Melodramma in quattro atti su libretto di Francesco Maria Piave dal dramma Don Alvaro o La fuerza del sino di Àngel de Saavedra, duque de Rivas
Musica di Giuseppe Verdi
Maestro concertatore e direttore Roberto Abbado
Regia, scene e costumi Yannis Kokkos
Donna Leonora Liudmyla Monastyrska
Don Alvaro Gregory Kunde
Don Carlo di Vargas Amartuvshin Enkhbat
Padre guardiano Marko Mimica
Fra’ Melitone Roberto De Candia
Preziosilla Annalisa Stroppa
Mastro Trabuco Andrea Giovannini
Il Marchese di Calatrava Marco Spotti
Curra Natalia Gavrilan
Un alcade Jacobo Ochoa
Un chirurgo Andrea Pellegrini
Drammaturgia Anne Blancard
Luci Giuseppe di Iorio
Movimenti coreografici Marta Bevilacqua
Projection Designer Sergio Metalli
ORCHESTRA E CORO DEL TEATRO COMUNALE DI BOLOGNA
Maestro del coro Gea Garatti Ansini
Nuovo allestimento del Teatro Regio di Parma
In coproduzione con Teatro Comunale di Bologna, il Teatro Massimo di Palermo, Opéra Orchestre National Montpellier Occitaine
La forza del destino, nella sua seconda versione milanese del 1869, apre l’edizione XXII del Festival Verdi, forse convincendo gli spettatori più scaramantici, una volta di più, che l’innominabile opera verdiana porta quasi sempre con sé degli eventi non proprio favorevoli: mi riferisco alle forti rimostranze e contestazioni, sulla cui giustezza non entro nel merito, rivolte al direttore Roberto Abbado, accolto sul podio in mezzo a fischi, grida di dissenso e pure qualche poco elegante invito a tornarsene a Bologna, come se fosse il solo e sommo colpevole della presenza del coro e dell’orchestra bolognesi per l’inaugurazione del festival verdiano, che invece, a detta dei contestatori, dovrebbe garantire la presenza delle maestranze del luogo, indipendentemente da ogni scelta amministrativa, politica od organizzativa. Al di là delle amare sensazioni che può lasciare questo clima teso, in cui s’invita a tenere giù le mani dal Regio pure con uno striscione affisso in prossimità dell’entrata, ha prevalso e trionfato la musica del Maestro, com’era giusto e auspicabile che fosse, per altro mirabilmente diretta da Roberto Abbado, con buona pace dei suoi detrattori.
Il direttore d’orchestra, infatti, mostra senza riserve di aver studiato a fondo la partitura, e nonostante sia la sua seconda volta alla direzione completa dell’opera, dà l’impressione di averla sempre avuta ben in mente. Lo stesso direttore, nel programma di sala, afferma di essersi impegnato molto per questa nuova rappresentazione, ripartendo da capo nello studio delle partitura: la profondità con cui l’ha ri-affrontata è palese. Sin dall’inizio si percepisce un senso drammaturgico forte, con una scelta dei tempi ideale per la Sinfonia più celebre di Verdi, fatta di tragici scatti repentini, momenti lirici annunciatori di un amore destinato alla sofferenza, mai eseguita con troppo impeto o troppa mollezza, risultando equilibrata e ricca di pathos. Il resto della serata è in crescendo, mosso sempre da uno studio delle dinamiche e delle agogiche pulito, chiaro e soprattutto molto teatrale, arrivando a risolvere quei momenti più delicati dove l’idea registica latita. Davvero ammirevole la gestione dei duetti, sia tra il Padre Guardiano e Leonora che tra Alvaro e Carlo, per fare degli esempi. Emerge inoltre evidente un grande lavoro fatto con i cantanti, per aiutarli a scolpire meglio la parola, come ho potuto notare in almeno due dei protagonisti, Amartuvshin Enkhbat e Annalisa Stroppa, già ascoltati in quest’opera un anno fa e decisamente cresciuti nell’interpretazione dei loro difficili ruoli. Insomma, come già avevo preannunciato, Roberto Abbado ha trionfato nonostante tutto, dimostrando di non essersi lasciato minimamente turbare dalla contestazioni, forte anche dell’Orchestra e del Coro del teatro comunale di Bologna, che hanno suonato e cantato molto bene, trionfando e coprendo ogni strepito rivoluzionario.

Liudmyla Monastyrska, nelle vesti di Leonora, svolge correttamente la parte senza però aggiungere molto. La voce è ampia ed estesa, ma con un timbro privo di fascino, forse poco adatta alle sofferenze di Leonora nonostante il tonnellaggio ragguardevole, mostrando a tratti il fianco sia a difficoltà di emissione che a un’articolazione delle vocali non irreprensibile. L’inizio è in sordina, riscattato in parte nel duetto con Alvaro; la Vergine degli Angeli ha quell’eterea sensazione che ci si aspetta di solito, mentre l’aria finale “Pace, pace mio Dio” scorre via senza lasciare grandi sensazioni, sia per interpretazione che per linea di canto, non sempre omogenea e troppo improntata sul forte. Il finale la vede più partecipe e molto probabilmente le permette di incontrare il favore del pubblico, fatto sia di appassionati che di neofiti, come ho avuto modo di constatare personalmente. Per lei grande successo, con una spaurita contestazione nel corso della rappresentazione.
Gregory Kunde trionfa senza riserve debuttando, leggete bene, nell’ingrata e difficile parte di Don Alvaro. Chi scrive lo ha ascoltato la prima volta dieci anni fa e dopo tutto questo tempo rimane sconvolto di fronte all’ennesimo miracolo che il tenore è riuscito a compiere: si ha l’impressione, nonostante gli anni anagrafici e le ovvie modifiche e asperità di una voce non più giovane, che poco o nulla sia mutato nella gestione dei fiati e nel registro acuto sfolgorante, come nella grande capacità attoriale e nel fraseggio misurato, studiato e mai fine a se stesso. “Oh tu che in seno agli angeli” ci porta in un’altra dimensione e gli assicura una grande ovazione a scena aperta. Tutta la parte, comunque, è cantata con sicurezza e senza sbavature, specialmente nei duetti e nel duello finale con Alvaro, davvero commoventi e pieni di una baldanza vocale sconvolgente. Per lui meritatissimo successo trionfale.
Amartuvshin Enkhbat, perfido e inesorabile Don Alvaro, sfoggia una voce di inaudita bellezza, rotonda, ampia, ricca di armonici, omogenea in ogni registro, unita a un controllo dei fiati e a una musicalità esemplari. Il baritono, già ascoltato nella parte a Firenze lo scorso anno, non solo è cresciuto dal punto di vista interpretativo, ma pure da quello vocale, rifinendo ulteriormente il fraseggio e consegnandoci un’ “Urna fatale” memorabile per cura della linea di canto e totale immersione nel personaggio. Anche nei duetti e nelle scene di scontro con Alvaro la voce fa a gara in bellezza con lo squillo del tenore, mostrando un lavoro attoriale credibile. Tutta la scena del disvelamento dell’identità dell’amico condottiero, poi nemico, valeva la serata: trionfo sia durante che a fine spettacolo. Vi segnalo la sua presenza nel Trovatore, al Maggio Musicale Fiorentino, il mese prossimo.
Anche Annalisa Stroppa, debuttante lo scorso anno nel ruolo di Preziosilla a Firenze, conferma e rifinisce la sua interpretazione di rilievo in questo difficile ruolo, soprattutto per i salti vocali che il pentagramma prevede, da soprano falcon. L’interpretazione è coinvolgente, sentita e mostra notevole fascino in una parte che lo richiede non solo vocalmente ma anche scenicamente. La sua voce di mezzosoprano, quindi, risolve ottimamente le difficoltà della partitura, mostrando un colore omogeneo e grande abilità espressiva, assicurandole un caloroso e meritato successo.

Marko Mimica, Padre Guardiano, nonostante un timbro più leggero di quello che di solito si sente in questa parte, ha grande musicalità e presenza scenica. Il timbro scuro, caldo, avvolgente, ci porta davvero in un eremo avvolto dalle montagne, e l’omogeneità in ogni registro gli garantisce di riuscire convincente e debitamente austero sia nel duetto con Leonora che nel finale, senza tralasciare una certa umanità che, grazie anche a quel timbro più leggero cui accennavo prima, lo rende un personaggio umano a tutto tondo, e non solo una roboante e solenne voce divina.
Roberto De Candia, Fra’ Melitone, non fa ridere quasi mai: e questo è un pregio enorme per un ruolo ingiustamente creduto buffo, a volte interpretato con piglio troppo ridanciano. Anzi, grazie anche alla voce autorevole e al pregevole timbro, sicuramente più adatti a ruoli di notevole spessore, ne emerge un personaggio fatto di chiaroscuri ed inedita intransigenza. La sua interpretazione fa sorridere, come è ovvio che sia, ma fa soprattutto pensare che spesso, sotto l’apparenza bonaria, si celano caratteristiche ben più complesse, come nell’ultimo atto, in cui la carità per i poveri si trasforma in una grottesca esternazione di fastidio per quegli ultimi troppo prolifici e poco praticanti. Successo caloroso per lui, alla fine.
Un lusso Marco Spotti nelle vesti del Marchese di Calatrava, a cui il basso, grazie al timbro profondo e affascinante, conferisce una rilevanza notevole e che lascia nella mente degli spettatori un forte ricordo, nonostante la brevità della parte.

Corretti e funzionali al successo della serata il Mastro Trabuco di Andrea Giovannini, la Curra di Natalia Gavrilan, l’alcade di Jacobo Ochoa e il chirurgo di Andrea Pellegrini.
La parte scenica è stata decisamente non all’altezza di musica e parole, in una visione atemporale, a voler essere generosi, di quest’opera, poco rifinita nella recitazioni dei solisti, spesso lasciati ad agire solo con le proprie risorse, per altro invidiabili in certi casi, e latitante nel movimento delle masse, o ferme in proscenio o mosse casualmente sulla scena. La parte visiva, invece, pareva animata da un generale orrore della guerra, rappresentato sia con proiezioni di incendi, esplosioni, facce mostruose un po’ impressionistiche che si deformano, sia con scene prive di spessore, letterale e figurato, quasi ritagliate nel cartone e poi inclinate ora a destra ora a sinistra, che rappresentavano di volta in volta case distrutte, campi di battaglia o monasteri, tutto in quello stile “presepe di cartapesta” datato e per nulla di tradizione. I costumi poi, un miscuglio di stili, generi, epoche, privi di fascino, ad esclusione di certi abiti maschili. Insomma un’occasione mancata per un’opera piena di spunti e possibilità interpretative, che ha trovato qualche momento buone nelle scene coi frati e nel finale.

Ha concluso la recita una pioggia di bigliettini, lanciati dal loggione, in cui si consigliava ad Abbado di tornare a Bologna e di tenere lontane le mani dalla Forza del Destino, in dialetto tra l’altro. “La potenza del fato” ha colpito ancora? Può darsi, ma credo fermamente che in questo caso sia stata proprio lei a uscirne sfortunata, tra tensioni e malumori preannunciati.
Mattia Marino Merlo – Teatro Regio di Parma, 22 settembre 2022