G. Mahler: Sinfonia n.2 in do minore “Resurrezione”

Orchestra e coro sinfonici di Milano Giuseppe Verdi
Direttore: John Axelrod
Maestro del coro: Erina Gambarini
Soprano: Eteri Gvazava
Mezzosoprano: Maria José Montiel

Diciottesimo appuntamento dei trentotto che compongono la lunga e ricca stagione sinfonica de laVerdi. Siamo nel pieno dunque della programmazione con cui si festeggia il ventennale di questa istituzione sempre più rilevante nella vita musicale milanese. E soprattutto sempre più ambiziosa. Il mese di gennaio ha visto e vedrà concerti di enorme impegno per l’organico, con in particolare due imponenti sinfonie di Mahler, la Seconda e la Sesta. Questa settimana tocca alla prima delle due, la cosiddetta sinfonia “Resurrezione”, dal titolo dell’inno di Klopstock che Mahler usò da musicare per completare l’ultimo movimento. La scoperta di questo testo giunse in un momento cruciale della vita del compositore, giunto in quegli anni al più pesante blocco creativo della sua vita. Siamo infatti nel 1894, e la futura Seconda sinfonia è ferma da sei anni in attesa di un finale che compensi l’apocalittico e funereo primo movimento (nato come poema sinfonico). Uno dei mentori di Mahler, Hans von Bülow, aveva infatti stroncato criticamente ogni tentativo sul nascere. Eppure, simbolicamente, fu proprio durante il funerale di quest’ultimo che Mahler ebbe il suo incontro con le parole dell’inno di Klopstock, e lì il momento di morte, di critica, di disperazione si mutò in un attimo nell’occasione della rinascita creativa, della Resurrezione. Questa sinfonia sarà il primo successo per Mahler come compositore, una svolta decisiva per la sua fiducia come autore e dunque per distaccarsi dalla tradizione tardo romantica del poema sinfonico ed intraprendere la strada dell’ibridazione fra Lied e sinfonia nella creazione di un vero e proprio mondo musicale, del suo mondo musicale. Perché un mondo non può rimanere staticamente com’è, deve divenire, e per farlo deve necessariamente passare dall’esperienza della morte e della resurrezione. L’arte, e la musica in particolare, hanno in Mahler questa potenza esperienziale: possono manipolare tutto, far provare tutto, ricostruire tutto.

È John Axelrod, direttore principale de laVerdi, a cercare di farsi erede dell’impegnativo ruolo di alchimista di queste forze profondissime dell’esistenza, tutte in gioco in questa partitura. Si inizia con una pura vibrazione, un tremolo di do minore memore dell’incipit di Die Walküre di Wagner o di quello di Erlkönig di Schubert. È il cuore che batte, la paura primordiale con cui tanta tradizione romantica aveva identificato lo stato essenziale dell’uomo, debole e impotente contro ciò che lo sovrasta (la Natura, Dio, il destino). Il primo tema è quindi inevitabilmente affidato ad una voce grave, come quella dei violoncelli, straordinari nell’occasione. Tutta l’orchestra ha in realtà esordito con intensità e precisione, lasciandoci a desiderare soltanto qualche variazione dinamica in più che invece Axelrod non pare aver voluto cesellare. Meno suggestiva la resa del secondo carezzevole tema, complici forse archi acuti meno efficaci di quelli gravi. In generale tutti i passaggi tetri e apocalittici sono stati più d’impatto rispetto ai, pochi, momenti di sollievo. Ha pesato molto il mestiere di Axelrod nella gestione dei fortissimi in cui è coinvolta l’intera orchestra: egli è in grado infatti di esaltare con le dovute proporzioni tutti i colori e gli armonici dei vari strumenti per evitare l’imbolsimento del suono in un marasma indistinto. Buono anche il lavoro sui tempi, con variazioni significative nel corso del primo movimento che spiegano lo sviluppo e la ripresa del materiale tematico. Il secondo tema ad esempio torna dapprima in una versione accelerata, più ansiosa, sciogliendosi in un’oasi instabile che ha molto del wishful thinking ed è perciò comprensibilmente destinata a spezzarsi. La ripresa del tema principale quindi viene esposta a tempo record, come se si leggesse un romanzo di cui già si sa la (tragica) conclusione ma nella piccola speranza di scoprire uno spiraglio nuovo. E qualcosa si muove, perché quando si riprende infine il passaggio soave ecco che è ora finalmente lento, realmente consolatorio, pastorale. Piccole avvisaglie di quanto verrà, ma per adesso è presto, e tutto deve finire ancora in una caduta precipitosa.

Il secondo movimento è stato a nostro avviso quello in cui Axelrod ha saputo dare un contributo maggiore, anche a confronto con le letture da discografia. Avendo già liquidato la soluzione pastorale durante il finale della Totenfeier iniziale, non era più logicamente proponibile la classica interpretazione dell’Andante moderato come di un Ländler naif o nostalgico. Presa invece visione della grande carica ritmica della sua scrittura, per lo più riservata ai soli archi e ricca di pizzicati e staccati, Axelrod ne trae una pulsione inesauribile che ben rappresenta il risorgere della volontà di vivere nonostante tutti gli ostacoli che le si frappongono. Sono le dinamiche, un poco neglette prima, a giocare il ruolo cruciale qui. L’impulso va infatti ad ondate, accendendosi in uno slancio per poi spegnersi progressivamente nel ripetersi stanco, tornando quindi ad animarsi d’improvviso per poi ancora decadere, esaurita anche la nuova eccitazione. L’altro aspetto fondamentale per una resa di questo genere è ovviamente l’estrema precisione, altra dote che non si può non riconoscere al gesto chiaro, alto e rigoroso di Axelrod. Prova ne sia il quasi surreale passaggio in pizzicati pianissimi, dove ogni sbavatura sarebbe udibilissima.

La mano e bacchetta del direttore si è fatta notare anche nell’ipnotico precipitando con cui ha caratterizzato l’andamento iniziale del successivo Scherzo, dove peraltro sono stati ottimi i clarinetti (mentre gli ottoni nel Trio hanno dovuto riservarsi qualche cautela in più). La ripresa anche questa volta non è stata una banale ripetizione ma ha modificato il fraseggio acquisendo omogeneità e fluidità. Quasi una raggiunta quiete, forse la falsa quiete della ebete quotidianità, a cui fa riferimento il Lied La predica di Sant’Antonio ai pesci da cui è tratto questo movimento. Ancor più d’impatto allora l’erompere improvviso del grido disperato che, cessata la fuga nell’inautentico, ci porta di nuovo ad affrontare l’inesorabile apocalisse. Lucidissima è in effetti la coscienza del protagonista del Lied Urlicht, Luce primordiale, che costituisce il quarto movimento: Maria José Montiel ha la giusta scurezza e saldezza anche nella mezzavoce per comunicarci implacabilmente che la vita è miseria e dolore, ma soprattutto ha la facilità nella salita all’acuto che ci annuncia anche la possibilità celestiale. Sarà un corale delle trombe (non proprio in sincronia perfetta purtroppo) a portarci verso la salvezza dell’ultimo movimento, rappresentando il lumicino che, secondo il testo del Lied, Dio ci dà per proseguire nel nostro cammino misterioso. Come nel secondo movimento, qui è una speranza più affermata che effettiva, più voluta che posseduta. Il nodo non è ancora sciolto.

Immediatamente Axelrod attacca dunque il grande Finale, che si apre richiamando il grido che aveva lacerato il tessuto dello Scherzo. Dai brandelli si può ricostituire qualcosa, servirà calma e tempo: quasi 40 minuti di elaborazione del lutto. I richiami vengono inizialmente da lontano, da fuori scena (benissimo i corni, ancora qualche inciampo per le trombe). Si sente il presentimento che qualcosa di grande stia avvenendo, è nell’aria, con grandi rulli dei timpani. Le sonorità sono quelle apocalittiche del primo movimento, ma ora l’apocalisse, la rivelazione, ha anche l’ebbrezza della possibilità di redenzione. Ecco il motivo dell’esplosione di gioia, con fanfare (ottime) e campane (meno belle), il tutto esaltato dalla bravura nell’accumulo di tensione nei ritenuti che abbiamo spesso riconosciuto a John Axelrod. Non sarà nel tripudio rumoroso che Mahler cercherà tuttavia la soluzione, ci si passa, ma è solo per poter far piazza pulita di ogni volontà ancora radicata nella esuberanza, nell’attaccamento alla vita. C’è invece un processo quasi di annullamento, in cui dapprima rimangono ancora dei suoni bandistici in lontananza, poi solo un disegno del flauto, significativamente orientaleggiante, a spegnersi in un silenzio con corona. Da qui, dal nulla, emerge il coro cantando “Aufersteh’n”, risorgere. Ottimo il pianissimo tenuto dal coro de laVerdi, come sempre diretto da Erina Gambarini. Il passaggio è segnato Langsam, Misterioso, come sarà il coro conclusivo dell’Ottava, recente conquista di questa compagine nel novembre scorso. Analogo a certi passaggi dell’Ottava è anche l’intervento della voce solista del soprano Eteri Gvazava, che rifinisce le frasi del coro sovrapponendosi ad esse con una scrittura omologa ma più cesellata. Bene dunque soprattutto la precisione e duttilità, merito di una messa di voce molto controllata e corretta. Il leggero vibrato non è molesto ma anzi aggiunge un tocco drammatico che tornerà utile nelle frasi successive. Ad esempio rimane impressa una piccola e ricercata incrinatura sulla parola “gelitten”, conclusione della cruciale frase “non abbiamo sofferto in vano”. Nella sua escatologia qui Mahler piazza un marcato, presentandoci così tutta la sua fatica di compositore incompreso che egli vorrebbe finalmente riscattata. Con l’apporto della meno incisiva fraseggiatrice Montiel (che torna per una parte duettistica che, come diceva Bernstein, è molto operistica), la Gvazava ha saputo ben comunicare questo pathos. Ricordiamo che questa interprete esegui proprio questo stesso ruolo con Claudio Abbado, alla cui memoria laVerdi ha colto l’occasione di dedicare questa significativa sinfonia, che tratta proprio il tema del passaggio estremo. Potente, seppur non perfettamente articolato nel fraseggio tedesco, il gran finale in cui protagonista indiscusso è il coro. Peccato il solito organo elettronico dal suono artificioso, ma trascinata dalla sublime idea mahleriana la mente può distrarsi da queste piccole imperfezioni materiali e godere del raggiunto trionfo.

Nel complesso estremamente positiva la prova dei legni e promossi anche i volenterosi ottoni (corni specialmente), ogni tanto con qualche bruschezza nello smorzare le frasi ma a fronte di una partitura che li impegna a dismisura. Qualche riserbo sui violini che, per la musica di Mahler o Strauss, mostrano qualche sporcizia di troppo nei pianissimi. Grande e indiscutibile entusiasmo comunque della sala dell’Auditorium, che comincia oramai ad essere pratica di sinfonie di Mahler (ne aspetta un’altra altrettanto impegnativa e cupa, senza nemmeno la luce finale, settimana ventura). E sinceramente è sempre un piacere poter sentire queste grandi conquiste della storia della musica a Milano, dove gli altri enti sinfonici latitano con poche e spesso banali e ritrite comparsate all’anno.