Opera in cinque atti
Libretto di Eugène Scribe e Charles Duveyrier
Musica di Giuseppe Verdi
Prima rappresentazione assoluta, Théâtre de l’Académie Impériale di Parigi, 13 giugno 1855
La duchesse Hélène Roberta Mantegna / Anna Princeva
Ninetta Irida Dragoti
Henri John Osborn / Giulio Pelligra
Guy de Montfort Roberto Frontali / Giorgio Caoduro
Jean Procida Michele Pertusi / Alessio Cacciamani
Thibault Saverio Fiore
Daniéli Francesco Pittari
Mainfroid Daniele Centra
Robert Alessio Verna
Le sire de Béthune Dario Russo
Le comte de Vaudemont Andrii Ganchuk
DIRETTORE Daniele Gatti
REGIA Valentina Carrasco
MAESTRO DEL CORO Roberto Gabbiani
SCENE Richard Peduzzi
COSTUMI Luis F. Carvalho
LUCI Peter van Praet
COREOGRAFIA Valentina Carrasco e Massimiliano Volpini
Orchestra, Coro e Corpo di Ballo del Teatro dell’Opera di Roma
con la partecipazione degli allievi della Scuola di Danza del Teatro dell’Opera di Roma
Nuovo allestimento Teatro dell’Opera di Roma
Parigi era a metà dell’ ‘800 il centro del mondo, non solo musicale, e tutti gli artisti aspiravano al successo nella città imperiale governata da Napoleone III. Già Rossini compose 5 opere in suolo francese per l’allora sovrano Carlo X, di cui tre grand-opéra. Meyerbeer dopo aver lavorato vari anni in Italia portò con successo Il crociato in Egitto a Parigi e da lì inanellò una serie continua di successi: Robert le diable, Les Huguenots, Le Prophète, L’Africaine ( o meglio Vasco da Gama), L’étoile du Nord e Dinorah. Meyerbeer teneva in scacco l’Opéra e tutti aspettavano diligentemente la fine delle lunghe gestazioni di queste opere. Prima di mettersi a comporre Les vêpres siciliennes, Verdi conosceva bene Robert le diable, Les Huguenots e soprattutto Le Prophète che vedeva come capolavoro inarrivabile: scrivendo a Scribe gli chiedeva con insistenza di realizzare per lui una scena come quella dell’Incoronazione de Le Prophète nella sua opera. La considerava miracolosa e voleva un miracolo anche per sé. Ma Scribe non si impegnò molto per il maestro italiano e riciclò un libretto già creato per Donizetti, Le Duc d’Albe che il maestro bergamasco lasciò incompiuto. Donizetti negli ultimi tre anni di attività cercò più volte di completare l’opera ma sempre nuovi progetti gli fecero posticipare il completamento, finché sopraggiunse la malattia che lo portò alla morte. Verdi era ignaro di questo riciclo e chiese numerose modifiche al libretto che vennero accolte in minima parte da Scribe, sempre sordo alle lettere di Verdi, e assente durante le lunghe ed estenuanti prove.
Ne risulta una opera senza le innovazioni e modernità che caratterizzano Le Prophète e senza una scena epocale come quella dell’Incoronazione: dovremo aspettare il Don Carlos affinché l’impegno dei librettisti consegnino a Verdi un libretto moderno ed efficace. Non che Les vêpres siciliennes non siano efficaci, anzi la trama è ben congeniata e i rapporti tra i personaggi scavati a fondo nei continui contrasti. La struttura invece pare un po’ vecchia ed usurata per il 1855, infatti il libretto risaliva al 1840, con una successione di aria, duetto e finale in quasi tutti gli atti, cosa di cui si lamentava molto il bussetano.
La precedente opera Jérusalem era stato un successo per Verdi a Parigi, e anche quest’opera ebbe un discreto successo e venne molto apprezzato il lungo balletto di qualità molto superiore al grezzo balletto di Jérusalem. Verdi scrisse ulteriori balletti per le versioni francesi delle sue opere, per Trouvère, Macbeth, ampliò quello di Aida, e Othello. Delle volte il balletto de Les vêpres siciliennes, Le quattro stagioni, venne eseguito separatamente o accoppiato con Giselle.
L’opera ebbe una sessantina di rappresentazioni, un discreto successo, a niente in confronto allo strapotere di Meyerbeer. Il Macbeth francese venne schiacciato nel 1865 dalla contemporanea esecuzione postuma dell’Africaine. Il Don Carlos dopo la prima serie di repliche non vene più rappresentato all’Opéra fino al ‘900. Il rapporto quindi con Parigi fu sempre quindi di attrazione e incomprensione.
Daniele Gatti ha rilasciato una intervista dove insisteva sulla necessità di dare l’opera nella lingua originale: non possiamo che essere d’accordo. La poesia di Scribe vince su qualunque traduzione goffa che mina l’integrità del verso. L’opera è stata eseguita integralmente, e ne siamo felicissimi, compreso l’episodio del balletto qui trasformato in pantomima. Roma sceglie per l’inaugurazione una opera mastodontica con uno spettacolo di quattro ore e mezza, impegnativo anche per i quattro solisti che sia nel primo che secondo cast hanno dato ottima prova. Sui media si sarebbe dovuto parlare di questa prima quanto di quella scaligera.
L’opera è un inno continuo alla patria, al proprio paese, alla libertà, e per la prima volta Verdi poteva esprimersi così liberamente di argomenti a lui sì cari. La figura di Procida, una specie di Garibaldi, non fa una ottima figura nel libretto. Vuole liberare la Sicilia ma è lui stesso che sobilla i francesi per lo stupro dopo la tarantella; congiura in maniera vile contro Monfort. Verdi era ben cosciente del lato negativo che Scribe diede a Procida ed essendo italiano non voleva palesare troppo questi aspetti. Alla fine dell’opera Verdi musicò, durante l’attacco precipitoso finale, dei versi per Procida veramente terribili “Frappez-les tous! Que vous importe? Francąis ou bien Siciliens, frappez toujours! Dieu choisira les siens!”. Sebbene musicate ed eseguibili queste frasi furono tagliate da Verdi stesso e non ci è mai capitato di ascoltarle a teatro.
La duchesse Hélène è la giovane Roberta Mantegna, ascoltata l’anno scoso nel Pirata alla Scala. Già ci sembra cresciuta vocalmente con un approccio molto professionale alla parte. Sia Donizetti che Verdi vedevano nel ruolo femminile di quest’opera una donna tutt’altro che sottomessa, capace di sobillare la propria gente. La prima aria composta su testo simile da Donizetti e da Verdi è suddivisa in varie sezioni musicali, molto varie che seguono con attenzione la parola. La Mantegna quasi parla insistendo su “Dans vos mains” per poi prorompere con “Courage!… Courage!” una cabaletta veramente infiammata. Come nella scena finale di Belisario sarà tutto il coro a riprendere il tema in perfetta intesa con Hélène. Brillante l’acuto finale che si staglia su tutti. Raggelante l’incipit del primo duetto con Henri, “Près du tombeau peut-être” dove la Mantegna incede quasi su una marcia funebre sui legni nel registro grave. Disinvolta nel Bolero del V atto, in accordo con il direttore alcune frasi sono cantate con dei “ritardando” per poi riprendere il brio iniziale. Ciò dà all’aria una dimensione più profonda e meno esornativa.
Henri è l’inarrivabile tenore americano John Osborn che seguiamo in tutta Europa da dieci anni. Qui a Roma ha già avuto modo di esibirsi, con un superbo e complesso Benvenuto Cellini e con il divertente Fra Diavolo. A Francoforte ha eseguito a gennaio 2019 una Arturo di grande qualità in una edizione integralissima dei Puritani come neanche Bellini ebbe modo di ascoltare. La sua pronuncia del francese è ottima, il suo fraseggio sempre ben scolpito e le frasi piene di temperie romantica. Le ampie melodie verdiane già si palesano nel duetto tra Henri e Montfort: “Punis mon audace! Je sais que ton coeur” canta con slancio Osborn mentre il padre punteggia la frase come un pertichino. Alla fine del duetto Verdi sorprende tutti inserendo un ultimo scampolo di recitativo che Osborn trasforma in una colata lavica “Eh bien!… mes jours pour elle!”. Ampia la scena riservata al tenore nel IV atto dove il tenore americano ha sia modo di esprimere il dolore nel cantabile che la paura di una maledizione e del disprezzo nelle frasi finali cantate con uno slancio coinvolgente. Il tenore è particolarmente abile di utilizzare le mezze voci nel duetto seguente quando l’accompagnamento dell’arpa rende rarefatta l’atmosfera. Nell’aria finale del V atto raggiunge con disinvoltura il re sovracuto volgendosi verso le scene nel cantarlo così da attutire il suono in un gesto particolarmente elegante.
Guy de Montfort è Roberto Frontali, baritono con grande esperienza che riesce a descrivere un uomo emozionato nel ritrovare il figlio; tutta la sua grande aria “Au sein de la puissance” è giocata sulle parole “Mon fils” posizionate nei momenti chiave e da Frontali espanse fino al parossismo emozionale. Il duetto che segue con Henri incorpora la melodia principale della sinfonia, melodia che viene prima cantata da Frontali e poi ripresa a fine duetto da Osborn. Un duetto centrale, particolarmente rifinito da Verdi, dove Frontali ha modo di sviluppare il suo personaggio con un canto sempre sostenuto, senza nessuna difficoltà nella parte che spinge verso l’acuto.
Jean Procida è Michele Pertusi, basso di Parma, che ha interpretato tutti i bassi verdiani con sempre crescente successo. L’ambigua figura di Procida è ben espressa, con le sue frasi sibilline rivolte ai francesi che non esitano a stuprare 12 siciliane pronte per il matrimonio. Ne segue una scena dove Procida con figura anapestica invita alla rivolta mentre dal mare sentiamo il canto lieto degli invitati al ballo. Un tentativo da parte di Verdi di imitare una simile scena de Les Huguenots a fine atto III. Pertusi canta una sentito “Et toi, Palerme” applaudito sia a fine cantabile che al termine della cabaletta con il raddoppio della tromba e con il coro a demi-voix. Nella stretta del IV atto Pertusi ha un tema puntato indipendente che sostiene tutto il complesso concertato, e il grande basso svolge perfettamente questo ruolo di sostegno con una perfezione ritmica ineccepibile. Alessio Cacciamani nel secondo cast in questo ruolo è risultato alquanto impreciso nel medesimo momento dell’atto IV. Interessante Pertusi anche nel lungo ultimo terzetto con le sue frasi, a parte, rivolti ad Hélène e il suo continuo incalzare.
I quattro militari francesi sono stati cantati con precisione e tutti i ruoli minori ben preparati per una ottima riuscita complessiva. Molto impegnato il coro dell’Opera di Roma che spesso era diviso in due compagini, popolo siciliano e militari francesi. Questi effetti stereofonici sono stati preparati con la dovuta perizia rendendo percepibili le raffinate sovrapposizioni delle armonie verticali tanto care a Meyerbeer.
Daniele Gatti tiene in pugno una grande orchestra che ubbidisce con attenzione alla sua direzione appassionata. Maestosa la grande sinfonia d’apertura con la figura anapestica della rivolta in pianissimo, e il tamburo militare che introduce i temi dell’opera con particolare ferocia. Tutti i fiati sono sotto pressione nella sinfonia e l’ottavino rende brillante parecchi temi. Una girandola di colori che riscontriamo anche in molti episodi dell’opera, nelle salde mani di Gatti che ha particolare rispetto delle voci con tempi mai affrettati. Brillante il balletto delle Quattro stagioni, che risulta un tour de force per l’orchestra di Roma che supera perfettamente la prova con ritmi serratissimi e galop incalzanti. Scenicamente invece che vedere un balletto abbiamo visto raccontare della regista la storia del popolo siciliano. Da una pietra/sepolcro in scena compare la madre di Henri che con altre siciliane balla ma viene violentata dai militari. Bella la scena della purificazione, mentre le donne si lavano, ma poco dopo vi è la scena del parto e i bimbi già grandi attaccheranno i militari. Una successione che segue i momenti lenti e veloci del balletto con particolare attenzione. In 30 minuti si è potuto costruire una opera nell’opera.
Valentina Carrasco ambienta tutta l’opera in una cava di pietra, dove i siciliani hanno perso la propria libertà. Vi è sempre presenta una pietra al centro della scena che diventa di volta in volta podio per Hélène per muovere il popolo, il sepolcro della madre di Henri, il luogo dove nel IV atto si uccidono i prigionieri. Tutto appare grigio e opprimente con grandi elementi squadrati che compongono le varie scene e nel breve finale dell’opera questi elementi di roccia schiacceranno i francesi mentre Henri rimarrà con una mano sospesa e un sasso in mano pronto a scagliarlo sulla testa di Montfort. Avrà il coraggio di farlo?
Abbiamo avuto modo di ascoltare tre sere questo grande capolavoro per apprezzare gli aspetti orchestrali, scenografici, i grandi interpreti che anche nel secondo cast non hanno affatto deluso. Una importante inaugurazione del Teatro del’Opera di Roma che ha investito enormi energie per la riuscita di questo spettacolo. Il programma di sala risulta particolarmente ricco di saggi e approfondimenti in una preziosa copertina dorata. Grande successo e solo sporadiche contestazioni alla scelta di un balletto mimato piuttosto che danzato. Si prospetta una grande bella stagione all’opera di Roma di cui vi daremo notizia.
Fabio Tranchida