L. Boccherini – L. Berio: Quattro versioni originali della Ritirata notturna di Madrid
S. Gervasoni: Heur, Leurre, Lueur
B. Bartók: Concerto per orchestra

 Filarmonica della Scala
Direttore: Susanna Mälkki
Violoncello: Francesco Dillon

Un minuto di silenzio, in una sala in cui si è soliti sentir risuonare musica e applausi, fa un effetto straniante. Se poi i lunghi secondi sono dedicati al ricordo di uno che in quella sala ha dato tanto, come Claudio Abbado, l’effetto è ancor più intenso. Così infatti, doverosamente, è iniziato il primo concerto al Teatro alla Scala dopo la notizia che ha messo a lutto l’intero mondo della musica. Il sovrintendente Lissner è salito sul palco per celebrare, in poche ma significative parole, ciò che Abbado ha rappresentato per questo teatro con le sue 567 serate sul podio. Egli ha voluto ricordarlo non solo come artista ma anche come uomo, per il suo impegno profondo nel portare alla Scala un nuovo pubblico e un nuovo repertorio. La Filarmonica della Scala nacque con lui, e gli sarebbe probabilmente piaciuto questo primo appuntamento della stagione sinfonica nel nuovo anno, che vede tornare la direttrice Susanna Mälkki. A lei la Scala pare voler affidare oramai con costanza il compito di ambasciatrice della musica contemporanea, ed il programma infatti è composto da tre commissioni: una nuova, Heur, Leurre, Lueur di Stefano Gervasoni, una sempre per la Filarmonica ma di qualche anno fa (1975), le Quattro versioni originali della Ritirata notturna di Madrid di Berio da Boccherini, ed una storica, il Concerto per orchestra di Bartók (commissionato dalla Boston Symphony Orchestra nel 1943).

Susanna Mälkki, salita alle cronache per essere stata la prima donna a dirigere, nel 2011, un’opera alla Scala (fatto che dimostra la misoginia latente nel mondo della direzione d’orchestra), appartiene alla grande scuola delle bacchette finlandesi. In realtà della bacchetta pare volerne fare a meno, liberando entrambe le mani per un dettaglio espressivo maggiore. Suo marchio di fabbrica è in ogni caso la precisione, tanto necessaria nel repertorio contemporaneo in cui infatti eccelle. Il primo brano, la rielaborazione di Berio della Ritirata notturna di Madrid di Boccherini, è probabilmente il meno impegnativo dei tre proposti. Berio infatti mantiene la scrittura da concerto barocco delle variazioni di Boccherini, intervenendo soprattutto sull’orchestrazione e sul ritmo. Sono completamente sue le percussioni, col caratteristico tamburo militare che apre e chiude suggerendo l’idea spaziale di una marcia che arriva da lontano, passa di fianco all’ascoltatore per poi allontanarsi spegnendosi a poco a poco nella distanza. Se la dinamica produce dunque un arco simmetrico (pp<ff>pp), l’orchestrazione è invece in evoluzione continua. L’inizio cameristico ricorda le origini barocche, l’exploit centrale con violini a tutto archetto ricorda lo stile tardo-romantico, il finale pare voler riprendere quella scrittura asciutta e raramente consonante che è scoperta del Novecento. La Mälkki ha il pregio di semplificare il gesto all’estremo, pura oscillazione metrica che permette così il massimo controllo su una scansione mai monotona del ritmo di marcia.

Non c’è invece un corrispettivo diretto come quello di Boccherini per il secondo brano della serata, che pure ammicca a tanti predecessori. Heur, Leurre, Lueur di Stefano Gervasoni vorrebbe fin dal titolo giocare sull’ambiguità fondamentale del linguaggio umano, che ha nella sua potenzialità polisemantica anche il suo fascino. Per quanto sia sempre difficile giudicare dai primi ascolti,’impressione è stata invece quella di una scrittura asfittica, che più che altro gioca coi cliché più scontati della musica contemporanea: costruzione a strappi, puntelli di percussioni idiofone, lunghi accordi pianissimi, tremolanti e dissonanti tenuti dagli archi, ottoni che strepitano in forcelle improvvise e violoncello solista relegato ad un interminabile recitativo atonale (con qualche sprazzo lirico di cui abbiamo faticato a trovare la ragion d’essere). Peccato perché il violoncellista e dedicatario del brano, Francesco Dillon, pur essendo costretto a passare in continuazione da una parte all’altra della tastiera con la mano sinistra, dimostra intonazione impeccabile e una grande attenzione all’assieme,. Non mancano alcuni passaggi suggestivi (una serie di note filate del violoncello sempre più in tensione, un accompagnamento di tremoli dei legni molto immaginifico, una forma di caratterizzazione di ogni strumento con un gesto per poi sovrapporre tutto all’apice del brano, la chiusa anticipata dal suono della campana tubolare), ma nell’insieme non pare emergere con unitarietà il viaggio che il compositore annuncia in alcune note sul programma di sala.

Certamente emerge in Gervasoni il tentativo di superare la forma del concerto con solista, collocandolo così nel solco di una tradizione che ci rimanda direttamente a Béla Bartók e al suo programmatico Concerto per orchestra. Qui, anziché degradare il solista al ruolo di poco gratificato filo nella trama, tutti i reparti d’orchestra sono promossi al grado di virtuosi. Il percorso poi da un’atmosfera cupa ad una gioiosa è molto ben articolato e architettato, con rimandi interni perfettamente leggibili. Il tema pentatonico dell’introduzione è uno degli elementi maggiormente ricorrenti ed introduce subito la peculiarità di questa partitura: il gioco di timbri. Ad esporlo sono infatti gli archi gravi, mentre i violini rispondono con un tremolo che riesce estremamente morbido. Gli archi della Filarmonica hanno dato in tutto il corso di questo brano una prova davvero maiuscola, soffrendo leggermente solo nei passaggi frenetici nell’ultimo movimento. Molto bene anche il reparto dei legni, a cui Bartók dedica l’intero secondo movimento, in cui ogni coppia di strumenti ha un suo tema: ottimi su tutti i clarinetti e i fagotti, complessivamente positivi flauti e oboi, qualche discrepanza per le trombe. Gli ottoni era peraltro già stati messi a dura prova nel primo movimento, dove hanno un complesso fugato nell’esposizione, ma si sono riscattati nel Trio. Anche in questi passaggi del secondo movimento, dove hanno solo un ruolo di accompagnamento, ci ha comunque colpito soprattutto la qualità degli archi. Merito di Bartók o della Mälkki? Non sappiamo, probabilmente di entrambi, come ci conferma la splendida Elegia che costituisce il terzo movimento, il cuore della composizione. La direzione si sofferma per la prima volta su tempi lenti, lasciando che con calma il tema (derivato da quello dell’introduzione) si dipani dai contrabbassi agli altri archi. Segue un mix di arpa e legni, una sospensione acquatica che preludia alla dolorosa esplosione degli archi. Emergono grandiosamente le viole, col loro timbro particolare ed in genere poco valorizzato. Se fino ad ora la direzione si era segnalata più che altro per l’abilità nel concertare, qui anche l’ottima gestione del fraseggio, reso lancinante da un leggero rubato, ha la sua parte. Capolavoro di concertazione e fraseggio è infine la fuga che costituisce lo sviluppo del quinto movimento: la Mälkki sfrutta entrambe le mani, oltre che lo sguardo, non solo per segnare gli attacchi a turno, ma anche per condurne le voci nelle parti iniziali del tema, essenziali da evidenziare per puntellare la fuga e non farla sfuggire in maniera disarticolata. Notevole anche il crescendo che porta alla conclusione, lunghissimo ed enormemente progressivo, mentre le ultime battute sono esaltate da una ostinazione estrema, con la stessa nota ribattuta fino a sei volte di fila ed ogni formula ripetuta almeno due o tre volte. Si esalta qui il gesto asciutto, capace di caratterizzare ognuna di queste iterazioni.

Il pubblico, forse un po’ spaventato dal programma, non esauriva la sala. Forse meglio così, se il risultato è una selezione dei presenti, che hanno così tutti tributato un sincero e appassionato plauso alla direttrice Susanna Mälkki, che col suo gesto alto, anticipato ed efficacissimo, ha davvero convinto tutti. È raro sentire alla Scala così tanti richiami alla ribalta per un concerto con questo repertorio e per protagonisti non già nell’olimpo della musica. Visibilmente soddisfatto in proscenio il sovrintendente Lissner mentre la rimanda in scena a prendersi gli applausi. Su queste innovazioni hanno molto puntato infatti i suoi dieci anni di gestione del teatro, e qualche frutto comincia a vedersi. In chiusura non possiamo che ricordare ancora una volta lo spirito di Claudio Abbado che ha reso ulteriormente speciale questa serata: il Teatro alla Scala lo omaggerà lunedì 27 gennaio, alle ore 18, quando Barenboim guiderà la Filarmonica dedicando alla sua memoria la Marcia funebre dall’Eroica di Beethoven. La sala sarà simbolicamente vuota, con la musica diffusa nella piazza.