Melodramma tragico in tre atti di Salvatore Cammarano
dal dramma Kabale und Liebe di Friedrich Schiller
Musica Giuseppe Verdi
Edizione critica a cura di Jeffrey Kallberg
The University of Chicago Press, Chicago e Casa Ricordi, Milano
Chiesa di San Francesco del Prato
sabato 5 ottobre 2019
Il conte di Walter RICCARDO ZANELLATO
Rodolfo AMADI LAGHA
Federica MARTINA BELLI
Wurm GARIELE SAGONA
Miller FRANCO VASSALLO
Luisa FRANCESCA DOTTO
Laura VETA PILIPENKO
Maestro concertatore e direttore ROBERTO ABBADO
Regia LEV DODIN
Scene e Costumi ALEKSANDR BOROVSKIJ
ORCHESTRA E CORO DEL TEATRO COMUNALE DI BOLOGNA
Maestro del coro ALBERTO MALAZZI
Il Festival Verdi è sempre molto ricco e presenta anche quest’anno 4 titoli di assoluto interesse: a parte Aida, composizione tarda, ci si concentra nella prima fase della carriera del bussetano con 3 opere degli anni di galera come lui stesso definì la prima fase della sua carriera. Affrontiamo in questo articolo Luisa Miller che secondo noi è solo nominalmente negli anni di galera poiché precede la trilogia popolare, ma in realtà è una opera pienamente matura e non scritta di certo di fretta per i preziosismi che si possono trovare lungo tutta la partitura.
Schiller è trattato con rispetto da Cammarano, non certo come fece Solera nella Giovanna d’Arco, e il solo grande tradimento a Cabala e Amore è nel personaggio di Federica che da favorita del Conte Walter diviene una docile promessa sposa di Rodolfo. Cammarano ammette nelle sue lettere questa autocensura, sapendo i meccanismi della censura napoletana che non avrebbero permesso un Federica come intesa da Schiller. Verdi elabora una partitura ricchissima, dalla sinfonia monotematica (esperimento mai più tentato) a una stretta dell’introduzione che finisce in una realistico decrescendo, da un finale I senza stretta a un quartetto a cappella di notevole difficoltà. Il terzo atto è davvero il meglio riuscito per la compattezza dei temi che ritornano e per il realismo con cui si svolge il duetto tra padre e figlia e tra Luisa e Rodolfo entrambi morenti.
Il Festival Verdi dopo il prezioso scrigno del Teatro Farnese sceglie un nuovo luogo per le rappresentazioni la Chiesa di San Francesco del Prato. La grande chiesa gotica sede della comunità dei frati francescani conventuali con i suoi ampi chiostri in parte spariti, fu utilizzata tristemente come carcere per duecento anni. Dopo una prima soppressione borbonica nel 1769 ci fu la restituzione del convento ai frati, ma seguì la soppressione napoleonica ottocentesca che risultò definitiva. Nel 1804 le truppe militari francesi lo occuparono, cacciando la comunità dei frati francescani. I muri di cinta vennero rialzati e trasformati in alti camminamenti con garitte di osservazione, la navata centrale fu utilizzata come laboratorio, mentre le navatelle centrali furono soppalcate per far posto alle celle e ai servizi di detenuti e guardie. Le grandi e maestose arcate gotiche furono chiuse e accecate da muri di tamponamento. Tutto l’interno fu trasformato in una struttura a U alla cui base si trovavano i servizi di portineria. L’altare maggiore, gli altari delle cappelle, il coro ligneo finemente intagliato furono distrutti. Tele e tavole dipinte furono disperse mentre gli affreschi furono ricoperti da intonaco grigiastro. Furono tamponate le finestre trecentesche, distrutto il pronao e aperte nuove finestre con doppie grate in ferro.
Abbiamo trovato la chiesa solo in parte restaurata liberata dai soppalchi che la dividevano in più piani. Gli intonaci e le scialbature sono ancora da eliminare e speriamo rivelino qualche affresco interessante nelle cappelle. I ponteggi sono presenti sia esternamente che internamente limitando nella navata principale lo spazio per il palcoscenico che si articola solo nello spazio presbiteriale e nella abside centrale soffocata dai ponteggi,
Si dice che solo per il Macbeth in francese del prossimo Festival la chiesa sarà definitivamente pronta e libera.
La tribuna creata a metà altezza della navata e riservata ai critici è stato un luogo privilegiato per vedere l’opera, e dal quel punto l’acustica è risultata valida con un suono asciutto e chiaro senza alcun alone sonoro.
Il cast scelto per questa esecuzione era di altissimo livello e molto omogeneo, permettendo all’ascoltatore di apprezzare in ogni suo punto il capolavoro verdiano.
Il conte di Walter è un perfido Riccardo Zanellato, che si presenta con una difficile aria nel primo atto. Zanellato riesce a disegnare della ampie frasi con un sontuoso legato. Una vera colata lavica è il verso “Di dolcezze l’affetto paterno” che ritorno due volte nell’aria. Perfido e disumano nel finale I, affronta con notevole vigore il duetto con Wurm dove le due voci basse si confrontano narrando con realismo l’omicidio commesso. Wurm è Gabriele Sagona, basso dotato di notevole volume, che emerge con autorità nel duetto di cui ho accennato. Wurm risulta figura più bidimensionale e appare interessante nell’aria con Luisa dove la costringe a firmare la lettera che sarà la sua condanna.
Luisa Miller è la giovane Francesca Dotto impegnata in tre differenti arie in ogni atto: il soprano trevigiano che fra poco sarà Lucrezia Borgia, Violetta Valery e Liù, impressiona per la precisione di un canto senza alcuna sbavatura. Nella prima aria all’inteno dell’introduzione ecco le pulite terzine e il limpido trillo che risalta su tutta l’orchestra. Imponente diventa la su figura nella cabaletta del secondo atto “A brani, a brani o perfido” dove la voce cresce di volume senza mai perdere il controllo delle frasi arroventate. Nel terzo atto l’intenzione a commettere suicidio è cantata con la giusta inconsapevolezza, una azione estrema ma vista come unica soluzione dalla innocente ragazza: ne esce quindi, dalla interpretazione della Dotto, un personaggio complesso e realistico che ci ha emozionato.
Rodolfo è Amadi Lagha tenore tunisino dotato di ottimo timbro ed eleganza nel porgere la frase. Molta la passionalità nei confronti di Luisa come nella bella frase “T’amo d’amor che dirsi, mal tenterebbe il detto” saltellante di gioia. Drammatico nella grande aria “Quando le sere al placido” che inizia con un ricordo della perduta felicità. L’aria è un vero scoglio per tutti i tenori per via dell’ardua tessitura e della posizione a fine atto ma Amadi Lagha affronta tutto ciò con energia e le due ripetizioni della cabaletta “L’ara o l’avello” sono dotate di sicurezza e squillo. Il tenore emerge in questa complessa scena sul padre e coro che fanno da pertichini all’aria creando così un finale II all’atto.
Tra i più applauditi della serata troviamo il Miller di Franco Vassallo che tratteggia con autorità la figura del padre-baritono figura chiave nell’estetica verdiana. Prima di Miller solo Macbeth aveva avuto così tante attenzione da parte di Verdi nella figura baritonale. Miller viene trasformato da Cammarano da musicista a militare in pensione aumentandone la serità e l’autorità. “Sacra la scelta è d’un consorte” è una ampia aria fraseggiata benissimo da Vassallo che non teme le difficili salite verso le regioni più acute. Anche nel duetto finale con la figlia l’aspetto più umano del personaggio appare con la massima credibilità.
Federica è Martina Belli mezzosoprano di Reggio Emilia, gioca quindi in casa nella sua Emilia. Bene sia nel duetto con Rodolfo che nel difficile quartetto a cappella affascina anche per la figura seducente. Laura è Veta Pilipenko che specie nel coro del terzo atto ha modo di emergere con la giusta professionalità.
Magistrale la direzione di Roberto Abbado che affronta la partitura nella sua integralità con tutte le cabalette ripetute due volta per far emergere al massimo il pensiero verdiano. La sinfonia, che il Maestro Abbado apprezza moltissimo tranne l’ultima esposizione che trova di un livello inferiore, è suonata con notevole compattezza e asciuttezza nel suono sempre molto corrusco e meditato. Poca luca traspare dalla sinfonia fino all’esposizione del tema in maggiore. Leggiadri i flauti e i legni nel coro pastorale che apre l’opera, che nella ripresa viene “colorato” da esili arabeschi. Abbado si supera nel terzo atto che viene coniato in un pezzo unico dal teso preludio al tragico finale.
Notizie un poco negative dalla regia di Lev Dodin che sa muovere poco i personaggi e pochissimi i numerosi mimi sulla scena che si limitano ad entrare in scena e uscire in maniera del tutto anonima. Anche quando l’azione si fa più rovente nel finale I o nel finale III i personaggi camminano nell’entrare e nell’uscire facendo di questa rappresentazione una esecuzione in forma di concerto con costumi. Certo il coro è bloccato tra i ponteggi dell’abside e a ciò il regista non può mettere mano. Il coro come sempre a Parma canta ottimamente, con un suono compatto e precisione assoluta. Lo intravediamo in fondo alla scena e lo udiamo perfettamente. Sulla scena purtroppo accade poco niente, se non la costruzione di un tavolo che diviene scena dopo scena sempre più lungo. Alla fine tutti i mimi/commensali muoiono per il veleno di Rodolfo senza una logica nel dramma. Nonostante il ridotto palcoscenico la regia poteva fare molto di più. Apprezzabili le luci che illuminavo dello stesso colore sia l’abside che le cappelle laterali avvolgendo il pubblico.
Siamo molto contenti di aver assistito a quest’opera in un luogo simbolo di Parma, un luogo che presto sarà restituito ai cittadini e al mondo: vocalmente e musicalmente l’esecuzione è stata di altissimo livello e vi invitiamo alle altre tre opere in programma, ai numerosi concerti ed eventi collaterali che animano questo importante festival. Viva Verdi.
Fabio Tranchida