Regia: Sylvia Schwartz
Piacere: Inga Kalna
Tempo: Charles Workman
Disinganno: Delphine Galou
Direttore: Sébastien Rouland
Regia: Jürgen Flimm
Les Musiciens du Louvre – Grenoble
Da qualche anno oramai la Staatsoper di Berlino ha dovuto abbandonare la sua sede storica settecentesca, lungo il monumentale corso Unter den Linden, per sistemarsi provvisoriamente nello Schiller Theater, edificio del primo dopoguerra. In maniera quasi analoga la messa in scena dell’oratorio Il Trionfo del Tempo e del Disinganno di Händel ha abbandonato l’estetica settecentesca originaria per calarsi in una contemporaneità vaga, quasi atemporale. Ricordiamo che in quanto oratorio esso non era stato concepito per essere messo in scena, stante la proibizione papale per il teatro musicale a Roma, ma il talento teatrale nel giovane Händel (giunto appena ventiduenne da pochissimo in Italia) era già tanto vivo da giustificare oggi pienamente un allestimento che coinvolga anche l’occhio.
È stato dunque particolarmente interessante vedere come il regista Jürgen Flimm (anche sovrintendente della Staatsoper) abbia saputo interpretare la vicenda allegorica, ambientatola in un lussuoso caffè degli anni ’30 dalle raffinate scene e dai vividi colori. Molti i personaggi di contorno che animano lo spazio scenico arricchendo di simbolismi il tessuto musicale e del libretto. Essi si dividono in elegantissimi avventori ed indaffaratissimi camerieri, i cui movimenti coreografici sullo sfondo caricano l’atmosfera di sentore metafisico. Il dialogo fra epoche è stato infine arricchito dall’ingresso in scena di un vero e proprio organo positivo, suonato da un’orchestrale con vestito settecentesco accompagnato dal primo violino: quasi un cameo di Händel in persona, che appare nello spettacolo con la licenza di eseguire una sua Sonata (peraltro ad enfatizzare il recitativo forse più interessante dell’opera “Questa è la Reggia mia”). Nel secondo atto progressivamente il bar si svuota, come se l’ora si fosse fatta tarda (l’oratorio tratta d’altronde del “tempo”), e sulla scena rimangono solo i quattro protagonisti: Bellezza, Piacere, Tempo e Disinganno (non è infatti prevista in questa prima versione la presenza del coro). Qui Bellezza, che iniziava l’opera in una mîse degna di Marilyn Monroe, viene spogliata dei suoi vestiti e della sua parrucca dai boccoli biondo platino per indossare invece una tonaca da monaca, con la quale canterà la sua ultima aria, sdraiata per terra come nel momento della presa dei voti.
Siamo dunque perfettamente in linea con le intenzioni del Cardinale Benedetto Pamphili, mecenate romano di Händel ed autore del libretto di chiaro stampo moralistico, dove l’azione lascia il posto alle ambizioni filosofiche, come era tradizone nella Roma controriformistica. Il rigore papale vietava anche la presenza di donne sulle scene, motivo per cui le tre protagoniste oggi femminili (due soprani e un contralto) erano originariamente impersonati da castrati, voci tanto disponibili all’epoca (basti pensare al cast della di poco successiva Agrippina veneziana, in cui molto del Trionfo verrà travasato, o al Giustino vivaldiano, sempre per Roma) quanto introvabili nel 2014.
Comprensibile dunque che oggi l’oratorio sia stato cantato, oltre che dal tenore (Tempo), da tre donne. Tutti e quattro gli interpreti sono peraltro stati davvero eccellenti nel risolvere scritture vocali altamente virtuosistiche e che mostrano come Händel avesse già ben metabolizzato lo stile italiano, sia nella prosodia che nella strumentazione e ritmica. Soprattutto le voci di Bellezza e Piacere hanno pagine di virtuosismo vocale insuperate, mentre alcuni larghetti nelle arie permettono anche di scavare il personaggio drammaticamente (per quanto possa concederlo un libretto così statico). La freschezza giovanile della sua scrittura ha quasi qualcosa di virginale: melodie vivide e lineari si dipanano purissime senza che il contrappunto le appesantisca troppo (ad esempio nei fugati dei cori). Lo stesso sviluppo che in Rossini si può notare dalla generosità del Tancredi alla complessità del Guillame Tell è riscontrabile confrontando il Trionfo con un oratorio più maturo come Israel in Egypt.
L’attenzione si focalizza dunque totalmente sui quattro solisti, con Piacere a riscuotere probabilmente il maggior successo per le grandi doti da prima donna dell’interprete Inga Kalna. Sue sono anche alcune delle arie più belle e impegnative, come la virtuosistica “Fosco genio” o il Largo “Lascia la spina”, autoprestito dall’Almira ed universalmente nota per il suo ulteriore utilizzo nel Rinaldo (dove diventa “Lascia ch’io pianga”). Perfetta l’intonazione ed affascinante il timbro umbratile, che ben è risaltato nel confronto con l’altro soprano, Sylvia Schwartz, dal colore giustamente più chiaro nella parte di Bellezza. Anche fisicamente il contrasto era netto: al fisico gaudente di Piacere (che poteva essere uscito dalla fantasia di Rubens) e al suo vestire volutamente cafone si opponeva la sinuosità e l’eleganza di Bellezza. Oltre che scenicamente perfetta per le sue doti estetiche, anche vocalmente la Schwartz non è stata da meno della collega: la sua prima aria “Fido specchio” (anch’essa riutilizzata dieci anni dopo nell’Amadigi), con un continuo dialogo tra voce e orchestra, ne ha esaltato la morbidezza d’emissione e l’eccellente legato.
Delphine Galou, in abiti maschili nel ruolo di Disinganno, ha poi reso giustizia al genio di Händel nelle lunghissime frasi di “Se la Bellezza perde Vaghezza”, primo monito verso la caducità dell’edonismo. Emerge soprattutto la bravura dell’interprete, capace di far risaltare tutti i chiaroscuri delle frasi per comunicare il senso del decadimento fisico. Avevamo infine qualche preoccupazione per la prova di Charles Workman come Tempo. Negli anni passati infatti lo abbiamo ascoltato in alcune opere rossiniane (precisamente Ricciardo, Moïse e Gazzetta) in cui la pessima pronuncia anglicizzante ed un registro acuto piuttosto sconnesso lo avevano fortemente penalizzato. Le nostre supposizioni sono state invece smentite poiché la dizione è molto migliorata e la scrittura händeliana non lo ha mai esposto a pericolosi cambi di registro. La sua Aria “È ben folle quel nocchier”, ricca di ornamentazioni eseguite con alto senso drammatico, verrà poi riutilizzata nel successivo oratorio Resurrezione.
Mirabili infine sono anche i duetti e i quartetti di quest’opera, che hanno permesso alla voci di tessere armonie impeccabili per intonazione e perfettamente aderenti alle situazioni drammatiche. Proprio in questi brani la fantasia di Händel si fa prodigiosa mischiando le carte per ottenere degli insiemi molto vari. Negli assiemi emerge anche l’ottima concertazione di Sébastien Rouland, che ha ben saputo raccogliere il timone del previsto, ma assente per malattia, Mark Minkovski. Siamo comunque propensi ad attribuire a quest’ultimo (che ha riscoperto l’oratorio in questa sua prima versione, eseguendolo anche in questo allestimento negli anni scorsi) gran parte della genialità di certe letture. Perfetta per duttilità e intensità l’orchestra ospite dei Musiciens du Louvre di Grenoble, specializzata in questo repertorio.
Chiudiamo ricordando proprio le altre due versioni dell’oratorio, ovvero Il Trionfo del Tempo e della Verità degli anni trenta e la versione inglese The Triumph of Time and Truth del 1757, per notare come questa partitura abbia interessato Händel per tutta la sua vita. Essa ha caratterizzato in qualche modo l’inizio e la fine della sua parabola, accompagnandolo da giovane straniero in carriera fino agli ultimi anni, quando ormai cieco non gli restavano che due anni di vita. Non può dunque essere sbagliato l’interesse che la Staatsoper le ha dedicato, eseguendola integralmente e con interpreti di altissimo livello.
Fabio Tranchida