Di concerti come questo dovrebbero essercene molto più di frequente, a Milano come in tutta Italia, patria del belcanto. Troppo raro infatti è avere l’occasione di sentire coniugati il canto solista in forma di recital e la piena orchestra (non solo il pianoforte cioè), con pezzi anche sinfonici provenienti da opere. La melodia domina su tutto, e quando il livello è altissimo come in questo caso il risultato è davvero delizioso. L’australiana Jessica Pratt è considerata ormai una stella internazionale, forse unica erede della conterranea Sutherland, entrambe esponenti di prima grandezza del belcanto. E come la Sutherland che aveva riscoperto tra l’altro opere barocche come l’Alcina, anche la Pratt sta affrontando questo repertorio. Appena nelle scorse settimane abbiamo potuto goderla dar vita ad una superba Cleopatra nel Giulio Cesaretorinese.

Oggi tuttavia tutto il programma era dedicato all’Ottocento. Si inizia con un apollineo Tancredi: l’aria di presentazione di Amenaide è stata resa in tutta la sua purezza con un lungo trillo dopo la fraseVa esaltando questo cor, mentre nel tempo conclusivo brillante Voglia il ciel la Pratt giganteggia con un acuto (che avrebbe ben sovrastato anche l’assente coro pertichino) e con la ripresa ricca di variazioni precise e in stile.

Molto più complessa l’aria tratta da I Puritani (o meglio  I Puritani e i Cavalieri, questo infatti il titolo originale a Parigi). O rendetemi la speme è un’aria di pazzia il cui inizio sognante, diremmo sospeso, si è tradotto in un sentito patetismo. Gli acuti di questa prima parte sono apparsi flautati e leggerissimi, grazie all’ottima tecnica che le permette di sostenere frasi lunghissime. Per la coloratura più sgargiante dobbiamo invece aspettare Vien ti posa, nonché la coda virtuosistica con una successione interminabile di scalette discendenti. Gli applausi e i “brava!” alla fine di questo brano facevano capire che il pubblico emozionato si stava scaldando.

Raffinatissima l’introduzione dell’aria di Marguerite da Les Huguenots con violini e flauto solista protagonisti di una lunga cadenza. Con O beau paysil grandissimo Meyerbeer crea un brano di perfetto gusto francese, arricchito da nuances sia nel canto che nell’orchestrazione acquerellata. Il cantabile purtroppo è stato decurtato della seconda strofa (che la Sutherland canta invece nell’incisione Decca), importante per dare la giusta architettura musicale al pezzo. Tagliato logicamente anche il secondo tempo essendo un terzetto femminile con coro muliebre. Si è passati quindi direttamente alla cabaletta A ce mot: sulla parola chants le vertiginosi peripezie vocali non hanno spaventato la Pratt che con voce adamantina ed estrema pulizia ha superato ogni difficoltà.

Meno impressionante invece, a conferma della necessità di approcciarsi con calma a questo repertorio, la sua interpretazione di Gilda. Qualche incertezza nel fraseggio è stata compensata da un delizioso trillo finale sul nome del suo amato Gualtier Maldè. Un suo cavallo di battaglia è inveceLucia di Lammermoor, ruolo scritto per la Fanny Tacchinardi-Persiani e nel quale riesce ancora a sorprenderci dopo tanti ascolti. Ottima anche l’attrice, che ha mimato lo sconvolgimento interiore, spezzando le frasi delle rimembranze iniziali nell’aria. Allucinata nell’ascoltare l’inno di nozze e finalmente convinta di sposare Edgardo ha intonato le note di Alfin son tua, all fin sei mio, con una naturalezza impressionante. Mai frase più semplice fu scritta, eppure quanta emozione una grande artista può cavarne, e la Pratt è una di queste. Dopo la consueta cadenza spuria col flauto, termina il brano l’ardua Spargi d’amaro pianto eseguita con raro trasporto e variata con gran gusto e drammaticità.

A dare respiro al soprano sono state intervallate sinfonie d’opera intelligentemente accoppiate. Di Rossini non poteva mancare la sinfonia del Guillame Tell, la più impervia e l’unica divisa in quattro movimenti, con un violoncello solista che suona già romantico come la tempesta seguente. Ottimi i fiati nel Ranz de vaches e ottimi gli ottoni nelPas redoublè finale. Sono emerse invece per la luminosità tutte le sezioni dei fiati nella sinfonia di Norma. Qui si è messo in mostra anche il direttore della serata, un nome che sempre più sentiamo associato all’opera: Jader Bignamini. Si vede la sua mano nei tempi animatissimi che danno energia a tutto il brano prima del momento estatico con accompagnamento dell’arpa. Da Meyerbeer apprezzabile la scelta del preludio del Vasco de Gama (altrimenti detto L’Africaine), che mostra il gusto raffinatissimo e tardo romantico di questo compositore. La bella frase di Ines con il suo ricordo del Tago diventa un tema sinfonico variato preziosamente, con tanto di clarinetto basso. Ottima la resa dell’orchestra. Dopo la monotematica sinfonia di Luisa Miller, che si segnala per i bei colori, ecco quella del Roberto Devereux, che cita l’inno nazionale inglese, il duetto tra Sara e Nottigham e la cabaletta del tenore esaltata dal suono dei timpani nell’ultima fragorosa esposizione. Ottimo anche il triangolo che ha datto brillantezza ad un pezzo che dovrebbe sempre precedere l’opera.

La Pratt ha poi chiuso la serata concedendo due bis. Prima l’aria di coloratura Glitter and be gay dal Candide, con splendido acuto su “wings” e la trasformazione di acuti in pianto. È l’occasione per un bel siparietto: l’estremo scoramento la porta ad abbracciare il direttore e a consegnargli gli orecchini (tante le risate tra il pubblico) per poi riprenderseli e regalarci altri fuochi d’artificio. Il secondo bis, chiesto a gran voce da tutti, è stato infatti la riproposta della cabaletta della pazzia di Lucia. Sono serate che ci ricordano cosa sia l’opera e quale entusiasmo possa far nascere nel pubblico italiano.

Fabio Tranchida