Dramma lirico in quattro parti su libretto di Temistocle Solera
Musica di Giuseppe Verdi
Nabucco | Luca Salsi |
Ismaele | Riccardo Rados |
Zaccaria | Rafal Siwek |
Abigaille | Daniela Schillaci |
Fenena | Vasilisa Berzhanskaya |
Il gran sacerdote di Belo | Adolfo Corrado |
Abdallo | Giacomo Leone |
Anna | Elena Borin |
Direttore | Daniel Oren |
Regia e Costumi | Arnaud Bernard |
Scene | Alessandro Camera |
Luci | Paolo Mazzon |
Maestro del coro | Ulisse Trabacchin |
Orchestra, Coro e Tecnici della Fondazione Arena di Verona |
Nabucco, lo si sa da quando ognuno di noi ha il primo approccio con Giuseppe Verdi e la sua musica, è considerata la più risorgimentale delle opere del Cigno di Busseto, per ovvie ragioni storiche e soprattutto perché gli spettatori italiani dell’epoca, oppressi in larga parte dal dominatore austriaco, potevano empatizzare meglio di chiunque altro con la condizione degli ebrei soggetti alla cattività babilonese, instaurando un fecondo parallelo tra la situazione politica italiana e quella ebraica di schiavitù. Arnaud Bernard, cogliendo questa nozione e mettendo da parte ogni lecito ipercriticismo a tale lettura storiografica, firma un allestimento in chiave risorgimentale, dal grande impatto visivo, tipico delle produzioni cinematografiche d’altri tempi, con squarci suggestivi e cambi di scena che lasciano a bocca aperta. In questo contesto registico, quindi, i dominatori assiro-babilonesi indossano le divise dell’impero austro-ungarico e gli ebrei perseguitati portano le vesti del popolo italiano, alla ricerca della tanto agognata libertà. La cosa che stupisce, dopo qualche minuto che si ascolta e osserva l’allestimento, è come funzionino, e bene, le scelte e le idee messe in scena da Bernard: Zaccaria, mazziniano e quasi garibaldino esponente del popolo, guida gli italiani e li esorta a combattere e sperare, senza perdere la loro unità; Fenena veste gli abiti di una nobile principessa austriaca, così come Abigaille, che però è anche donna militare e spietata, e per questo impugna pistole e non serba pietà; Nabucco, come imperatore Francesco Giuseppe, si rivelerà intransigente ma capace di comprendere i deboli e i vinti dopo un attentato “divino”, realizzato per mano dei rivoltosi italiani; Ismaele, invece, è un ufficiale italiano, guida anch’egli del popolo, ma avvinto da legami nelle opposte fazioni. Tutto ha un senso, dunque, e lo acquista ancor di più quando, nel terzo e quarto atto, l’azione si svolge all’interno del Teatro alla Scala, dove con un geniale gioco metateatrale, sul palcoscenico del teatro, i vari personaggi principali tornano ad essere, uno dopo l’altro, realmente ebrei o babilonesi, e a concludere l’opera col pubblico italiano rinfrancato ed esaltato, sopra le teste degli austriaci sconvolti seduti in platea.
Questa idea registica trova il perfetto connubio con le straordinarie scenografie di Alessandro Camera: la scena iniziale, esternamente, è una fedele riproduzione della Scala e delle sue zone limitrofe, luoghi di guerriglia tra italiani e austriaci, che nel secondo atto ruota su se stessa per mostrarci l’interno di un palazzo nobiliare dominato dai toni del verde, opprimenti ma funzionali e suggestivi, per poi, negli atti successivi, ruotare ancora e mostrare nuovamente l’interno, modificatosi in una sezione della sala del teatro alla Scala, minuziosamente riprodotta e stracolma di coristi, in veste di spettatori, dai palchi sino al loggione: si resta a bocca aperta, senza riserve, e ci si commuove, non senza qualche brivido, di fronte agli italiani che intonano il “Va’ pensiero” assieme agli ebrei sul palco, sciorinando poi i loro fazzoletti a tre colori nel suggestivo finale d’opera, dove enormi bandiere italiane volano rapide sulla scena e sulle gradinate circostanti.

Luca Salsi, nelle doppie vesti di questo particolare Nabucco, restituisce in modo memorabile la figura del sovrano babilonese. La sua è un’interpretazione ricercata, giocata tutta sulla parola e sulla ricerca del fraseggio più adeguato alla frase da cantare, senza correre il rischio di risultare cerebrale, ma al contrario mostrando impeto e irruenza laddove la parte lo richiede, specialmente nelle esternazioni di furore e tracotanza: “Tremin gl’insani del mio furore” fa effetto non solo sugli ebrei ma pure sul pubblico che ascolta, come anche il celebre verso “non son più re, son Dio!”, spavaldo al punto giusto, seguito dalla scena del fulmine, eseguita con sofferenza e paura palpabili. A questa ricerca sulla parola corrisponde naturalmente una voce in grado di restituire di volta in volta il giusto accento: il timbro brunito, rotondo e molto personale, unito a un perfetto controllo del fiato e a un’omogeneità notevole in ogni registro, hanno garantito il pieno successo del baritono, capace di acuti sfolgoranti e pianissimi densi di pathos. Impossibile non ricordare tutto il duetto con Abigaille e l’accorata preghiera al dio degli ebrei, suggellata da un liberatorio applauso a scena aperta. Per lui, com’era prevedibile e giusto, successo pieno e meritato.
Daniela Schillaci sostituiva l’indisposta Maria José Siri nel ruolo di Abigaille. Onore innanzitutto alla tempestività e al piglio con cui ha affrontato questo difficile e temutissimo ruolo. La voce, fin dall’inizio, appare forse troppo leggera e non abbastanza corposa, specialmente nel registro grave e centrale, dove certe frasi rischiano di passare inosservate se non si ascolta attentamente. Il problema non si pone quando la tessitura sale e il soprano può spiegare il suo timbro gradevole, sostenuto da un ottimo controllo del fiato e del registro acuto. Ottima sia la scena del “fatal scritto” sia quella del duetto col padre, molto sentita e vissuta intensamente; anche il commovente finale, dove il soprano ha esibito degli ottimi pianissimi, è stato risolto al meglio. Al netto, dunque, di una caratura vocale meno corposa di quel che ci si aspetterebbe per questo ruolo, l’interpretazione e il fraseggio adeguati le hanno garantito pieno e festoso successo.
Rafal Siwek, nelle vesti di un mazziniano Zaccaria, ha esibito un timbro gradevole e omogeneo, con acuti sicuri e discese nel pentagramma apprezzabili. Interessante il mutamento da ribelle risorgimentale a pontefice degli ebrei, restituito non solo attraverso le ovvie scelte registiche, ma anche, e soprattutto, attraverso la ricerca sul fraseggio e sull’emissione, prima roboante e dopo più raffinata e raccolta.
Riccardo Rados, Ismaele, si è disimpegnato bene in questo doppio ruolo di ufficiale italiano e nipote del re di Gerusalemme, cantando con gusto e sfoggiando una convincente linea di canto, soprattutto nel duetto con Abigaille. Forse il personaggio avrebbe giovato di una maggiore incisività, che talvolta è mancata e non ha permesso al giovane ebreo di risaltare a dovere, soprattutto quando il palco era stracolmo di coristi e figuranti.
Vasilisa Berzhanskaya, Fenena, è un mezzosoprano dalla rapida ascesa, a cui sto assistendo con immenso piacere. Il timbro è personale, avvolgente e soddisfacente per l’orecchio che l’ascolta, come anche la cura del fraseggio e della pronuncia italiana, sempre ottima e minuziosa. Il mezzosoprano si trova a suo agio in ogni registro, mantenendo sempre il suo bel colore caratteristico, anche nelle frasi più impervie. Il personaggio di Fenena acquista dunque il giusto peso all’interno della vicenda e non si perde mai di vista, nemmeno nei momenti più concitati, soprattutto grazie all’interpretazione e alla specificità del suo timbro. Per lei successo meritato e sentito.
Apprezzabili e funzionali gli interventi di Adolfo Corrado, Grand Sacerdote di Belo, Giacomo Leone, Abdallo, ed Elena Borin, Anna;
Ottima anche la prova del coro della Fondazione, risorgimentale e battagliero, ma non per questo privo di gusto, raffinatezza e malinconia, soprattutto nell’attesa scena del “ Va’ pensiero”, favoloso nel vero senso della parola, dove l’accorata preghiera smuove e commuove, fino a l’incredibile pianissimo che si spegne in un’Arena col fiato sospeso. Applausi a scena aperta, con immancabile e apprezzabile bis, in cui si ripetono le stesse prodezze interpretative e vocali.
Daniel Oren, dal podio, dirige con energia e grande vis interpretativa: i tempi sono serrati, i colori sgargianti e vivaci, l’esecuzione è talmente efficace da risultare travolgente, in piena sintonia con la visione risorgimentale e garibaldina della regia. Queste scelte, invero giuste, non hanno minimamente inficiato la resa dei momenti più lirici e malinconici, sia nelle pagine di assieme che in quelle dei singoli personaggi, dense di risvolti sentimentali e dolorosi. Una lettura, dunque, che ha colto tutte le sfaccettature di quest’opera, senza sacrificarne nessuna, e garantendo un sostegno non comune alle voci, soprattutto in uno spazio aperto così vasto, di cui il maestro Oren si dimostra una volta di più fine conoscitore. La sua direzione del “Va’ pensiero” meritava di essere non solo “sentita”, ma anche “vista”, tale era la sua partecipazione, sia per ragioni musicali che religiose. Successo vivo e meritato per lui e per l’orchestra della Fondazione, splendida e guizzante, ancora una volta in grande forma.
Mattia Marino Merlo, Arena di Verona, 3 settembre 2022
