R. Wagner: Vorspiel und Liebestod da Tristan und Isolde
R. Strauss: Tod und Verklärung, poema sinfonico op.24
P.I. Tchaikovsky: Sinfonia n.6 “Patetica” in si minore op.74
Direttore: John Axelrod
Orchestra sinfonica Giuseppe Verdi di Milano
Quando sul podio de laVerdi sale John Axelrod è oramai risaputo che il programma sarà di quelli “pesanti”, ma le scelte operate per questo concerto raggiungono un apice quasi impareggiabile: Preludio e Morte di Isolde, Tod und Verklärung e Sesta sinfonia di Tchaikovsky in una sola serata fanno uscire dalla sala con un bel magone. Dopo aver legato il suo nome a Johannes Brahms in una brillante incisione dell’integrale delle sinfonie, il direttore americano si sta in effetti confrontando sempre più spesso con tutto il repertorio tardo romantico, con risultati tuttavia non sempre altrettanto soddisfacenti.
Fin dall’estratto da Tristan und Isolde, le caratteristiche di Axelrod vengono immediatamente fuori, in positivo come in negativo. Tipiche sue sono le scelte di tempi mai banali, per lo più dilatati all’estremo, con passaggi estenuanti seguiti da vortici mozzafiato. Suo trademark sono anche le dinamiche curate al millimetro e innervate nel fraseggio, il che porta ad un estremo vigore che fa risaltare la plasticità formale della composizione. Tutto bene se fossimo in Brahms, ma per Wagner siamo troppo nell’apollineo e ci manca totalmente quel senso di abbandono al fremere cromatico cantato da Isolde: “In dem wogenden Schwall, in dem tönenden Schall, in des Weltatems wehendem All, ertrinken, versinken, unbewusst, höchste Lust!” (“Nell’ondeggiante oceano, nell’armonia sonora, del respiro del mondo, nell’alitante Tutto… naufragare, affondare… inconsapevolmente… suprema letizia!”). Gli attacchi sono in ogni caso sempre molto precisi, dettaglio non trascurabile in questo brano, mentre i tempi lentissimi e le dinamiche in pianissimo hanno creato qualche difficoltà ai fiati.
Problemi analoghi si sono potuti riscontrare, ma con molta minor evidenza, nel succesivo poema sinfonico Tod und Verklärung. Esso è un seguito ideale, poiché fu forse la prima vera prova di ispirazione schiettamente wagneriana nella produzione di Richard Strauss. Non a caso infatti esso fu suggerito (e descritto in forma scritta) da Alexander Ritter, colui che per primo avvicinò il giovane Strauss al grande maestro. Date le caratteristiche di Axelrod non sorprenderà sapere che, a fronte di una impeccabile prima parte (nettissimi ed efficaci i “battiti” del cuore impauriti dall’avvicinarsi dalla morte), si è invece spesso persa la dovuta tensione nel grande climax di trasfigurazione, iniziato splendidamente come un dolcissimo abbraccio ma terminato in un caos di fortissimi. Non bastano degli ottimi e plateali ritenuti nei punti chiave a compensare l’eccessivo sferragliare. Dopo il non entusiasmante Ein Heldenleben dell’anno scorso, verrebbe da concludere che forse Strauss non sia a pieno nelle corde di questo direttore.
Tutto cambia invece con la Sesta sinfonia di Tchaikovsky. Finalmente ne ascoltiamo una esecuzione che non ha nulla di “pathétique” e lacrimoso, ma che è un virile e coraggioso sguardo da una parte sulla vita inesorabilmente trascorsa, nella piena dignità dell’alternarsi di gioie e dolori, e dall’altra sul mistero della morte incombente. Senza trasfigurazioni, che a quanto pare non sono il forte di Axelrod (come non lo sono di Brahms)! Il primo movimento colpisce per il passaggio drammatico centrale, con tromboni eccellenti e di enorme impatto. Perfetta la gestione della tensione da parte del direttore, che ci fa calare il livello di guardia raggiungendo una stasi pacifica proprio appena prima di scatenare di colpo l’inferno. Il ritorno del famoso tema a frasi discendenti viene inoltre del tutto privato dell’aspetto larmoyant, facendo emergere le inquietudini delle voci sottostanti e facendone così un forzato mantra di autoconvinzione. Molto brahmsiana anche la lettura dei due movimenti centrali, eseguiti con originalità, foga e precisione encomiabili. Le tinte sono scure, le melodie deliziose eppure struggenti, mentre le percussioni cadono implacabilmente su un tempo regolarissimo ma pieno di rubati micrometrici. Forse è stato proprio questo il momento più alto della serata (testimoniano anche gli improvvidi applausi a fine terzo movimento), per quanto emotivamente il finale abbia sempre l’ultima parola. Per l’Adagio lamentoso Axelrod ha optato per una netta distinzione dei due climax, rallentando bernsteinianamente all’esasperazione il primo (raggiungendo grande intensità) e rendendo turbinoso il secondo (fin troppo, dato che se ne è così persa l’incisività). Nessun applauso ha il coraggio di risuonare dopo la cupissima chiusa tchaikovskiana, almeno per alcuni lunghissimi secondi, dopo i quali è ovazione completa e, per quanto riguarda la Sesta, meritata.
Alberto Luchetti