Poesia Giuseppe Adami
Musica Giacomo Puccini

TurandotOksana Dyka
AltoumChris Merritt
TimurRiccardo Fassi
CalafYonghoon Lee
LiùRuth Iniesta
PingBiagio Pizzuti
PongMatteo Mezzaro
PangRiccardo Rados
MandarinoYoungjun Park
Principe di PersiaGiacomo Leone


DirettoreFrancesco Ivan Ciampa
Regia e SceneFranco Zeffirelli
CostumiEmi Wada
LuciPaolo Mazzon
Movimenti coreograficiMaria Grazia Garofoli
Maestro del CoroUlisse Trabacchin
Maestro del Coro di Voci biancheMarco Tonini
Coordinatore del BalloGaetano Petrosino


Orchestra, Coro, Ballo e Tecnici della Fondazione Arena di Verona
Coro di Voci Bianche A.d’A.Mus.

La visione e l’ascolto, a distanza ravvicinata in questa calda estate, di due speculari rappresentazioni di Turandot, la prima col finale di Berio e la seconda, quella di cui si scrive, col finale di Alfano, chiariscono una volta di più l’estrema modernità e mutevolezza di quest’opera, che modifica il suo messaggio, come un tessuto cangiante il suo colore, in base alle scelte musicali e registiche e a l’idea di fondo che la pervade, sia nella direzione che nella realizzazione scenica. Turandot, quindi, può essere un racconto di tempi remoti e oscuri, forieri di morte e angoscia, rischiarati dopo numerose atrocità dal sacrificio, dall’amore e dalla consapevolezza dei propri errori o convinzioni sbagliate, e nonostante questo può essere anche una meravigliosa favola caleidoscopica, dai sapori orientali e mitici, dove l’amore trionfa senza riserve e perfino la morte acquista una connotazione positiva e celebrativa, logorando col suo potere certe barbare meccaniche e concedendo, alla fine, il meritato trionfo a quello stesso amore che pure l’ha provocata. La cosa che più stupisce è che entrambe queste visioni funzionano e traggono l’una dall’altra la forza di colpire lo spettatore e fargli comprendere, senza riserve, che Puccini, nella sua triste e prematura dipartita, privandoci del finale da lui immaginato, abbia consegnato all’eternità il più importante testamento operistico e musicale del 900’, secolo di dubbi, oscurità, tramonti, aurore, per cui ancora oggi si ha difficoltà a trovare una “fine”, un pensiero conclusivo che dia senso a tutto quello che è accaduto.

La regia di Zeffirelli, oramai epocale e celeberrima, specialmente in Arena, cerca di far quadrare il cerchio con un’aura di positività, di completo trionfo amoroso e sentimentale, delineati fin da subito dall’opulenza dell’allestimento, dei costumi e dalla ricchezza strabordante dei movimenti scenici. Se dunque nel primo atto dominano il buio, il crepuscolo e certi indizi di una scenografia che sarà di forte impatto, all’aprirsi, nel secondo atto, dell’enorme ventaglio decorato con draghi e forme morbide, che nasconde l’imponente reggia imperiale, si comprende senza riserve dove si andrà a parare: lo stupore del pubblico non può essere più grande e il sorriso naturale che appare sui volti degli spettatori è inevitabile presagio del rapimento finale, quando l’idea registica di Zeffirelli, unita alla creazione musicale di Alfano, rapisce e conquista, costringendo a trattenere il fiato fino all’ultima nota. Ovviamente molto ci sarebbe da dire e annotare in una tale quantità di dettagli coreografici, scenici e coloristici, ciò che però domina sono l’impatto e il colpo d’occhio, veri trionfatori di questo colossale allestimento, capaci di far passare in sordina alcune ingenuità ed esagerazioni.

Oksana Dyka, nelle sontuose vesti di Turandot, ha affrontato con efficace disinvoltura questo ruolo ed è riuscita a venire a capo della sua estrema partitura con onore e risultati più che buoni, nonostante qualche cedimento nelle frasi musicali più complesse e ardue. Il timbro, che si confà alla figura della principessa di gelo, non perde il suo colore nemmeno nel registro più basso, sorretto sempre da una voce ben udibile e ben proiettata. Stessa cosa per il registro centrale, corposo, e in quello acuto, proiettato a dovere, in cui ha emesso acuti sfavillanti, a volte però poco sicuri e non privi di un certo sforzo. Il fraseggio, sostenuto da una buona pronuncia dell’italiano, l’ha resa interprete credibile, specialmente nella sua aria di sortita “In questa reggia” e durante la scena degli enigmi, dove ci si sarebbe aspettati una caratura vocale maggiore, ma che è caratteristica che si ha o che si acquista col tempo e con la frequentazione della parte. Per lei successo pieno, caloroso e meritato.

Yonghoon Lee, Calaf, non è riuscito con la sua disinvoltura scenica, invero esagerata e in certi momenti al limite del caricaturale, a sopperire a un timbro certo non baciato da dio, a un’intonazione precaria e una proiezione del suono quasi assente. L’impressione, avuta durante tutta la serata, è che la voce emessa fosse dimezzata, poiché una parte rimaneva inevitabilmente imbrigliata a causa di una tecnica sicuramente modificabile e migliorabile. Dispiace anche per il fraseggio anonimo e la pronuncia delle vocali a volte imbarazzante, che inficiava irrimediabilmente la resa delle note ad esse associate. Va segnalato che il tenore spesso avvicinava la mano all’orecchio destro con ogni probabilità per cercare l’intonazione corretta e muoveva la testa in maniera vorticosa per trovare la spinta giusta ed emettere le note acute: ovviamente si canta col corpo e con ogni sua parte, come dice non senza un velo di malizia Giulietta Simionato in una sua celebre intervista, ma quando il corpo e le sue azioni tradiscono un’evidente difficoltà, forse è meglio rivedere certe scelte. Anche per lui successo pieno con inevitabile bis del “Nessun dorma”.

Ruth Iniesta, nei panni della dolce Liù, è stata impeccabile, commovente e artisticamente eccellente. Il timbro gradevole, giovane e fresco, perfetto per il ruolo della schiava innamorata, omogeneo in ogni registro, ha restituito una fanciulla vera, forte e debole allo stesso tempo. Le note ci sono state tutte e, cosa più importante, tutte al posto giusto: acuti sicuri, filati da manuale e pianissimi eterei ma perfettamente udibili sono stati testimonianza di una prova in crescendo, coronata dalla grande scena del suicidio tutta giocata sulle mezze voci e sul dosaggio corretto del registro acuto, capace di spingere alle lacrime e a una profonda e sincera commozione. Dopo l’ultima frase dell’aria “Tu che di gel sei cinta”, – per non vederlo più -, si meritava un applauso a scena aperta, che è arrivato alle chiamate finali e le ha tributato un caloroso successo, commovente anche per lo stesso soprano.

Riccardo Fassi, affranto e accorato Timur, ha esibito una meravigliosa voce di basso, omogenea, avvolgente e carica di pathos. Non una sola parola di questo vecchio sovrano esiliato è stata lasciata al caso, ma di volta in volta cesellata come meglio richiedeva la situazione. Stupende le invocazioni al figlio e i lamenti per la morte di Liù: quest’ultima scena, che rischia di passare in secondo piano e scivolare via, è stata memorabile e drammatica allo stesso tempo, fornendo al cantante la possibilità di dare sfoggio anche di un solido e sonoro registro acuto. Successo pieno e meritato anche per lui.

Chris Merritt, l’Imperatore Altoum, sia per gli ovvi motivi di età e usura vocale, sia per un posizionamento in scena molto in alto e in profondità, non è stato incisivo nei suoi interventi, come dovrebbe essere, e in certi momenti la voce è scesa al limite dell’udibile, compromessa anche da una pronuncia dell’italiano non sempre felice.

Biagio Pizzauti, Ping, ha risolto felicemente la parte e cantato con gusto e partecipazione, dimostrando rodate abilità sceniche e vocali, specialmente durante la scena dei ministri all’inizio del secondo atto. Matteo Mezzaro e Riccardo Rados completavano con professionalità il terzetto, anche loro ben rodati e funzionali alla riuscita delle scene che li vedono coinvolti. Sicuramente una revisione dei movimenti scenici e della caratterizzazione dei tre scagnozzi di Turandot gioverebbe sia ai cantanti che alla resa complessiva dello spettacolo: Ping, Pang e Pong, nella loro tragicomica situazione, devono far sorridere in modo pirandelliano, e non per via di frizzi e lazzi fini a se stessi.

Completavano il cast, bene e con la dovuta precisione, il Mandarino di Youngjun Park e il principe di Persia di Giacomo Leone.

Precisi e puntuali anche gli interventi del coro della Fondazione, sonoro e robusto al punto giusto, come anche il coro di voci bianche dell’A. d’A.Mus., gradevolissimo nel suo intervento “Dal deserto al mar”.

Colui che ha guidato con estrema abilità e grande sensibilità cantanti solisti, coro e orchestra è stato il maestro Francesco Ivan Ciampa. C’è poco, o molto, da dire sulla sua direzione e concertazione: limpida e chiara, ricca di sfumature e colori inediti, trionfale e introspettiva, capace di portare i cantanti e i maestri d’orchestra a dare il meglio e di ricondurli con sé nei momenti più concitati, dove si rischiano sempre, specie all’aperto, lo scollamento e la perdita di musicalità. Si passa dunque dai toni oscuri e cupi del primo atto, tuttavia vibranti e già presaghi della vittoria di Calaf, a quelli più marziali e rigorosi dell’entrata in scena di Turandot, passando per l’alone di mistero che trasudano le note della scena degli enigmi, fino alla morte di Liù, risolta con eleganza e struggimento insieme. Ottima anche l’esecuzione del finale di Alfano, passionale e per nulla fracassone, come capita a volte, specie nel disvelamento del vero nome di Calaf: Amore. Successo pieno e meritatissimo per il maestro e per l’orchestra della Fondazione, in grande spolvero e in piena sintonia col direttore.

Mattia Marino Merlo, Arena di Verona, 2 settembre 2022

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