Libretto di Francesco Maria Piave
Musica di Giuseppe Verdi

Duca di MantovaPiero Pretti
RigolettoAmartuvshin Enkhbat
GildaNadine Sierra
SparafucileGianluca Buratto
MaddalenaMarina Viotti
GiovannaAnna Malavasi
MonteroneFabrizio Beggi
MarulloCostantino Finucci
Matteo BorsaFrancesco Pittari
CepranoAndrea Pellegrini
ContessaRosalia Cid
PaggioMara Gaudenzi
DirettoreMichele Gamba
RegiaMario Martone
SceneMargherita Palli
CostumiUrsula Patzak
LuciPasquale Mari
CoreografiaDaniela Schiavone
Maestro del CoroAlberto Malazzi

Nuova produzione Teatro alla Scala
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala

A ventotto anni di distanza dal celeberrimo allestimento di Gilbert Deflo, il Teatro alla Scala decide di volerne creare uno completamente nuovo per quel capolavoro immortale che è Rigoletto di Verdi. Un compito da far tremare le vene dei polsi a qualsiasi regista, se si pensa all’importanza di quest’opera per la Scala e alla sacralità della regia che si deve sostituire, ormai fissata da quasi sei lustri nelle menti di appassionati e addetti ai lavori. Mario Martone non si spaventa, non si scoraggia, non firma una regia fatta di “vorrei ma non posso”, al contrario ha una visione molto chiara e definita dello spettacolo da proporre al pubblico. Davanti alla sua messa in scena di Rigoletto non si può restare indifferenti.

Perché se è vero che il più classico degli allestimenti con scene di Frigerio e costumi della Squarciapino, ci fece entrare in contatto coi protagonisti e ci fece soffrire, e allo stesso tempo ci deliziò con palazzi splendidi, scorci suggestivi e abiti ricchi e opulenti, quello di Martone ci spaventa e terrorizza, senza mezze misure e senza volgarità alcuna, perché la storia di Rigoletto non è più solo quella di un buffone del XVI secolo, lontano da noi, ma anche, e soprattutto, quella di un uomo nostro contemporaneo, di un buffone del nostro mondo, che soffre in questo secolo, in questo tempo. Noi stiamo a vedere e ascoltare le sue vicende comodamente seduti nella poltroncina di un teatro. Non si tratta solo di trasportare l’opera cronologicamente, in un’epoca storica qualsiasi, modernizzando i luoghi e i ruoli, ma si tratta di rivestire personaggi e ambienti con precisi connotati socioculturali, che noi possiamo capire immediatamente, rendendo ancora viva la drammatica attualità di Rigoletto, di Gilda, del Duca e di tutti quegli sciagurati, poveri o ricchi, che gravitano loro intorno.

Così la scena iniziale si configura come una grande villa, moderna, raffinata, proprietà del ricco Duca, in cui scorrono fiumi di prostitute e fiumi di droga, il tutto però animato da un decoro e da un’eleganza di fondo che, come dice Martone stesso, ci fanno capire che il demonio, col suo entourage, non è stupido o grottesco, ma raffinato e garbato. Il diavolo sa come irretire le sue vittime (e tutto ciò non fa forse paura? in certi ambienti, oggi, non è forse così?). In questo luogo di raffinata perdizione si muove Rigoletto, tramite di due mondi opposti. Infatti la scenografia, ruotando su se stessa, palesa nel corso del primo atto un bassofondo scalcinato e tenebroso, dove vivono gli ultimi della società, speculare alla villa del Duca. Questi due luoghi, questi due mondi, oltre a essere collegati da un grande portone, sono connessi dalla figura del buffone, appunto, che gioca sul filo del rasoio il suo equivoco rapporto col Duca. Qui vivono le prostitute del palazzo ducale, qui bazzica Sparafucile, qui vive Gilda, unico fiore in quell’ammasso di ferraglia e cemento, destinato a sfiorire, vittima di violenza, depressione e cieco amore.

In certi momenti, magari, si sarebbe preferito che ci fossero meno attori sulla scena, intenti a svolgere le loro azioni quotidiane, soprattutto durante il toccante duetto tra Gilda e Rigoletto (“Deh non parlare al misero” e successivo “Veglia, o donna, questo fiore”), la cui presenza a tratti disturbava l’intimità del dialogo tra padre e figlia. I ladri portavano nel ghetto la propria refurtiva, altri uomini dormivano per terra e altre donne lavavano i panni sudici in un lavello comune. La regia, in ogni momento, risulta molto studiata ed estremamente curata nelle scelte, un plauso alle scene moderne di Margherita Palli, grande artista e architetto.

Ciò che ha diviso e sconvolto in ogni senso possibile gli animi è stato il finale. Non il finale “vero” dell’opera, ma quello che il regista ha realizzato mentre Gilda moriva tra le braccia del padre e Rigoletto gridava contro la maledizione. L’idea finale di Martone, infatti, è stata quella di far compiere a tutti gli ultimi apparsi nel corso dell’opera, prostitute e non, una strage nella villa del Duca, uccidendo quest’ultimo e la sua corte scellerata in un estremo raptus omicida. A questo punto si aprono mille possibili polemiche, sulla validità della maledizione, sul povero Monterone che nota con rammarico la vita ancora impunita del Duca, sulla morte di Gilda, che può apparire inutile e privata del suo significato drammaturgico. Sarebbe facile spiegare che la scelta di questa “postilla tragica” non ha senso. Ma io qui dico: e se invece ce l’avesse e potesse funzionare?

Questa sorta di baccanale vendicativo, apparentemente catartico e liberatorio, forse non è altro che l’estrema recrudescenza della collusione tra due mondi marci e poveri in egual misura. Davvero possiamo pensare che la morte del Duca e della sua corte migliorerà le vite dei loro carnefici? Non credo. Non lo credono nemmeno loro. Passeranno semplicemente sotto un altro padrone, sotto un altro signore che li tratterà allo stesso modo. E allora, in questa visione così nera, oscura e anche paradossale, la morte di Gilda appare come l’omicidio che dà il via all’orgia di sangue finale. Non è più inutile, non è più privo di senso, ma anzi diviene la dimostrazione fatta e finita che quella macchina infernale, che è la società, la nostra società, stritola sempre prima i più deboli, mortificandoli e annientandoli, per poi renderli assassini e farli macchiare delle stesse colpe dei loro carnefici.

Nell’ottica di violenza garbata e inesorabile allo stesso tempo appena descritta, si cala benissimo il Duca di Piero Pretti. La presenza scenica è perfetta per il ruolo e per la sua caratterizzazione in questo allestimento. Il tenore si muove con charme ed eleganza, e dosa sapientemente le mezze voci per restituire un Duca tutt’altro che gradasso. “Questa o quella” è cantato col giusto piglio, mentre lancia occhiate languide alle bellezze della sua villa. La voce è sempre ben proiettata, e riesce a bucare l’orchestra anche nei momenti più fragorosi. Il duetto con Gilda gli permette di esibire un timbro schietto e virile, non privo di nuances da vero seduttore, con un’ottima facilità all’acuto e un fraseggio curato, non lasciato al caso. Anche il suo “Parmi veder le lagrime” affascina per la ricerca del fraseggio e per la varietà di accenti ma la cabaletta è proposta con un certo affaticamento. Nel terzo atto, nonostante qualche stanchezza vocale che si palesa nel celebre quartetto, la recitazione sempre curata e il bel timbro tenorile appianano ogni difficoltà, portandolo al successo. “La donna e mobile”, attesa da tutto il pubblico, soprattutto da quello straniero, è cantata con buon gusto e non manca della tradizionale puntatura finale, che fa prorompere gli ascoltatori in un applauso immediato, nonostante il fluire della musica.

Nadine Sierra è una Gilda da favola “nera” (perdonate il gioco di parole). Il suo personaggio, infatti, soprattutto in questa occasione, non è banco di prova per primedonne che vogliono solo dare sfoggio di bella voce e abilità canora. Gilda è tenerezza, purezza, gentilezza, amore incondizionato, è anche ingenuità, che non significa stupidità, e Nadine possiede tutte queste sfaccettature. Il bel timbro, corposo, a tratti brunito ma non per questo meno squillante, la rende una Gilda tutt’altro che bambolina meccanica. I pianissimi sono eterei, un vero piacere per l’udito, così come le meravigliose fioriture che ci dona in “Caro nome”, tutto giocato su un equilibrio perfetto di mezze voci e preziosismi vocali. Una aria che sembra continuamente autogenerarsi. In “Tutte le feste al tempio” la sua interpretazione si fa sublime e non si può fare a meno di soffrire con lei, che dimostra di aver ben compreso il significato del suo personaggio e che cresce per tutto lo spettacolo, fino a rendere vero e plausibile il suo suicidio.

Amartuvshin Enkhbat è un vero e proprio prodigio vocale e timbrico. Anzi, è ormai diventato una certezza di qualità estremamente elevata, che ogni volta mi lascia a bocca aperta. Dopo averlo ascoltato a Firenze, in autunno, nel ruolo di Rigoletto, non potevamo mancare al suo debutto scaligero nel medesimo ruolo. Ed è stato magnifico. Il timbro, come accennavo, è di una bellezza travolgente, generoso, di un nobile colore scuro, ma capace anche di pianissimi estremamente musicali e pieni di armonici. L’educazione vocale, fa il resto, con acuti sfolgoranti e un fraseggio così cesellato da dare peso a ogni parola, con una pronuncia dell’italiano impeccabile, tale da rendere comprensibile qualsiasi cosa canti. La sua recitazione, poi, potrebbe apparire un po’ fredda, ma non è così. Come diceva Anita Cerquetti in una celebre intervista, il cantante d’opera non può fare chissà quali movimenti in scena, non può correre e muoversi troppo, ma deve sfruttare la voce per restituire ogni stato d’animo o movimento corporeo. Così, il Rigoletto di Amartuvshin Enkhbat non si sbraccia, non si affatica in mosse che talvolta, con altri interpreti, sono apparse grottesche, non si rotola a terra, non si strappa i capelli o lacera il volto, ma usa la voce per convogliare verso il pubblico ogni turbamento del suo spirito. “Cortigiani, vil razza dannata” fa venire i brividi per la forza e il dolore che riesce a unire, così come la celebre chiusura del secondo atto, dove la vendetta di lui si amalgama ottimamente col perdono di Gilda. La forza di questo cantante è immensa e attendiamo con piacere i suoi prossimi impegni, tra i quali segnalo il ruolo del Conte di Luna a Firenze, il prossimo autunno.

Gianluca Buratto ha la vocalità perfetta per Sparafucile, pure la presenza scenica calza in modo decisamente appropriato all’idea registica. Il suo duetto con Rigoletto mette in risalto un timbro scuro e profondo, un fraseggio non comune per questo ruolo, emettendo delle note, posizionate molto in basso nel pentagramma, che sono un vero piacere da ascoltare.

Maddalena è Marina Viotti, molto abile nel rendere un personaggio ambiguo come il suo. Il timbro è gradevole e riesce a tener testa egregiamente alle tre voci protagoniste nel celebre quartetto, senza cadere in volgarità o suoni poco eleganti.

In parte, ma meno efficace vocalmente, Anna Malavasi nel ruolo di Giovanna, mentre Fabrizio Beggi, un Monterone lussuoso dal timbro interessante, è molto sonoro e musicale, soprattutto nei momenti in cui l’orchestra e il coro potrebbero fagocitarlo, forte anche di una presenza scenica che non lascia indifferenti.

Funzionali e all’altezza della situazione il Marullo di Costantino Finucci, il Matteo Borsa di Francesco Pittari, il conte di Ceprano di Andrea Pellegrini, la contessa di Ceprano di Rosalia Cid, l’usciere di corte di Guillermo Esteban Bussolini e il paggio di Maria Gaudenzi, giovane allieva dell’Accademia del teatro alla Scala.

Michele Gamba dirige con profondo rispetto della partitura e si adopera affinché l’esecuzione sia fedele al dettato verdiano, con qualche incursione veniale in poche puntature di tradizione. Il giovane direttore riesce a gestire al meglio la sovrapposizione dei piani musicali, restituendo Rigoletto come opera di estrema modernità, dove la tridimensionalità di partitura e rapporti narrativi è fondamentale. Proprio per questo è apprezzabile il suo studio sulla natura innovativa dell’opera, non fatta più solo di numeri chiusi, ma immaginata da Verdi quasi fosse un lungo flusso musicale. In questa lettura l’Orchestra del Teatro alla Scala si trova a suo agio e segue bene il direttore, che la fa passare attraverso zone musicali eteree fino a turgori più dirompenti, in equilibrio tra loro. Bene anche il coro maschile, preciso in ogni sua apparizione. Dunque uno spettacolo davvero meritevole, studiato, non lasciato al caso in nessuna delle sue parti, suggellato da grande e meritato successo per la compagnia di canto e per il direttore. Un Rigoletto davvero, e finalmente, “nuovo”.

Mattia Marino Merlo