Don José: José Cura
Carmen: Elina Garanča
Micaëla: Elena Mosuc
Escamillo: Vito Priante

Direttore: Massimo Zanetti
Regia: Emma Dante

Il 2015 a Milano verrà certamente ricordato come l’anno di Expo. La vita della città è stata inevitabilmente stravolta dall’incombere dell’evento internazionale, che chiama ad un salto di dimensione. Il Teatro alla Scala, fresco di cambio del sovrintendente, ha risposto alla sfida soprattutto cercando di proporre una stagione più estesa del solito, con alzate di sipario quasi quotidiane. Da qui deriva l’esigenza di recuperare una serie di produzioni di grandi titoli da riproporre. Carmen, fra i titoli più eseguiti in tutto il mondo, non poteva mancare, ed apre la serie di riprese (degne di un teatro cosiddetto “di repertorio” più che di uno “di stagione”) che includeranno Cavalleria e Pagliacci,Tosca, Il barbiere di Siviglia, La bohème, L’elisir d’amore, Falstaff e Wozzeck.

La messainscena è quella recente di Emma Dante, che aprì la stagione 2009/2010 sollevando notevoli polveroni. A giudicare dai commenti fuori dal teatro, a distanza di cinque anni la reazione del pubblico pare essere rimasta piuttosto contrastante, anche se la mancata uscita a fine recita della Dante ha riservato la solita corrida dei buu e degli applausi solo agli interpreti, come vedremo. Certo è che la ripresa, curata dalla stessa regista, ha seguito fedelmente la versione nel 2009 senza mediare in alcun modo, nemmeno sugli aspetti più criticati. Fra questi, resta a nostro avviso irrisolto soprattutto il rapporto scenico fra il dramma dei protagonisti e l’assieme coreografico che sta loro attorno. Mentre il primo si assesta su un linguaggio teatrale abbastanza ordinario, il secondo mescola in modo poco convincente elementi di Tanztheater, di surrealismo simbolico e di parossismo macchiettistico. Inevitabile che così esso risulti al più un (ben realizzato) riempitivo, dal quale traspare eccessivamente una volontà di provocare (sempre forzati i continui riferimenti al cattolicesimo superstizioso del Sud Italia) che poco morde concettualmente e molto disturba esteticamente per la sovrapposizione di registri eterogenei. Con qualche “caduta di stile” in meno sarebbe stato indubbiamente uno spettacolo pienamente riuscito.

Completamente diverso dal 2009 era invece il cast vocale. Partiamo dalla più attesa, la protagonistaElina Garanča, che finalmente dopo anni di carriera ad altissimi livelli debutta in un’opera alla Scala. Era attesa già per il Don Giovanni inaugurale del 2011, ma la gravidanza rimandò l’appuntamento fino ad oggi (se si escludono un recital nel 2012 ed unRequiem di Verdi nell’ottobre scorso). L’impatto è stato immediatamente positivo, fin da una Habanera cantata con tutto il fascino di un timbro naturalmente scuro e mai artificialmente scurito da affondi e intubamenti. Dimentichiamo tuttavia le Carmen di enorme tonnellaggio vocale: la Garanča non ha un petto sonoro ed ha chiaramente più facilità nel registro sopranile che in quello da mezzo. D’altro canto, ha una duttilità nel piegare la voce che è oggi l’arma in più di qualunque cantante di successo. Per questo il mezzosoprano lettone ben rappresenta la “new wave” del canto lirico oggi, che porta alla ribalta voci meno generose di quelle del passato, ma spesso più particolari e uniche. Unendo beninteso anche l’importanza dell’immagine, per amor di marketing. La Garanča ha in questo senso tutte le carte in regola, ed è a buon titolo con la Netrebko la regina dei cachet. Sia le caratteristiche vocali che quelle estetiche (bionda, occhi azzurri, slanciata e asciutta) la portano ad essere una Carmen decisamente diversa dalla tradizione, quasi algida e introversa, che seduce e domina più che altro per poter proteggersi dalla fragilità di un’affettività bidirezionale. Una figura che forse mal si concilia con la regia molto esuberante e mediterranea pensata per i riccioli neri della giunonica Rachvelishvili. Applausi e ovazioni finali non le sono in ogni caso mancati, e meritatamente. La riascolteremo in Santuzza a giugno, ancora una volta in un ruolo che tuttavia desta qualche perplessità. Speriamo presto in qualcosa di più belcantista invece, per un vero trionfo.

Suo sparring partner era invece una vecchia conoscenza: José Cura. Se il generoso tenore argentino ha iniziato da qualche anno la carriera di regista, significa che perfino lui comincia a rendersi conto che gli anni passano, e la mancanza di tecnica e disciplina vocale prima o poi si paga. Come nei Pagliacci del 2011, la bravura in scena è stata funestata da una vocalità troppo istintiva e logora. Il registro acuto è totalmente staccato dai centri, sempre sforzato, con un largo vibrato e  un timbro sfibrato di conseguenza. Il resto della prova è altalenante, nel senso che alterna momenti splendidi di grande intensità a passaggi ai limiti del grido e privi di ogni immascheramento. Come Don José, non fosse che per l’omonimia e per il carattere tutto passione e niente controllo, è comunque credibile. Prevedibile pioggia di buu, come quattro anni fa, al termine della recita, ma poco ne cale a Cura, che ironicamente ricambia con un saluto e un bacio.

Sempre piacevole invece ascoltare Elena Mosuc, che a differenza del succitato ha una tecnica invidiabile che ancora le concede una vocalità fresca e impeccabile. Micaëla non è forse il ruolo che più mette in mostra le sue doti di agilità e di facilità nel registro acuto e sovracuto, ma il colore chiaro e il fisico minuto sono perfetti nel delineare l’innocenza e la purezza del personaggio. È attesa a maggio-giugno in Lucia, che certamente darà maggior sfogo a tutto il suo potenziale vocale. Intanto è promossa da calorosi applausi. Meno convincente, ed anche criticato da alcuni irriducibili loggionisti, è stato invece il baritono Vito Priante come Escamillo. Eppure la sua impostazione ci è parsa corretta, l’intonazione non ha mai vacillato ed il fraseggio è efficace, seppur accademico (d’altronde in un personaggio così monodimensionale poco si può scavare). Ha pagato forse un volume non generoso.

Positivi gli altri interpreti. Spiccano per ragioni diverse il Dancaïre di Michal Partyka e il Moralès di Alessandro Luongo. Il primo ha voce squillante e sicura che farebbe piacere risentire, il secondo conferma il bel mix di doti vocali e sceniche, coronate da un colore brunito e da duttilità di fraseggio, già mostrate in tanti teatri italiani di seconda fascia. Corretto ma poco udibile Gabriele Sagona come Zuniga. Ottime le contribuzioni puntuali di Hanna Hipp eSofia Mchedlishvili come Frasquita e Mercédès.

Chiude la rassegna la direzione di Massimo Zanetti, altro ripescato di Pereira che mancava dalla Scala da anni e che oramai si è costruito una carriera quasi esclusivamente all’estero. Francamente poco condivisibili in questo caso le contestazioni piovute al suo indirizzo nella ribalta finale. Se si escludono alcune imprecisioni col coro femminile, dovute probabilmente a tempi eccessivametne rapidi, la prova di Zanetti è stata di ottimo livello. La sua attenzione si è concentrata in particolar modo sul controllo di tempi e dinamiche, che hanno usufruito di excursus molto ampi tra l’adagissimo e il prestissimo, il pianissimo e il fortissimo. A titolo d’esempio portiamo la danza che apre il secondo atto, diretta egregiamente con un crescendo e accelerando continuo. A giudizio di una frangia di pubblico questo non è stato sufficiente a compensare una direzione povera di afflato, con colori generici e accompagnamenti al canto troppo ordinari.

In conclusione, una Carmen che vale la pena di (ri)vedere, perché in ogni caso non banale e non priva di alcune eccellenze. Ricordiamo che dopo le due repliche di marzo questa produzione tornerà in scena a giugno con cast ancora diverso (Rachvelishvili e Meli protagonisti, Ruciński e Machaidze deuteragonisti).

Alberto Luchetti