Musica di Giuseppe Verdi
Libretto di Francesco Maria Piave, Antonio Ghislanzoni (revisione, Teatro alla scala 1869)
Leonora Saioa Hernández
Don Alvaro Roberto Aronica
Don Carlo di Vargas Amartuvshin Enkhbat
Preziosilla Annalisa Stroppa
Padre Guardiano Ferruccio Furlanetto
Fra Melitone Nicola Alaimo
Il marchese di Calatrava Alessandro Spina
Mastro Trabuco Leonardo Cortellazzi
Curra Valentina Corò
Un alcade Francesco Samuele Venuti
Un chirurgo Roman Lyulkin
Solisti del Coro Ferruccio Finetti, Leonardo Melani, Luca Tamani
Direttore Zubin Mehta
Regia Carlus Padrissa
Scene Roland Olbeter
Costumi Chu Uroz
Luci e video Franc Aleu
Coro e Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
Maestro del Coro Lorenzo Fratini
L’attività lirica ricomincia anche in Italia, sebbene non certo a pieno regime. Ma che emozione sentire una orchestra potente e ampia come quella prescritta per La forza del destino finalmente dal vivo. Godere di 3 ore e 45 minuti di spettacolo, con colleghi, amici di vecchia data e con gli immancabili autografi finali. Si ricomincia a vivere dopo le due opere viste alle Canarie e su queste pagine recensite.
La forza del destino è da considerarsi un grand opéra con veloci balletti nel secondo e terzo atto che intelligentemente non interrompono l’azione come gli ampi balletti di Meyerbeer. Verdi, come farà in Aida, mantiene la maestosità di Meyerebeer ma concentra l’azione col suo fiuto infallibile per il dramma e la parola scenica. Come in tutto Verdi, non c’è una nota in più ne una in meno e non si capisce perché il Maestro Zubin Mehta e il Regista abbiano fatto una quindicina di tagli che per quanto piccoli hanno disturbato non poco l’attento ascoltatore. Non si può eliminare tutta la conclusione della prima scena del secondo atto dove Verdi, da maestro, riepiloga i temi dell’atto con Don Carlo, Preziosilla e l’Alcade! Forse i vari tagli nel terzo atto sono stati fatti per alleggerire le parti del baritono e del tenore. Ma perché tagliare più di metà della battaglia che dà un poco di movimento all’atto? Tagliare il recitativo di Preziosilla prima del Rataplan mette in difficoltà la cantante, è una scelta antimusicale che non comprendiamo. Anche Melitone ha qualche intervento eliminato nel IV atto!
Viene eseguita la versione del 1869 rielaborata appositamente per la Scala e per Teresa Stolz a cui verrà affidato anche il ruolo di Aida alla Scala alla prima europea dopo il Cairo. Verdi si rese conto che 4 morti in scena erano davvero troppi. L’altro problema importante era la parte del tenore scritta per il fuoriclasse Enrico Tamberlick che ebbe parte fondamentale nel coinvolgere Verdi nel progetto de La Forza con il teatro imperiale di San Pietroburgo. La parte del tenore nella prima versione è arricchita dell’aria “Qual sangue sparsi” che è davvero uno scoglio insormontabile dopo una ora di terzo atto con una aria iniziale e 3 duetti col baritono. L’aria, a nostro avviso, è stupenda, ed è una evoluzione di “Di quella pira” in quanto le tre sezioni “cantabile”, “andante” e “cabaletta” confluiscono l’una nell’altra come nella sperimentale “La luce langue”. Il coro che da pertichino grida “All’armi” ricorda il Trovatore ma con maggiore sintesi.
Per far circolare l’opera bisognava eliminare le morti, o almeno come si farà relegarle fuori scena, e eliminare l’aria sostituita poi con 3 versi di recitativo che poco fanno comprendere la decisione di Alvaro di farsi frate. Il finale venne cambiato eliminando il suicidio romantico di Don Alvaro che si gettava dalla rupe del convento: io stesso ho visitato questi luoghi ad Hornuacelos presso Cordova ed in effetti il convento è a strapiombo sulla valle. La Provvidenza manzoniana deve aver influito sulla riforma del finale con un terzetto dove il Fato viene accettato perché volontà di Dio terminando l’opera in un evanescente pianissimo.
Intelligente anche la scelta di creare una sinfonia pot-pourri invece che un breve preludio: i molti temi dell’opera vengono così ricapitolati a beneficio della compattezza di una opera molto composita. Ci rammarichiamo che Verdi non abbia composto una ouverture simile anche per I Lombardi alla Prima Crociata che soffre anch’essa di una disomogenea episodicità.
Abbiamo avuto la fortuna di ascoltare due recite di questa produzione fiorentina. La direzione cesellata di Zubin Mehta è risultata un poco rallentata. Ciò ha messo in difficoltà i cantanti e soprattutto il tenore. I tempi lenti hanno creato degli scollamenti tra solisti e orchestra proprio per la difficoltà di adattarsi a frasi molto più ampie che sicuramente non permettevano i giusti respiri prescritti.

Il protagonista Don Alvaro è Roberto Aronica che affronta con vigore l’ardua parte. Bello il duetto del primo atto con frasi dal particolare slancio. Pastoso il suono grave in dialogo col clarinetto nella aria che apre il terzo atto. Baldi i vari duetti col baritono. Se alla recita di lunedì 7 l’ultima parte del terzo atto ha segnato un certo affaticamento per il tenore, ciò non si è registrato nella recita di giovedì, più equilibrata. Durante l’agonia di Alvaro nel terzo atto un mimo che lo impersonava è stato immerso 10 minuti in una colonna d’acqua riemergendo solo per respirare brevemente. Una scena che teneva col fiato sospeso.
Il mongolo Amartuvshin Enkhbat è una macchina da guerra: affronta la parte di Don Carlo con una facilità spiazzante. Meditativa è l’inizio di “Urna fatale” ma proseguendo il baritono è capace di esplicitare la coloratura delle frasi finali nota per nota. Una evoluzione del ruolo del Conte di Luna. Peccato non sentirlo nella ripetizione (tagliata) della cabaletta che avrebbe portato ad applausi ancora più forti. La cabaletta è terminata con una serie di spari da parte di Carlo. Nei duetti col tenore Amartuvshin Enkhbat carica le frasi di rabbia e livore con in mente solo la vendetta.
Il soprano Saioa Hernández interpreta Leonora: il soprano, dall’exploit, di Attila alla Scala ha iniziato una carriera internazionale. Il suo canto perlaceo ben dialoga col vibrante violoncello in “Me pellegrina ed orfana”. Pura emozione. Questo brano era stato composto per il ruolo di Cordelia a conclusione del I atto del Re Lear, unico brano che ci sia pervenuto oltre a tre redazioni complete del libretto. La sua vocalità è esaltata nell’immensa gran scena “Madre pietosa vergine” dall’accompagnamento ansimante. Segue l’apertura catartica di ” Pietà di me, signore… Dio, non m’abbandonar” frase indelebile in tutti noi. Il duetto con il Padre Guardiano è di particolare intensità con frasi che continuano a cambiare ad ogni momento: non possiamo dire che sia quadripartito o più diviso ma è proprio una successione di affetti contrastanti, un duetto modernissimo. Saioa Hernández la incontreremo solo alla fine con uno chopiniano “Pace mio Dio” e un sofferto terzetto dove riesce realisticamente a farci interdere gli ultimi singulti della vita.

Nicola Alaimo è Fra Melitone completo e divertentissimo: il baritono palermitano riesce ad andare a fondo nel personaggio illustrando con una voce ricca e agile la schiettezza, la cattiveria, la rabbia e l’ambiguità del personaggio ben lungi da uno stereotipato basso buffo a cui si relega talvolta il ruolo. E’ necessario un importante baritono per questo ruolo ma ci rendiamo conto che il primo Melitone, a San Pietroburgo fu il grande Achille De Bassini già creatore del ruolo di Francesco Foscari ne I due Foscari, di Seid ne Il corsaro e Miller in Luisa Miller. Nicola Alaimo ha tutte le carte in regola per affrontare un ruolo particolarmente acuto, come nella Predica del terzo atto. La frase acutissima “Non isperi la terra alcuna pace” viene cantata con una facilità sorprendente. La linea di canto è robusta, il volume riempie tutto il grande teatro del Maggio ed ancora una volta le doti attoriali esaltano la prova di Alaimo, non vi è gesto, occhiataccia, che non sia studiata alla perfezione per aumentare il realismo del personaggio.
Padre Guardiano è Ferruccio Furlanetto autorevole nel descrivere il frate da cui dipende la vita di Leonora. La voce è ancora ampia e sonora, solo in qualche nota lunga è ravvisabile un poco di vibrato accentuato dai tempi lenti del direttore. Nel duetto con Leonora, Furlanetto è sicurissimo del suo canto, prosegue spedito facendo ben risaltare il controcanto rispetto il soprano.

Incantevole la Preziosilla di Annalisa Stroppa, mezzosoprano bresciano che tanto amiamo. Ogni suo intervento è pieno malizia ed intelligenza. “Al suon del tamburo, al brio del corsiero” viene reso con piglio militaresco, tutto brio e fragranza. La linea di canto e malleabile, i salti sicuri, gli acuti svettanti come nel famoso “Rataplan” dove la voce di Annalisa Stroppa supera l’intera formazione corale con un canto mobilissimo. I costumi che ha dovuto indossare sono stati alquanto provocanti e fantasiosi. “Venite all’indovina, ch’è giunta di lontano” è introdotto dal suono brillante di due ottavini, chiara derivazione da una scena simile nell’accampamento dell’atto II de L’étoile du nord alla cui prima mondiale assistette Verdi.
Mastro Trabuco è il simpatico Leonardo Cortellazzi ascoltato molte volte nel repertorio barocco. Disegna un Trabucco spazientito nel secondo atto e un venditore avido nel terzo atto. Grande la professionalità di Cortellazzi che è impegnato nella parte di un tenore brillante.
Ottimo il coro utilizzato da Verdi in tanti numeri di questa partitura, dall’etereo “La Vergine degli Angeli” al citato “Rataplan”. Anche gli interventi de coro nell’aria di Melitone del IV atto atto sono stati ben eseguiti in un dialogo serrato col baritono.
Carlus Padrissa della Fura del Baus, ci offre una regia in un paesaggio apocalittico di difficile comprensione. Tutto è generato o risucchiato da un buco nero durante la sinfonia. Il secondo atto è ambientato nel 2027 in un Ostello Stradale (!?!). Esteticamente scene e costumi sono molto discutibili. Si vuole creare un universo apocalittico ma con una estetica molto debole. Il quarto atto nel 3333 (!) è ambientato dopo la terza guerra mondiale quando le persone ritornate alle caverne combattono con bastoni e pietre. Melitone vestito da cavernicolo non l’avevamo mai pensato e nemmeno avremmo pensato di vedere combattere Carlo e Alvaro coi bastoni. Lunghi i cambi di scena con inutili scritte apocalittiche. Alcune interessanti proiezioni nel terzo atto, durante una scossa di terremoto e nell’apparizione finale di Leonora nel IV atto con un occhio e mille raggi che esaltavano la sua sortita.
Siamo stati felicissimi di assistere a due repliche di questa Forza del destino cantata da un cast di assoluto rilievo e godere di 3 ore e 45 minuti della musica del grande Verdi in una delle città d’arte più belle al mondo che si sta risvegliando ed è pronta per un raffinato turismo come abbiamo potuto percepire nei nostri 6 giorni a Firenze tra gli Uffizi con 25 nuove sale e mostre dedicate a Dante.
Fabio Tranchida