Simon Boccanegra: Andrzej Dobber
Amelia: Tamara Iveri
Gabriele Adorno: Stefano Secco
Fiesco: Vitalij Kowailow
Paolo Albiani: Levente Molnàr
Orchestra e coro della Bayerische Staatsoper
Direttore: Bertrand de Billy
Regia: Dmitri Tcherniakov
Immaginiamo tutto ciò che un Simon Boccanegranon dovrebbe essere: Dmitri Tcherniakov è riuscito in souplesse a realizzarlo in pieno. La produzione con la sua regia, ripresa alla Bayerische Staatsoper di Monaco in questi giorni, è un raro coacervo di nonsensi. Che non avremmo visto scorci genovesi e acidari lo potevamo immaginare, ma ciò che più sorprende è che manchi totalmente anche quella che è generalmente la principale qualità del regista russo, ovvero l’originalità della rilettura. Apparentemente tutto si sviluppa infatti esattamente secondo libretto, con tuttavia il consueto attrito generato da una (oltretutto futile) trasposizione alla contemporaneità. Poche mosse per lo scacco matto: Simone è il solito politicante in doppiopetto (per il nostro stereotipo del politico, non siamo certo nelle corde del magnanimo protagonista verdiano), Fiesco è travestito da prete (senza motivazioni apparenti), e, dulcis in fundo, Gabriele Adorno sfoggia una tuta da motociclista. Le reazioni del pubblico per lo più sono quelle di una messa in scena comica, e Dio solo sa se esiste un’opera più cupa e seria del Simon. Quando poi Tcherniakov decide di staccarsi drasticamente dal libretto i risultati sono davvero disastrosi. Fra prologo e primo atto una scritta in sovrimpressione ci avverte che Amelia si fingerà figlia del doge perché affascinata dalla sua storia. Cosa questa finzione possa aggiungere alla vicenda non si sa, né il regista si premura di dare un seguito drammaturgico a questa sua trovata, che ha il solo risultato di togliere ogni poesia al duetto dell’agnizione successivo, che altrimenti commuoverebbe anche un sasso (specialmente tenendo a mente cosa accadde alle figlie di Verdi). Stesso discorso per il grande concertato finale, altro momento che solo una messa in scena volutamente deleteria poteva rovinare. Qui il Boccanegra indossa un ridicolo cappello ricavato da un giornale piegato e, in pieno delirio, finisce la sua benedizione uscendo da solo di scena come inebetito. Niente catarsi conclusiva insomma, anzi addirittura c’è spazio per la disperazione di Amelia, a tempo scaduto e dopo accordi mesti ma certo non disperati. Last but not least, ogni residuo di fascino legato alle atmosfere, di cui la musica offre enormi occasioni, viene beatamente annichilito da una scenografia che, dal primo atto in poi, si limita a delle rinunciatarie pareti bianche, con qualche sedia nel mezzo. L’unico gioco visivo sarebbe con il prologo, che invece in una ambientazione urbana aveva quantomeno suggestivi(quanto privi di seguito) rimandi all’opera di Edward Hopper. Questa immagine ricorrerà successivamente incorniciata in un quadro e proiettata sulle pareti bianche in un paio di occasioni, ma anche qui senza che ne sia chiaro il significato.

Per lo più, l’impressione è quella di una regia di poche idee e pessimo gusto, e non basta qualche movimento interessante in scena per salvare una drammaturgia compromessa in troppi punti. Nonostante eccellenti coro e orchestra bavaresi, anche la parte musicale non ha esaltato, pur mantenendosi sempre sopra l’asticella della sufficienza. Fra i migliori la palma è contesa da tenore e basso. Stefano Secco, che ha dimostrato di essere voce matura e in salute, oltre che molto piacevole all’ascolto un mix di qualità rare nei tenori oggi, ha il solo difetto di prendere spesso gli acuti “dal basso” per qualche immotivata mancanza di certezza. Vitalij Kovajlow, unico redivivo del cast che aveva inaugurato questo allestimento, ha confermato dal canto suo di essere una delle voci gravi più belle e solide in circolazione, difettando ancora un poco solo nel fraseggio italiano. Prove positive, seppur non certo strepitose, anche per l’Amelia di Tamara Iveri anch’essa poco espressiva nell’articolare le parole ma se non altro sempre sicura in tutti i registri e il Paolo Albani di Levente Molnàr (un riscatto volitivo rispetto all’Amfortas disastroso del giorno precedente). Troppo discontinuo invece il protagonista, Andrzej Dobber, uno dei baritoni dalla voce più ingolata che sia dato sentire in teatri di questo livello. In qualche maniera il volume riempie comunque la sala, ma con un tale dispendio di fiato da stroncare ogni possibilità di chiudere in morbidezza una frase, senza parlare degli inevitabili problemi di intonazione col procedere dell’opera e l’accumularsi della stanchezza. Non porta comunque a casa il titolo di peggiore perché prima di lui c’è Bertrand de Billy, notevole concertatore ma troppo impalpabile il suo Verdi (le fondamentali scansioni ritmiche e melodiche annegano in un continuum informe di colori diafani) e troppo distratto il suo rapporto con la parola scenica. Praticamente, funzionano solo le scene a sipario chiuso.
Tutto questo a conferma di quanta fatica si faccia ancora oltralpe per realizzare una produzione verdiana che mantenga le intensità drammatiche volute dall’autore. nonostante la presenza di nomi di tutto rispetto nel cast dove il più “verdiano”, in fondo, è parso proprio l’unico italiano: Stefano Secco. Francamente, speriamo che questo allestimento, privo di qualsiasi valore, venga abbandonato al più presto, perché con prove squinternate come queste si fa solo del danno anche al Regietheater di valore, di cui peraltro Tcherniakov ha saputo essere protagonista in occasioni più felici.
Alberto Luchetti