Maria Stuarda: Joyce DiDonato
Elisabetta: Carmen Giannattasio
Leicester: Joseph Calleja
Talbot: Marko Mimica
Cecil: Davide Luciano
Coro e orchestra della Deutsche Oper Berlin
Direttore: Paolo Arrivabeni
Maestro del coro: William Spaulding
Serata molto importante per la Deutsche Oper di Berlino, che vedeva il debutto nel ruolo di Elisabetta di Carmen Gianattasio e l’ancor più notevole rivelazione di Joyce DiDonato in una parte che a prima vista potrebbe sembrare troppo acuta per la sua voce. La DiDonato infatti è divenuta celebre come Rosina e Cenerentola, ruoli della Righetti-Giorgi, mentre Stuarda è stata creata con in mente le capacità del grande soprano drammatico Giuseppina Ronzi de Begnis (Fausta, Gemma ed addirittura Elisabetta nel Devereux). Ci si chiede dunque come può il mezzosoprano texano arrivare a questo repertorio. Eppure ogni altezza impervia è stata risolta con grande capacità e nessuno sforzo. Ha mostrato nei passaggi cantabili un’intimità unica, allargando le frasi e sostenendo le note con lunghi fiati, mentre la coloratura nella cabaletta della sua cavatina di presentazione è stata risolta con note velocissime e iridescenti. Nonostante la forma concertante, la DiDonato si è inoltre mossa sul palco interpretando, abbracciando, agendo come se fosse sulla scena, con profondo pathos.Peccato solamente che entrambi i duetti, con Leicester e con Talbot, siano stati sfigurati dai tagli nelle due strette, indispensabili per capire la struttura drammatica della musica.
Il debutto di Carmen Giannattasio è stato invece meno felice. La lettura affannosa dello spartito denunciava una conoscenza approssimativa della parte, cantata sempre un po’ in ritardo e con l’effetto di un continuo solfeggio piuttosto che di un’interpretazione interiorizzata. La sua aria di ingresso era iniziata anche piuttosto bene, con un drammatico recitativo “Sì, vuol di Francia il Rege” seguito da un legato “Ah quando all’ara scorgemi”, in un clima di grande intensità. I problemi sono arrivati invece alla ripresa della cabaletta, quando dopo una puntatura la cantante non è stata capace di riprendere la tonalità di impianto, se non dopo il ricorso all’aiuto dell’orecchio turato, in maniera veramente poco decorosa. Bene il duetto con il tenore anche se nel vivace conclusivo “Sul crin la rivale” erano ancora evidenti alcune insicurezze. La voce un po’ algida della Giannattasio e i suoi modi altezzosi ben si contrapponevano infine al calore della DiDonato nel momento superlativo di questo capolavoro musicale: il confronto tra le due regine che porta a termine il primo atto. In quella scena la palma è andata comunque alla DiDonato, che ha intonato “Morta al mondo” con sicurezza e determinazione per poi mostrare tutta la forza della “parola scenica” (se vogliamo anticipare un concetto verdiano) nella celebre invettiva che causò addirittura il ritiro della partitura dai palcoscenici (“Figlia impura di Bolena…”).
Leicester era Joseph Calleja, tenore di grande successo all’estero ma praticamente del tutto assente dall’Italia. E forse c’è un motivo: ha mostrato una voce fissa, seppur intonata, che non permetteva dunque di sviluppare bene le frasi, componente fondamentale per questo ruolo. Pensiamo ad esempio ad “Ah! Rimiro il bel sembiante” nel suo duetto con Talbot: una frase quasi infinita e che pare rigenerarsi su se stessa, prima in do maggiore e poi ripetuta in mi (già Rossini per Arnold aveva usato una tecnica simile per aumentare la tensione). Il Duetto si è poi concluso come sempre con l’Andantino della versione napoletana, e si è persa così l’ennesima occasione per ascoltare invece l’Allegretto scritto per Milano, vero e proprio antesignano della “Pira” verdiana.
Molto corposa e sonora la voce di Marko Mimica che ha esaltato la parte del confessore nel duetto prima della preghiera. L’ultima scena inizia con uno stupendo e drammatico coro, eseguito superbamente e con immediata risposta del pubblico, che ha tributato un giusto applauso. La successiva preghiera (che verrà poi rielaborata per laLinda di Chamounix) è invece partita con un’arpa incerta e con un tempo troppo lento.
Ci ha pensato ancora una volta la DiDonato a risollevare le sorti, con un sol tenuto per nove battute per poi salire fino al sibemolle senza alcun problema. Interessante infine la scarna aria conclusiva dove l’orchestra quasi scompare e la voce rimane unica protagonista. Di quest’ultima aria e cabaletta la riduzione Ricordi offre la versione che cantò Maria Malibran, brani nuovi ed originali che purtroppo nessuna primadonna e nessun direttore si decidono a riscoprire. Certo non potevamo aspettarcelo da Paolo Arrivabeni, che ha diretto con mero mestiere, scarsa inventiva e nessuna attenzione filologica. Non ha eseguito la sinfonia dell’opera (importante nella citazione di un tema di Maria) né i tre colpi di cannone (che dovrebbero avvicinare mano a mano la Stuarda alla morte con effetto sonoro interessantissimo), oltre ad aver autorizzato davvero troppi tagli snaturando in molti punti l’opera, che meriterebbe invece un’attenzione devozionale per ogni singola nota, trattandosi di un autentico capolavoro. Tagliare la strette era ammissibile negli anni ’50 o ’60, non ora che possediamo le edizioni critiche. Lo stesso rispetto che si ha per le opere di Wagner si dovrebbe avere qui. I cantanti in primis non dovrebbero tirarsi indietro dalle parti impervie ma anzi comprendere che sono proprio a loro dedicate da un maestro della vocalità come Donizetti.
L’interesse maggiore della serata è stato quindi concentrato nell’udire l’evoluzione della voce della DiDonato, che ha superato ogni difficoltà della parte e ha davvero impersonato il ruolo, risultando alla fine trionfatrice indiscussa.
Fabio Tranchida