Leonor de Guzman: Veronica Simeoni
Fernand: John Osborn
Alphonse XI: Vito Priante
Balthazar: Simon Lim
Direttore: Donato Renzetti
Regia: Rosetta Cucchi
La Favorite è capolavoro assoluto dell’ultima maturità del grande bergamasco. Travagliata fu la genesi dell’opera, ma Donizetti seppe salvaguardare l’unitarietà e coerenza dell’opera con il suo grande mestiere rielaborando le mai compiute Adelaide e L’ange de Nisida, aggiungendo musica dalla Stuarda (coro e finale III) che pensava non più resuscitabile e un coro dalla Pia de’ Tolomei mai udita a Parigi.
Da tutto ciò nacque un’opera somma grazie ad una vocalità appassionata, al contrasto politico religioso, alla scena finale sacrilega con un frate di Santiago di Compostela che subito dopo i voti vuol fuggire con la favorita del Re. Potenza drammatica immensa forse troppo anche per la rivoluzionaria Francia, tanto che Donizetti tagliò per questioni censorie la cabaletta al duetto Léonor-Alphose dove il Re beffardo ripeteva “Et l’Eglise? Qu’importe.”. Sarebbe bello reinserire questa cabaletta a vantaggio musicale e drammatico della scena che necessita il giusto compimento divenendo struttura più monumentale ad introdurre da li a poco il grande Divertissment dei ballabili. Incredibile il finale secondo con un’architettura da grande opera senza gli sfilacciamenti meyebeeriani. Lo imparerà Verdi nelle sue opere francesi, ad esempio quando in Aida imiterà più il Donizetti del Poliuto (Les Martyrs) che le caleidoscopiche opere di Meyerbeer. E c’è molto più Dom Sebastien in Don Carlos di quanto si possa credere.
La capricciosa Rosine Stolz (causa dell’interruzione della composizione de Le duc d’Albe) fu la protagonista nel ruolo di Léonor. Potrebbe essere indice delle su bizze una seconda versione della cabaletta alla sua aria nel terzo atto “Sous le ciel dans cette ile” di cui non esiste ancora esecuzione moderna. Veronica Simeoni, da noi molto apprezzata come Isoletta a Zurigo e Edwige nel Tell di Pesaro ha mostrato tutta la sua professionalità: una voce brunita, potente, uniforme. Incisiva la sua sortita “Mon idole” piena di amore ma anche di preoccupazione: lirica la stretta del duetto che supera per varietà quella di Lucia “Toi, ma seule amie”, dove Donizetti combina bene i due differenti registri vocali fino all’unione alla ripresa. Brano celeberrimo “O mon Fernand!” l’aria di Léonor nel terzo atto piena di scarti e mutamenti fino alla tempestosa cabaletta piena di passione “Mon arret descend du ciel” dove la Simeoni ha sfoggiato sicuri sol diesis senza alcuna tema. Chiara nei numerosi ritmi puntati ci ha regalato un vero gioiello. Ottima attrice nel duetto finale, in stato febbrile ha comunicato esattamente che la morte stava sopravvenendo: spiace che invece di morire in scena come previsto dal libretto francese si dileguasse tra le scenografie.
John Osborn è stato un autorevole Fernand, ruolo concepito per Gilbert Duprez, primo Edgardo, Ugo in Parisina, Polyucte, e Dom Sebastien. Proprio per lui compose l’aria a chiusura d’atto, fatto alquanto insolito: “Oui ta voix m’inspire” dal ritmo marziale: un vero colpo di scena che come allora entusiasma i melomani. Osborn con oculatezza ha cantato anche la ripresa dopo il breve episodio ponte dove dice “Je reviendrai vainqueur”. Alla Fenice numerosi applausi al termine di questa gemma.
Scena che sarà ripresa da Verdi in Traviata, con l’invettiva del tenore ferito profondamente nell’onore e con un recitativo tesissimo tutto a terzine, “Au prix de mon honneur”, che dà avvio al concertato. Sempre lui rompe la spada davanti al re e con altrettanta potenza vocale, che il canto marmoreo di Osborn ha esaltato, conduce alla stretta con una melodia tratta dalla Stuarda ma poi con materiale nuovissimo. L’edizione critica parla di una nuova versione della stretta del finale terzo su temi del Prélude: non si capisce perché non si sia però inclusa la musica nello spartito e partitura a stampa precludendone l’esecuzione e la conoscenza ai musicologi.
Il coreano Simon Lim ha tratteggiato una priore che incuteva davvero timore reverenziale. Dal suo dispiacere alla fuga del convento di Fernand, suo novizio prediletto (inficiata da un taglio nel duetto) alla scena cardine per Balthazar che mostra la bolla del Papa. “Oui du Seigneur la clémence est lassée!” è un potente corale ben reso dalla profonda e ampia voce di Lim, che struttura il finale secondo: mano a mano incrementano le voci in questa raffinata ragnatela di rapporti vocali che crea una vera scena da grand opéra con mezzi semplici ma amplificati. Pensiamo alla sortita di (Papa) Leone in Attila e vediamo a quali livelli era giunto Donizetti.
Vito Priante apprezzato per le sue incisioni nel mondo barocco di Handel e Vivaldi è stato l’anno scorso Escamillo alla Scala e apprezzato Filippo ne La Gazzetta pesarese. Ben resa l’aria “Léonor viens” scritta per il grande Paul Barroilhet, valorizzato nel Trio dove le sue doti nel esplicitare il peso della parola venivano messe in luce dalla scrittura ponderata di Donizetti. Priante, stringendo il polso di una Léonor sottomessa, sottolineava coi gesti proprio queste battute piene di intenzioni celate con voce ben proiettata e calibrata, sebbene di spessore non ampio.
Rosetta Cucchi ha calato tutta l’opera in una specie di serra del futuro dove i Frati di Santiago sembrano gli ultimi depositari della vita delle piante (Offenbach con Le Roi Carotte aveva fatto meglio!). Il balletto (alquanto scorciato) ballato da due farfalle uccise forse per soffocamento all’interno di un inguardabile cono di plastica gonfiabile e la bolla del Papa a mo’ di scarica di DDT sui cortigiani del re… queste alcune delle idee fallaci con cui si è travisata la vicenda caricandola di significati non pertinenti. I costumi dal taglio classico con inserti assimetrici erano pertinenti alle scene e le luci e rendevano plumbea e mortificante tutta la vicenda, ma senza gli sprazzi di colore infusi talvolta dalla musica di Donizetti.
Tornando agli aspetti positivi, sottolineiamo la grandezza del maestro Donato Renzetti, donizettiano di lunga data che con rara professionalità ha illuminato il Prélude e sorretto abilmente le voci. Qualche piccolo taglio di troppo si poteva evitare ma sono peccati veniali poiché l’opera è stata eseguita con la giusta competenza, con un’arpa sensibile, un corno inglese dal raffinato colore e tutto il comparto dei fiati a brillare per un’orchestrazione sempre più attenta come succederà per Linda, Rohan, Don Pasquale e Dom Sebastien. Il coro della Fenice si è dimostrato preparatissimo con plauso alle donne nei due interventi corali a metà del primo atto. Rimaniamo sempre stupiti di come il compositore abbia potuto da realtà così disparate creare un’opera di rara unità: il quarto atto ad esempio è diviso solo in due numeri di una unità eccezionale, con la vicenda piegata dagli eventi in maniera naturale e discorsiva. Viene davvero da pensare a cosa Donizetti avrebbe potuto fare se avesse potuto vivere in salute più anni.
Fabio Tranchida