Parsifal ribadisce con forza la mistica di Wagner. Oltre il sincretismo di elementi leggendari di varie tradizioni, c’è una disperata ricerca di salvezza: una soteriologia che, come appunto la mistica, va persino oltre le religioni dalle cui codificazioni il bardo attinge. La confusione di temi e miti è così solo un aspetto della spiritualità universale cantata dal Nostro.
Il “puro folle”
L’abilità di Wagner è consistita in questa intuizione: le grandi religioni, le tradizioni più forti, rispondono ad un solo principio, un solo Spirito; in virtù di ciò, esse sono attraversate da tratti che si ripetono nel tempo, annullandolo, perché fanno tornare sempre al principio dei tempi. Così con la figura del “puro folle” (der reine Tor), che torna nelle opere wagneriane come torna nella tradizione. Soprattutto in quella cristiana: se non si può parlare di esaltazione del buon “idiota” (come nel cristologico Mishkin di Dostoevsky), c’è indubbiamente un’esaltazione dei semplici. Gli esempi più celebri dal Nuovo Testamento sono sicuramente il discorso della montagna pronunciato dal Cristo assieme all’appello «Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò» (Matteo XI, 28) e alle predicazioni di san Paolo (il capitolo XIII della Prima Lettera ai Corinzi: «Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi amore, sarei un rame risonante o uno squillante cembalo»). Poi vi sono i grandi santi, da Agostino (stando al quale è meglio sapere poche cose, ma conoscere Dio, piuttosto che saperne tante, ma non conoscere Dio) a Francesco d’Assisi (che sosteneva essere la Bibbia, se non i “soli” Vangeli, l’unica lettura necessaria) e all’analfabeta ed intelligentissima (il cristianesimo è difatti la fede che rende saggi i semplici – Salmo 19) santa Giovanna d’Arco. Infine c’è tutta una tradizione diffusa per la quale ricordiamo il “ragazzo idiota” incontrato dal gesuita francese Jean-Joseph Surin, la santa Gemma Galgani, ma anche la nostalgia di Pasolini, cristiano non osservante ma autentico, per il mondo dei semplici devastato dalla società dei consumi. Nel cinema questo archetipo sarà ripreso anche da Ermanno Olmi, ma raggiunge l’apice nelle prodezze poetiche che Tarkovsky e Guerra hanno fatto pronunciare a Erland Josephson, il Domenico di Nostalghia.
Una tradizione profonda in cui Wagner si inserisce dunque con coerenza, nonostante le sue libertà filologiche. I suoi fou savant sono semplici sia per il vuoto delle loro menti che per quello della loro anima: qui Wagner è vicino a Margherita Porete, la beghina che con “semplici” intendeva quelle anime sguarnite di ogni contenuto contingente per essere meglio disposte ad accogliere Dio. Seguendo sant’Agostino nel De Trinitate: « Comprendi dunque, se lo puoi, o anima tanto appesantita da un corpo soggetto alla corruzione ed aggravata da pensieri molteplici e vari: comprendi, se lo puoi, che Dio è verità ». Un messaggio tipicamente mistico che a Wagner deve essere arrivato mediato dal germanico Meister Eckhart, domenicano e professore a Parigi come i carnefici della Porete, ma suo ammiratore.

L’incomprenso
Ad Eckhart Wagner si è inoltre trovato accomunato dalla natura dei fraintendimenti di cui è stato oggetto: la tensione mistica del suo Parsifal, cristiano oltre il cristianesimo, non poteva che portare ad aggressioni e mistificazioni. Esso accrebbe l’ostilità di Nietzsche (che pure ammise una grande ammirazione per la musica dell’opera, soprattutto per il preludio – «Roba che si trova solo in Dante», altro autore pure vituperato da Nietzsche), già fomentata dalle confidenze del compositore. Ai pesanti insulti del filosofo seguì il dileggio di un Marinetti qualsiasi, che indicò nell’opera la dimostrazione di una decadenza culturale che lui stesso si premurava d’annunciare con compiacimento (oltre ad averla rappresentata meglio di Wagner). A ciò si aggiunga un retaggio condizionato da una certa malizia: ossia, l’appropriazione di Wagner da parte della intellighenzia nazifascista: la stessa che, sulla scorta di Alfred Rosenberg, ha condannato il cristianesimo paolino per la sua “poco virile” umiltà, preferendogli Eckhart in base ad un marchiano fraintendimento della sua idea di “nobiltà”; la stessa che ha condannato Goethe perché “traditore” dell’Europa virile fondata da Dante. Lo stesso Rosenberg predicò, sulla scorta di un Anticristo nicciano in malafede, l’allontanamento d’Europa dalla religiosità paolina, trovando in Eckhart ciò che non è, ossia un aggressivo propugnatore di una “germanicissima” ideologia bellicosa.
In cotanto marasma, Julius Evola ha avuto agio di accusare Wagner d’aver tradito le radici pagane del ciclo arturiano. In Italia è oramai incancellabile la traccia lasciata da Guido Manacorda, che si è impegnato a tramandare la poetica wagneriana tenendo quali riferimenti sia una idea tutta propria di cattolicesimo (attirandosi così da Evola l’accusa di mistificare la spiritualità germanica) che la filosofia confusionaria di Rosenberg. Che Manacorda, incaricato di stabilire un tramite intellettuale fra Italia e Germania, leggesse Wagner (fra l’altro strettamente legato alle lettere di S. Paolo) sulla scia di Rosenberg, rende bene l’idea della distorsione dell’immagine che accompagna il buon Riccardo sin dagli anni ’30 del secolo scorso.
Percorso spianato quindi al dilagare nella doxa post-bellica della ripulsa per un compositore satanico: nazista prima del nazismo, antisemita, pagano, esoterista, vegetariano… Caratteristiche che spesso non gli erano affatto estranee, ma a volte placate da un fondo di saggezza. Da qui a condannarne le opere, ne passa: specialmente se in esse emerge ripetutamente quella mai doma ansia di redenzione che era e resta la componente più intima e commovente del grande compositore. Tanto terrificanti certi proclami nella sua autobiografia e nel suo epistolario, quanto nobili (in senso, appunto, eckhartiano) gli slanci espressi nelle opere. Opere dall’intento dichiaratamente salvifico: a più livelli. Wagner è stato l’Olandese in cerca di salvezza per se stesso, Siegfried profeta del nuovo teatro d’opera europeo e addirittura Brünnhilde che prende su di sé le colpe del mondo e scatena il Ragnarok per purificare il mondo. Oppure Parsifal, figura cristologica, anche più di suo figlio Lohengrin; Parsifal redentore della Chiesa corrotta e perciò ferita, divenendo nuovo portatore del corpo di Cristo alla cristianità smarrita.
Wagner mistico
Il peccatore in cerca di salvezza, il buon idiota che può offrirla. Due volti di una stessa emergenza, come del medesimo rapporto con la saggezza. Da una parte Brünnhilde e Amfortas, divini ma feriti, colmi tanto di conoscenza quanto di disperazione, dall’altra il più umile degli eroi che può redimerli. Anche qui scopriamo in Wagner una tensione clamorosamente mistica: alla ricerca del Graal, insegue con religiosissimo fervore la rinuncia a se stesso, alla propria identità, per lo più costituita di ciò che si conosce – svincolarsi dalla molteplicità delle nozioni che si hanno nel mondo, per ritrovarsi nell’Uno. Wagner vorrebbe essere Siegfried, il “ragazzo stupido” che nulla conosce; o Parsifal, “l’oca” rimproverata da Gurnemanz, più che il cigno venerato dal principe Ludwig. Non a caso Wagner sceglie va contro le sue fonti e sceglie che sia proprio un cigno, per lui simbolicamente collegato al divino Lohengrin, a venir abbattuto da Parsifal al suo ingresso in scena.
Wagner ha anticipato quanto espresso da Eliot, in consonanza coi Padri: «Conoscenza del linguaggio, ma non del silenzio; / Conoscenza delle parole ed ignoranza del Verbo. / Tutta la nostra conoscenza ci porta più vicini alla nostra ignoranza, / Tutta la nostra ignoranza ci porta più vicini alla morte» ed ancora «Molti sono impegnati a scriver libri ed a stamparli, / Molti desiderano vedere il loro nome a stampa, / Molti leggono solo i risultati delle corse. / Leggete molto, ma non il Verbo di Dio, / Costruite molto, ma non la Casa di Dio.» (Cori da “La Rocca”). Parsifal, come altre sue opere, è un grandissimo esempio di come al di fuori del sacro non possa esserci vera cultura, ma solo rumore di fondo: il maestro è andato ben oltre l’arte corrotta e fine a se stessa che tanto gli ripulse, persino oltre la missione redentrice (non conseguita) da lui affidata alle proprie opere: la sua è una comunicazione con Dio, la stessa delle grandi tradizioni religiose, quella delle grandi culture. Dialogo con Dio che diviene non un rapporto a due, assieme ad un Altro, ma assimilazione: ritorno all’Uno – l’uomo non è più un essere a sé che, ponendosi al centro del mondo, blatera attorno a se stesso, ma trova la propria origine perdendosi nell’Essere. Tornando all’Uno, Wagner ha espresso la grandezza di questo Essere, facendone scatenare il fragore nella marcia funebre di Siegfried, come nel lamento di Brünnhilde, ne ha espresso la poesia nel sogno di Elsa o nel racconto di Lohengrin; come ne ha raffigurato la magnificenza in Parsifal. Il tema del Graal deve essere qualcosa di molto simile a ciò che il più eletto dei cavalieri può udire in presenza dello Spirito Santo: è davvero la messa in musica del Divino – traslando quanto scritto da Eliot dei tentativi umani d’immaginare i misteri cristiani, si tratta davvero del ricordo visibile della luce invisibile.
Chi è Parsifal
Un piccolo approfondimento filologico ci mostra che alcune di queste scelte sono proprio aggiunte wagneriane rispetto ai testi a cui il compositore-poeta si è ispirato. Il caso del cigno abbattuto ne è esempio: il Perceval di Chrétien uccide una cornacchia, il Parzival di Wolfram un’oca. Dopo aver spiegato tramite Gurnemanz gli antefatti allo spettatore, Wagner sfrutta insomma la prima rottura negli equilibri della scena per tracciare la propria firma sulla nuova versione della leggenda del più puro fra i cavalieri.
Riprendendo con ordine la storia di questa leggenda, affrontiamo in primis Perceval, poema incompiuto della fine del sec. XII di Chrétien de Troyes, troviero provenzale (forse chierico) alla corte di Maria di Francia, contessa e poetessa. Egli è anche autore del Cavaliere della Carretta, con protagonista Lancillotto, nonché probabilmente di una delle prime stesure della storia di Tristano e Isotta. Pochi decenni dopo, a Chrétien si ispirò Wolfram von Eschenbach, già comparso nella produzione wagneriana in qualità di personaggio nella “Sängerkrieg” del Tannhäuser. La maggior insistenza di Wolfram sul piano spirituale della vicenda ha fatto del suo Parzival la vera fonte primaria di Wagner. Il Parzival di Wolfram è un romanzo cortese piuttosto atipico: va ben oltre le avventure, pur particolarissime, di Chrétien, che era più precisamente inserito nel genere cavalleresco. Wolfram, pur avendo ben ricalcato lo schema del poema del suo predecessore, ha maggiormente insistito sulla spiritualità della vicenda, il che fa del suo Parzival l’iniziatore del bildungsroman. Esso è dunque capofila del “genere” letterario tedesco per eccellenza, costellato da riferimenti alle religiosità che si sono incontrate nella formazione della intellighenzia spirituale (e spesso spiritualista) d’Europa. Wagner è stato uno dei grandi eredi di questa tradizione. Chiaramente non è quindi lui il primo responsabile della cristianizzazione delle leggende graaliche: il piatto o la coppa era già oggetto di culto presente fra Celti e Romani, ed è stato Robert de Boron nel suo Giuseppe d’Arimatea ad aver per primo messo per iscritto l’idea del calice che avrebbe raccolto il sangue del Cristo. Sia Chrétien che Wolfram fecero riferimento al poema di Robert, ma Wolfram fu il primo a dare al simbolo religioso una rilevanza nel percorso di formazione del protagonista, tematica poi molto cara all’Ottocento romantico tedesco.
Confrontando il Parzival e il Parsifal (il cambio di grafia fu utile a Wagner per assumere l’etimologia che trovò in Joseph von Görres: l’inversione fal-parsi, che in arabo significherebbe “puro folle”), scopriamo che gli elementi simbolici e religiosi che segnano le tappe da bildungsroman sono sostanzialmente gli stessi. In entrambi i testi infatti il padre del protagonista muore in battaglia, e la madre sola decide quindi accudire il figlio lontano da ogni impulso cavalleresco, nell’ingenuità e nella purezza. Simile è anche il ruolo di tutore di Gurnemanz, ma soprattutto il personaggio del re ferito e custode del Graal: Amfortas. Quest’ultimo ci permette una piccola divagazione in quanto esempio eminente dell’archetipo del re pescatore (o peccatore, data la somiglianza delle due parole in francese) molto caro all’antropologo James Frazer. Caratteristica di questa figura regale è l’avere una menomazione permanente alle gambe o ai genitali che causa una immobilità che, per una legge transitiva tipicamente medioevale, si trasmette a tutta la comunità e alla terra in una crisi di sterilità generale. Simbolicamente siamo di fronte alla metafora di una situazione ricorrente nella storia della civiltà: uno stallo spirituale della “classe dirigente” che diventa una diffusa paralisi esistenziale quale quella che ha ben descritto T.S. Eliot nel suo esplicito poema The Waste Land. La simbologia dei grandi cambiamenti etici e sociali si rifà dunque archetipicamente alle cicliche crisi di fertilità della terra, da sempre interpretate come punizioni divine contro i peccati della popolazione e come occasioni per invocare un rinnovamento. La funzione di prova spirituale del re pescatore sarà ben compresa anche da Montale, che gli dedica versi significativi: “si ritiene / che il Re dei pescatori non cerchi altro / che anime”. Parzival e Parsifal, che devono tornare al Graal da penitenti per poterlo finalmente avvicinare, sono protagonisti della stessa istanza di rigenerazione spirituale della forza vitale, seppur in epoche tanto lontane.

Ciò che differenzia invece totalmente i due è il ruolo della loro metà femminile: Cundrie è la classica donna angelicata della tradizione medioevale, Kundry è una diabolica seduttrice. La via verso la salvezza che nel Trecento era tortuosa ma lineare (si pensi anche alla Divina Commedia), nell’Ottocento deve necessariamente passare attraverso il contatto con la perdizione (si pensi al Faust). In Chrétien e Wolfram la mancanza del protagonista alla prima visione del Graal è quella di essere troppo ingenuo e indeciso, e dunque di non chiedere, non andare fino in fondo verso la virtù e la santità (l’ignavia è in posizione iniziale anche del percorso dantesco). In Wagner invece viene subito chiarita non solo la natura della reliquia quanto anche quella della ferita, che, seguendo Le morte d’Arthur di Thomas Malory (siamo nel Quattrocento), viene descritta come un “colpo doloroso” (dolorous stroke) inflitto da un’altra reliquia: la Lancia del Destino che ferì Cristo sulla Croce. Parsifal nel primo atto non è solamente ignavo, ma è soprattutto immaturo perché non ha fatto esperienza di quella ferita, cioè del dolore, del peccato e dell’indegnità, ovvero del limite umano che la madre gli aveva tenuto celato.
Il mito germanico
Il Parsifal di Wagner ha così portato la sua contemporaneità a riscoprire i valori simbolici delle leggende medievali negli ambienti völkisch. Tali circoli, diffusi in Germania a cavallo fra i secoli XVIII e XIX, erano congreghe di borghesi spaventati dall’irruzione in Germania di elementi “estranei”: che fossero i primi movimenti comunisti, le teorie psicanalitiche o soprattutto gli ebrei. Rifuggendo tali minacce, i conservatori tedeschi trovavano un asilo nella propria comune identità germanica. Alla piattezza della vita piccolo-borghese contrapponevano così un retaggio eroico, la nostalgia di un passato glorioso, la pretesa di essere parte di una razza dominante. Per quanto riguarda il Parzival di von Eschenbach, si creò una vera e propria caccia al messaggio esoterico simile a quella scatenata più recentemente da altre ricerche del Graal. La lancia di Longino, garante del potere imperiale, sarebbe così stata bramata da Adolf Hitler: ciò racconta Trevor Ravenscroft, che nello strampalato Hitler e la lancia del destino racconta d’aver letto un esemplare del poema di Wolfram con annotazioni del futuro Führer, allora disoccupato a Vienna, il quale in note a margine avrebbe testimoniata la propria identificazione in Klingsor. L’inizio di uno sciocchezzaio culminato nelle succitate critiche di vari “gnostici”, convinti che la cristianizzazione/svirilizzazione operata da mastro Richard avesse offeso l’onore della tradizione germanica – il loro onore.
Ricerche prive sia di fondamento “scientifico” che di un puro slancio spirituale: tanto da non comprendere né che con la sua opera Wagner è andato ben oltre qualsiasi spiritualismo spicciolo, né che la sua libertà filologica non ha nulla di scorretto. Il Ring, enorme monumento sia all’identità germanica che alla propulsione spirituale di quello che Eckhart chiama L’uomo nobile, nella disinvoltura con cui rappresenta i personaggi dell’Edda non compie nulla di sbagliato, essendo già i personaggi dei canzonieri nordici (come quelli di ogni altra tradizione) mobili. Come ha dimostrato l’eccelso Mircea Eliade in Le mythe de l’éternel retour, nelle tradizioni leggendarie non si hanno personaggi precisi, ma figure senza connotati fissi che svolgono funzioni archetipali; lo si nota bene a teatro, dai classici – nonostante la ribellione di Terenzio – alla commedia dell’arte. Nulla di illegittimo quindi se in Parsifal il compositore-poeta attribuisce una carica soteriologica prossima alla cristologia al protagonista; tanto più se non rinnega nulla, salvo cambiare minimi dettagli di fondo, delle fonti; tanto più se non si allontana veramente dall’effettivo sincretismo della tradizione parsifaliana; tanto più se in essa vi sono per davvero gli elementi cristiani da Wagner esaltati.
Sacralità e sincretismo
Vi è così coerenza nella costruzione wagneriana: i fatti tornano, le fonti non sono smentite ed il Nostro, pur passando attraverso le inevitabili bazzecole, giunge ad un pensiero ben saldo. Un ruolo cruciale nella struttura dell’opera è svolto infine dalle tre virtù teologali che san Paolo, per quanto giudeo, traccia nel già citato cap. XIII della Prima lettera ai Corinzi. Al maestro ben riesce infatti il triplice parallelo tra Fede / Speranza / Carità e Motivo della Fede / del Graal / della Cena. Un altro ottimo esempio sia della genuinità del sincretismo wagneriano che dell’approccio sacrale dell’autore è nella coerenza della doppia identificazione di Kundry tanto con la Maddalena della tradizione cristiana (la peccatrice pentita) quanto con la Prakriti della tradizione indiana (il principio femmineo corrispondente all’asse della terra, al samsara – ossia, il dominio dell’illusorietà; solo grazie all’unione con Purusha, corrispondente all’asse del cielo, Prakriti può partecipare alla creazione di un Tutto realmente positivo). La consonanza tra queste figure, tanto diaboliche quanto necessarie all’opera redentrice, provenienti da tradizioni fra loro tanto lontane, è una delle tantissime dimostrazioni di quelle che il già citato Eliade, sulla scorta di Carl Gustav Jung, ha chiamato figure archetipali. Coincidenze che non vanno cercate in contatti avvenuti in tempi remoti fra civiltà poi allontanatesi fra di loro ma che nascono da esigenze comuni agli esseri umani più disparati in quanto esseri umani e sono elementi fondamentali della loro essenza.

Trattando il Sacro, la comunicazione fra l’uomo e Dio, Wagner ha provato a partecipare dell’atto religioso, il solo che davvero conti, perché è tramite esso (riandando ad Eckhart, come ad Agostino, sino a Platone) che si torna all’Uno, al Principio che ha trasmesso l’Essere a tutti gli enti – l’Amor che move il sole e l’altre stelle. Da ciò, la fuga di Wagner dal teatro europeo suo contemporaneo, dall’arte per l’arte, dalle pose dei Parnassiani (che pure furono entusiasti delle sue opere, tanto che una loro delegazione, capitanata da Judith Gautier – figlia di Théophile – ed impreziosita dalla presenza di un Auguste de Villiers de l’Isle-Adam ormai incapace di controllarsi, raggiunse il nostro durante l’esilio svizzero). Il Wagner già socialista non poteva aver simpatie per artisti concentrati solo su di sé e sul proprio estro; il Wagner profondamente religioso non poteva averne per l’arte fine a se stessa, per l’uomo che comunica solo con se stesso, per la chiacchiera antropocentrica. Il suo ritorno alla comunicazione col Principio è anche un ritorno al “prima” del trionfo dell’umanesimo e dello scetticismo – ossia, a prima del declino d’Europa. A quel Rinascimento che ancora non aveva rinnegato il Medioevo, al mondo di leggende come quella del “puro folle”. Wagner ha fatto parte per davvero di quell’Europa in cui l’uomo, rifiutando di essere solo una di tante particelle del mondo, ma umilmente pretendendo di partecipare all’Uno, ha costruito il meglio di ciò che l’umanità abbia mai realizzato. Il grande compositore-poeta ha ben ribadito quanto magnificamente detto da Goethe: L’Europa si è costruita nei pellegrinaggi.
Tommaso de Brabant