Tragedia lirica in due atti di Nicola Antonio Manfroce

Libretto di Giovanni Schmidt
Edizione critica a cura di Domenico Giannetta
(Edizioni del Conservatorio di Musica “Fausto Torrefranca”, 2017)

Achille Norman Reinhardt
Priamo Mert Süngü
Ecuba Lidia Fridman (30 luglio) – Carmela Remigio (4 agosto)
Polissena Roberta Mantegna
Teona Martina Gresia
Antiloco Lorenzo Izzo
Duce greco Nile Senatore

Direttore Sesto Quatrini
Regia, scene e costumi Pier Luigi Pizzi
Luci / Regista assistente Massimo Gasparon

Orchestra del Teatro Petruzzelli di Bari
Coro del Teatro Municipale di Piacenza
Maestro del Coro Corrado Casati

Ecuba è una grande tragedia di stampo francese messa in musica da  Nicola Antonio Manfroce (Palmi 1791 – Napoli 1813), promessa della scena musicale italiana dei primi dell’ ‘800, che purtroppo si spense a soli 22 anni nel 1813, un anno dopo il debutto della sua opera, presso il Teatro San Carlo di Napoli, senza poter continuare la sua carriera.
Fu allievo di Furno e Tritto presso il famoso Conservatorio della Pietà dei Turchini di Napoli, e debuttò con una cantata destinata a celebrare il compleanno di Napoleone, eseguita alla corte di Napoli il 15 agosto 1809.
Lo stesso Rossini ammirava l’opera di Manfroce e ammise che se avesse vissuto una piena vita sarebbero diventati rivali. La sua prima opera fu Alzira per Roma lo stesso soggetto che Verdi mise in musica in fretta e furia per il San Carlo. Manfroce invece si dedicò molto ad Alzira costruendo una opera vicina alla fonte (Voltaire) e affidò la parte di Zamoro eroe dell’opera a un registro femminile en travesti, come era usanza.
Ecuba, la protagonista di questa opera in tre atti, è la mitologica regina di Troia, madre dell’eroe Ettore che è stato da poco ucciso dal pelide Achille: il soggetto proviene da Euripide che scrisse due delle sue opere (Le troiane e Ecuba) legandole a questa sfortunata regina, distrutta dal dolore. Un dolore talmente lancinante da suscitare in lei sentimenti di vendetta.
Durante l’epoca napoleonica e murattiana l’opera francese o di stampo francese era diventata d’obbligo al San Carlo il più importante teatro del mondo in quel periodo.
Spesso gli autori francesi venivano importati sic et simpliciter ma con l’Ecuba si cercò un compromesso traducendo fedelmente un libretto francese Hécube di Jean-Baptiste de Milcent affidandolo a musica partenopea del giovane Manfroce. Nonostante l’età il compositore riuscì a superare mille insidiose difficoltà. Il libretto proponeva le arie durante lunghi passi in recitativo precedenti e seguenti gli episodi solistici. Nella tradizione italiana invece dopo l’aria si usciva di scena. Manfroce riuscì a concatenare più scene, creando un flusso drammatico moderno senza oasi di distensione. Cori ieratici che espandono le arie in scene più corpose e un importante finale secondo unica vera concessione alla tradizione italiana.

Pier Luigi Pizzi, grandissimo regista di fama indiscussa realizza uno spettacolo privo di inutili orpelli. Una scena bianca divisa in tre spazi accoglie negli ambienti laterali il coro stante, come si può immaginare nelle tragedie greche. Al centro il catafalco su cui, durante la sinfonia, viene issato il corpo esangue di Ettore. Questa è una felice intuizione per comprendere l’antefatto che muove i destini dei 4 protagonisti. I tre trojani sono vestiti di viola mentre Achille con una armatura nera che fa da contrasto al luminoso bianco sullo sfondo.
Ecuba è stata impersonata il 30 luglio con un preavviso di 24 ore da Lidia Fridman sostituendo l’indisposta Carmela Remigio che probabilmente canterà il 4 agosto. Lidia Fridman è una cantante russa preparata da Paoletta Marrocu che le ha insegnato una tecnica molto solida. Lidia Fridman a debuttato in Statira al Teatro Malibran di Venezia. Nonostante non abbia fatto prove sceniche ha studiato ha fondo la produzione ed è risultata credibilissima sulla scena con la sua figura magra e longilinea. L’arioso drammatico “A quel sen” con corno solista è scavato ad ogni sillaba. Energica e contrastante la cabaletta “Se i sospiri” che raggiunge una deflagrazione con l’aggiunta del coro. La voce risulta chiara e algida, perfetta per un ruolo così estremo. L’arpa solista accompagna l’aria “Figlio mio?” nel secondo atto e viene ben sfruttata coi suoi arpeggi anche nel secondo episodio “E colei che gli diè vita”. Complimenti alla giovane cantante in perfetta sintonia con l’opera: molte le ovazioni a fine recita.
Polissena è Roberta Mantegna risultata anche lei perfettamente credibile in un ruolo di sottomissione. Bloccata tra un amore impossibile e le imposizioni materne rimane dubbiosa sul da farsi. Canta “Oppresse dal dolore” con buona intensità, sviluppando in successione le frasi sempre variate proposte da Manfroce. La voce è limpida e ben sostenuta e ciò è evidente anche nel duetto d’amore dove la sua linea di canto sovrasta sempre con evidenza quella del tenore. Il tenore, Achille, è  Norman Reinhardt che risulta l’elemento debole dei 4 protagonisti. “Là nel bollor dell’armi” non è messo bene a fuoco mentre è migliore nella più squadrata cabaletta “In me l’ardor guarriero”. Alcuni acuti risultano un po arrischiati ma comunque dotati di squillo. Prima del duetto, interessante l’arioso moderno “Ah! Lungi omai”. Sul libretto compare l’ aria  “L’amor tuo riprendi” ma sembra non sia mai stata composta.

Maiuscola la prova di Mert Süngü, un Priamo notevole. La parte fu scritta per Andrea Nozzari che diventerà cantante di riferimento per Rossini. Un ruolo da baritenore che Mert Süngü, tenore turco, affronta impavido. La prima aria “Pari a te” con cabaletta “Quando cessi in me la vita” è affrontata con voce piena e stentorea. Ben sviluppata la lunga coda che porta al tenore ad acuti insidiosi ma ben svolti. Nel terzo atto sostenuto da tutti gli ottoni canta “A’ lauti di quel crine” con canto sbalzato e discese vertiginose verso il grave, ben controllate.
L’Orchestra affronta senza pause i tre atti dell’opera, e Sesto Quatrini sostituisce con 7 giorni di preavviso Fabio Luisi. Una lettura tesa ma non priva di piccole sconnessioni col palcoscenico evidenti nel finale secondo. Un brano così complesso necessitava di più attenzione ma comprendiamo i cambi dell’ultimo minuto che hanno portato ritardi alla produzione. Bravi i solisti dell’orchestra impegnati nelle arie concertanti. Il coro è impiegato in maniera diffusa e svolge il compito sufficientemente bene: abbiamo preferito il coro maschile rispetto alla componente femminile. L’edizione critica approntata da Domenico Giannetta per il conservatorio di Vibo Valentia è di fondamentale supporto per questa messa in scena. Il successo è stato vivo da parte del pubblico per una opera ben allestita, una opera di rara modernità. Ricordiamoci che è un ventunenne l’autore di questo capolavoro ibrido che asseconda due tradizioni quella francese e quella italiana.

Fabio Tranchida