girolamo Magnani di Fidenza, 24 settembre 2022